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WILDER, Billy

di Leonardo Gandini - Enciclopedia del Cinema (2004)
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Wilder, Billy (propr. Samuel)

Leonardo Gandini

Regista e sceneggiatore cinematografico austriaco, di famiglia ebrea, naturalizzato statunitense, nato a Sucha, nella Galizia austroungarica (od. Polonia) il 22 giugno 1906 e morto a Los Angeles il 27 marzo 2002. Vero erede della lezione di Ernst Lubitsch, rispetto a quest'ultimo accentuò i toni dissacranti tanto che l'aggettivo cinico venne abitualmente utilizzato dalla critica dell'epoca per definire i suoi film, con un atteggiamento che lo stesso W. non gradì, nella legittima convinzione che riflettesse l'incapacità dei critici americani di effettuare una lettura più approfondita della sua opera. La sua formazione mitteleuropea gli permise infatti di considerare gli Stati Uniti, i loro valori e il loro sistema di vita, con un atteggiamento disincantato, che si traduceva in maliziosa ironia nelle commedie e in cupo realismo nei melodrammi. Fondamentali nei suoi film risultano i motivi del rovesciamento, dell'identità fittizia, del gioco della metamorfosi e del travestimento che gli consentirono di passare con disinvoltura dalla commedia al dramma approfondendo in una direzione o nell'altra questi temi privilegiati. Grande direttore di attori, autore di storie dalla perfetta struttura narrativa, attento alla composizione dell'inquadratura, nel corso della sua carriera ottenne numerose nominations all'Oscar, aggiudicandosi il premio come miglior regista nel 1946 per The lost weekend (1945; Giorni perduti) e nel 1961 per The apartment (1960; L'appartamento), entrambi vincitori dell'Oscar come miglior film. Nel 1993 il Festival di Berlino volle rendergli omaggio conferendogli un Orso d'oro alla carriera.

Trasferitosi a Vienna nel 1914 con la famiglia, vi compì gli studi superiori e in procinto di iscriversi all'università per diventare avvocato, finì invece per assecondare la sua passione per la scrittura iniziando a lavorare come reporter, attività che proseguì dal 1926 a Berlino. Fu qui che cominciò a scrivere sceneggiature, collaborando, in tale veste, alla realizzazione del celebre documentario Menschen am Sonntag. Das Dokument der Gegenwart (1930) diretto da Robert Siodmak. In seguito scrisse undici film per la UFA, ponendosi al servizio del cinema di intrattenimento. Nel 1933, in seguito all'avvento del nazismo, partì per Parigi, dove ebbe modo di esordire nella regia con il film Mauvaise graine (1934; Amore che redime), diretto con l'ungherese Alexander Esway. Nella primavera del 1934 arrivò a Hollywood, e venne ingaggiato come sceneggiatore dalla Paramount Pictures, che lo affiancò a Charles Brackett. I due formarono una delle più fertili e fortunate coppie di sceneggiatori hollywoodiani dell'epoca classica: negli anni Trenta furono autori di alcune commedie dirette da Ernst Lubitsch, Howard Hawks e Mitchell Leisen, mentre nel decennio successivo firmarono i copioni dei primi film di W. regista. Quest'ultimo, infatti, stanco delle modifiche apportate alle sue battute in fase di ripresa, a partire dal 1942 convinse i dirigenti della Paramount ad affidargli la regia dei film scritti insieme al partner. Il suo nuovo ruolo gli consentì, già dopo il primo lungometraggio, The major and the minor (Frutto proibito), basato su due motivi canonici del suo cinema, ossia la messa in scena e l'ambiguità dell'identità femminile, di non dedicarsi esclusivamente alla commedia, ma di muoversi con disinvoltura nell'ambito di vari generi, dal film di guerra (Five graves of Cairo, 1943, I cinque segreti del deserto) al noir (Double indemnity, 1944, La fiamma del peccato) al melodramma, nell'ambito del quale firmò tre dei suoi film più celebri: The lost weekend, dramma di un alcolizzato girato per le strade di New York, e Sunset Boulevard (1950; Viale del tramonto), incentrato sulle suggestioni e gli artifici del cinema hollywoodiano, entrambi premiati con l'Oscar per la migliore sceneggiatura; The big carnival (1951; L'asso nella manica), su un reporter privo di scrupoli. Per quest'ultimo W. interruppe il sodalizio con Brackett, che dopo qualche anno e la realizzazione di film come il drammatico Stalag 17 (1953; Stalag 17 ‒ L'inferno dei vivi), sulle vicende di un gruppo di soldati in un campo di prigionia tedesco durante la Seconda guerra mondiale, le commedie di grande successo Sabrina (1954) con Audrey Hepburn, e The seven year itch (1955; Quando la moglie è in vacanza), folgorante riflessione sulle manie dell'americano medio interpretata da Marilyn Monroe, e The Spirit of St. Louis (1957; L'aquila solitaria), sulla traversata di Charles Lindbergh (James Stewart), venne sostituito da I.A.L. Diamond, forse più adatto del predecessore al crescente cinismo del regista, a partire dalla commedia venata di malinconia Love in the afternoon (1957; Arianna). Dalla seconda metà degli anni Cinquanta, infatti, anche le commedie di W. cominciarono a incupirsi, muovendo da presupposti tragici (alla base dell'esilarante Some like it hot, A qualcuno piace caldo, del 1959, capolavoro del cinema brillante, vi è addirittura il massacro di San Valentino), o costituendo comunque, al di là del lieto fine, amari ritratti di solitudine urbana, come nel caso di The apartment (premiato con l'Oscar anche per la sceneggiatura) e The fortune cookie (1966; Non per soldi… ma per denaro).

W. seppe infatti introdurre, in un cinema come quello hollywoodiano, fortemente ancorato all'uniformità psicologica dei personaggi, l'idea pirandelliana che le diverse personalità dell'individuo siano sempre e comunque mutevoli, simili ad abiti da indossare o togliere a seconda delle circostanze e delle opportunità. I suoi film appaiono infatti dominati dal tema della maschera, dell'apparenza ingannevole: uomini travestiti da donne (i due musicisti jazz interpretati da Tony Curtis e Jack Lemmon in Some like it hot, costretti a nascondersi in un'orchestra femminile, dove si esibisce la magnifica Sugar Kane, ossia Marilyn Monroe, per sfuggire ai gangster che danno loro la caccia), o che si fingono invalidi (Fred McMurray nel ruolo dell'assicuratore in Double indemnity; Jack Lemmon in quello di un cameraman di una stazione televisiva in The fortune cookie, uno dei suoi film più sottovalutati), donne che si fanno credere bambine (la protagonista, Ginger Rogers, di The major and the minor), ragazze che si fanno credere donne (la giovane musicista, Audrey Hepburn, di Arianna), signore di età avanzata che provano a ringiovanire (la diva del muto, non a caso impersonata da Gloria Swanson, di Sunset Boulevard), sino allo sdoppiamento di personalità del poliziotto (Jack Lemmon) di Irma la douce (1963; Irma la dolce), e allo scambio di identità tra una prostituta e una moglie borghese in Kiss me, stupid (1964; Baciami, stupido). Quasi sempre però la maschera finisce per aderire in maniera troppo perfetta al personaggio che ha deciso di indossarla, sino a trasformarsi in una condanna, come nel caso della protagonista di Sunset Boulevard, vittima della sua folle ostinazione nel rimanere ancorata al ruolo di diva hollywoodiana, o dell'assassino (Tyrone Power) di Witness for the prosecution (1957; Testimone d'accusa), che nello svelare la sua colpevolezza, ma soprattutto il tradimento verso la moglie (Marlene Dietrich) che lo ha scagionato (fingendo anch'essa di essere ciò che non è), troverà la morte. Oppure, al contrario, la persistenza nella finzione produce nel personaggio una metamorfosi, che lo porta a diventare ciò che all'inizio si sforzava di essere: per es., in Sabrina il milionario (Humphrey Bogart) si innamora davvero della ragazza (Audrey Hepburn) che inizialmente corteggia solo per tenerla lontana dal fratello (William Holden). Del resto quello del rapporto fra sentimento e interesse è, sin dalle prime sceneggiature, un altro tema ricorrente nel cinema di W.: il fascino dei suoi personaggi spesso emerge proprio dal conflitto interiore legato alla necessità di scegliere tra opportunismo e dignità personale. L'attore che nei suoi film ha meglio espresso questa dialettica è senz'altro Jack Lemmon, capace, in The apartment e in The fortune cookie, di impersonare alla perfezione la figura dell'uomo impacciato, incline a subire gli eventi e le personalità più forti della sua, ma capace infine, in un rabbioso soprassalto di dignità, di ribellarsi alle circostanze. Un repertorio tematico di questo tipo portò W. a tratteggiare una galleria di personaggi di forte complessità, in costante evoluzione (si pensi al protagonista di The private life of Sherlock Holmes, 1970, La vita privata di Sherlock Holmes), la cui metamorfosi finisce per essere esemplare dei faticosi compromessi richiesti all'americano medio dalla corsa al successo e alla ricchezza, con uno sguardo rivolto all'Europa ora più aspro e sarcastico (come nel caso della Germania di One, two, three, 1961, Uno, due, tre!, con uno strepitoso James Cagney, già osservata con un'ironia più dolente in A foreign affair, 1948, Scandalo internazionale) ora più indulgente e affettuoso (la Parigi di Sabrina; l'Italia di Avanti!, 1972, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?). Perciò buona parte della critica ha parlato di W. come di un regista brechtiano, autore di film che rappresentano, di fatto, vere e proprie parabole morali. Ciò non gli impedì di integrarsi alla perfezione nel sistema hollywoodiano, in virtù dell'indubbio talento nel realizzare film coinvolgenti, anche se attraversati da personaggi e situazioni sgradevoli, rischiando comunque talvolta l'impopolarità, soprattutto quando il suo desiderio di realismo oltrepassava di gran lunga le convenzioni hollywoodiane. È il caso di The lost weekend, che la Paramount non voleva nemmeno distribuire, ma anche di The big carnival, violento atto d'accusa contro il mondo dell'informazione, giudicato allora eccessivo, e oggi invece considerato una pietra miliare sull'argomento. Il tema venne ripreso dal regista in chiave dissacrante in uno dei suoi ultimi film, The front page (1974; Prima pagina), ambientato nella Chicago del 1929 e interpretato da Jack Lemmon e Walter Matthau (già protagonisti di The fortune cookie, e poi dell'ultimo film di W., il più stanco Buddy Buddy, 1981). Mentre con la sua penultima opera, Fedora (1978), volle compiere un'ennesima amara riflessione sul mondo del cinema, sui suoi miti e le sue infinite maschere.

Bibliografia

A. Hutter, Billie Wilder. Eine europäische Karriere, Wien 1998.

C. Crowe, Conversations with Wilder, New York 1999.

L. Gandini, Billy Wilder, Recco-Genova 1999, con ampia bibl.

Ch. Chandler, Nobody's perfect. Billy Wilder: a personal biography, New York 2004.

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