BINDO di Cione del Frate
Senese, visse nel sec. XIV. Di lui si conosce soltanto una canzone, detta "di Roma", perché in essa si introduce a parlare, sotto forma di donna, l'augusta città che ricorda, dinanzi alle miserie del presente, il suo glorioso passato.
Le contrastanti attribuzioni ad autori diversi, quali sono date dai diversi codici che riportano la canzone "di Roma", hanno fatto discutere a lungo gli studiosi sull'esistenza e sulla possibilità stessa di identificarne l'autore. Dei ventinove manoscritti che riproducono la canzone, ben dieci risultano infatti privi di qualsiasi didascalia e del nome dell'autore; uno l'attribuisce a Domenico da Montichello, uno a Lapo di Colle Valdelsa (padre del più noto rimatore trecentesco Gano di Lapo), cinque a Fazio degli Uberti (e questa è l'attribuzione intorno alla quale si sono svolte le maggiori polemiche, per la vicinanza del tema trattato nella canzone a quello di altre composizioni di Fazio), due ad Antonio Beccari da Ferrara, e dieci recano indicazioni varie nelle quali l'autore viene nominato ora come Bindo da Siena, ora come Dino di Cione da Signa, ora come Bindo di Cione da Siena; due codici, tuttavia, il Riccardiano 1050 ed il Marciano Ital. IX, 132, il primo dei quali risale nella sua prima parte al Trecento, recano per disteso il nome di Bindo di Cione del Frate da Siena. Tale attribuzione sembra la più probabile.
Alcuni documenti permettono di aggiungere qualche determinazione al semplice nome di B.: innanzitutto si ha notizia di un Cione di frate Domenico che, ricordato nel 1418 come possessore di terre nel contado senese, fu forse il padre dell'autore della canzone; nei libri di Biccherna del Comune di Siena, inoltre, si trova registrato all'anno 1338-39, e sotto il nome di Bindo di Cione, il pagamento della tassa relativa alla licenza di portare armi. Ma particolarmente interessante è la patente concessa dall'imperatore Carlo IV di Boemia in data 21 apr. 1355 (attualmente conservata nell'Archivio di Stato di Siena, Diplomatico, anno 1355): in tale patente (che è analoga a quelle concesse a Niccolò de' Beccari e ad altri letterati senesi, i quali furono poi alla corte di Carlo IV in Karlstein e Tangermünde) si accoglie il "nobilis Bindo Cionis civis Senensis" come "familiaris" della corte e "commensalis" dell'imperatore stesso. Ciò, se da un lato è buona testimonianza di un legame che univa B. agli ambienti di corte, dall'altro è valida prova della sua identificazione con l'autore della cosidetta canzone "di Roma": questa infatti venne con ogni probabilità composta in occasione dell'incoronazione imperiale di Carlo IV e fu forse recitata al suo cospetto allorché egli giunse a Siena nella primavera del 1355 (Levi, pp. 482-85).
La canzone, che inizia col verso "Quella virtù che il terzo cielo infonde", segue lo schema ed i moduli propri delle "visioni" medioevali.
Il poeta prega Amore che gli conceda tregua affinché possa comporre "quello che in vision udii narrare / a un'alta donna con canuta chioma / la qual mi disse ch'era l'alma Roma". Un giorno, mentre il poeta, dopo essersi aggirato per la campagna romana, si è addormentato stanco e sconsolato in un prato fiorito, ecco apparirgli una donna "antica, solenne ed onesta", che prende a lamentarsi della sua cattiva sorte ed a rimpiangere i grandi suoi figli del passato: Giulio Cesare, Augusto, Pompeo, Scipione, Muzio Scevola ed altri. Se questi grandi l'hanno condotta gloriosamente al dominio del mondo, ora si trova invece in totale abbandono; ed ella si è rivolta, per salvezza, al Senato romano, ma ne ha trovato la porta chiusa. Fattasi tuttavia sulla soglia dell'aula, ha visto assise sui venerandi scanni la Superbia, l'Invidia e l'Avarizia, per debellar le quali inutile è rivolgersi al re Roberto di Napoli od ai Tedeschi dell'imperatore: è Roma stessa che deve destare gli Italiani ed incitarli alla rigenerazione della patria.
Perché poi Roma possa ottener nuovamente la sua antica gloria e la sua autorità, è necessario che l'imperatore boemo - tra le altre sue imprese gloriose - intervenga a dare alla città un re virtuoso che vi rappresenti l'impero, che sia generoso verso gli amici e tremendo verso i nemici. Solo "se l'Italia soggiace / a un sol re, che 'l mio voler consente", si potrà porre termine allo stato crudele della guerra e inaugurare un tempo di pace. Quando poi questo re voluto da Roma e creato dall'imperatore verrà a morte, gli succederà il figlio o il suo parente più prossimo, in modo che ogni tristo pensiero di tirannia venga meno dinnanzi alla realtà ed alla sicurezza della successione ereditaria e perpetua. E quando infine anche il papa tornerà, sotto la protezione imperiale, nella sua Italia, allora si potrà rivedere il paese veramente pacificato e tutto fiorente di buoni traffici e di benessere.
Con questa aspirazione alla pace nel benessere il poeta giunge al commiato, che risuona assai fervido: "Canzon mia, cerca l'italo giardino / chiuso da' monti e dal suo proprio mare / e più là non passare, / che più non disse chi ti fé la imposta".
La canzone ha una forte e nitida struttura su cui influiscono notevolmente le più alte tradizioni letterarie medioevali, da Boezio a Dante; nella rievocazione dell'antico, glorioso passato, nel rammarico per l'accidia degli Italiani del tempo presente, nell'espressione delle più fervide speranze di redenzione e nei desideri di una vita ordinata e serena, vissuta in libertà sotto la pacifica autorità dell'imperatore e del papa, la canzone di B. si ricollega al pensiero politico trecentesco che, da Dante, va all'Uberti ed al Petrarca. Di Dante reca l'appassionato richiamo al passato, quando un vicario imperiale governava nella pace le contrade italiane; degli altri l'aspirazione ad un'autonomia che sia segno vero di libertà e di pace.
Nell'intero complesso si fa sentire la coscienza (sia pure incerta) della necessità di una partecipazione profonda del popolo alle vicende del paese; il bisogno di una rinascita spirituale, riflesso della temperie politica in cui la canzone venne composta.
Bibl.: G. Carducci, prefaz. alle Rime di m. Cino da Pistoia e d'altri del sec. XIV, Firenze 1862, p. VII (poi in Libro delle prefazioni, Città di Castello 1888, p. 39); A. D'Ancona,Il concetto della unità polit. nei poeti ital., Pisa 1876, p. 28 (poi in Studi di critica e storia letter., Bologna 1880, pp. 41 ss.); G. Borgognoni, B. Bonichi e alcuni altri rimatori senesi, in Studi d'erudiz. e d'arte, Bologna 1877, p. 3; R. Renier,Liriche edite ed ined. di Fazio degli Uberti, Firenze 1883, pp. CCCVI-CCCXI, 96-114 (in queste ultime è pubblicata la canzone, attribuita a Fazio degli Uberti, con il titolo "Lamento di Roma"); I. Sanesi, B. Bonichi da Siena e le sue rime, in Giorn. stor. della lett. ital., XVIII(1891), pp. 1-75 (particolarmente v. App. II, pp. 61-64); E. Levi, Il vero autore della canzone di Roma (B. di Cione del Frate da Siena), in Rendic. dei R. Ist. lomb. di sc. e lett., s. 2, XLI (1908), pp. 471-90; I. Sanesi, La canzone "Quella virtù che 'l terzo cielo infonde", in Giorn. stor. della lett. ital., LIV (1909). p. 273; B. Croce,Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1933, p. 155; N. Sapegno, Il Trecento, Milano 1952, pp. 488 s.; Diz. Bompiani delle opere e dei personaggi, II, p. 78, s. v. Canzone di Roma.