MATTEUCCI, Nicola
Nicola Matteucci (nome completo: Nicola Matteucci Armandi Avogli Trotti) nacque a Bologna il 10 gennaio 1926 da Lionello, ingegnere e ufficiale della Marina, e da Giuseppina Acquaderni (nipote del conte Giovanni Acquaderni, fondatore dell’Azione Cattolica, dell’Avvenire d’Italia e della Banca del Piccolo Credito Romagnolo).
M. frequentò il liceo classico Galvani di Bologna, dove ebbe come compagni Pier Paolo Pasolini e molti dei futuri fondatori de Il Mulino. Il suo professore di filosofia, Giuseppe Gabelli, oltre che un bravo storico della filosofia era un antifascista e diede agli studenti un’educazione critica verso il regime, facendo leggere loro opere come la Storia del Liberalismo europeo di Guido de Ruggiero e influenzandoli permanentemente. Da giovane M. era appassionato di teatro e di cinema, due passioni che ebbero un risvolto pratico molti anni dopo, quando divenne consigliere di amministrazione della Rai e scrisse sceneggiature di programmi da lui ideati per la televisione.
Durante la Seconda Guerra Mondiale M. e la famiglia furono sfollati a Roncrio, sulle colline di Bologna, dove era attiva una cellula partigiana di cui faceva parte anche Tito Carnacini, futuro rettore dell’Università di Bologna. All’indomani della Liberazione, l’8 maggio 1945, il padre Nello si recò in bicicletta in Romagna a controllare le tenute di famiglia ma non fece più ritorno: nonostante le ricerche accurate e l’aiuto prestato da amici del Comitato di Liberazione Nazionale il corpo non fu mai più ritrovato. Lionello Matteucci non era mai stato un fascista né tantomeno un repubblichino, anzi aveva più volte devoluto denaro al CLN, ma era un possidente terriero e quindi un ‘nemico oggettivo’ nel clima di rivoluzione comunista dell’immediato dopoguerra. M. mantenne un assoluto riserbo su questa drammatica vicenda, che sconvolse per sempre l’esistenza della sua famiglia, fino a un’età assai tarda: si decise a precisare i fatti solamente nel 1990 quando, sull’onda delle ricerche di Giampaolo Pansa sugli eccidi avvenuti nei “triangoli della morte” in Emilia-Romagna, il direttore de Il Giornale Indro Montanelli rivelò la vicenda.
Nella primavera del 1959 M. sposò Dianella Salvadori Paleotti, cugina di Max Salvadori (1908-1992), membro del movimento Giustizia e Libertà e, dal 1943, organizzatore della lotta al regime fascista nell’Italia centro-settentrionale.
Nel 1996 M. fu proclamato professore emerito dell’Ateneo bolognese e gli fu conferita la medaglia d’oro dei benemeriti della cultura dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. M. svolse inoltre un’intensa attività come editorialista per Il Mulino e come commentatore politico (in RAI e per i quotidiani Il Resto del Carlino e Il Giornale di Indro Montanelli). M. fu anche un grande organizzatore di cultura attraverso le diverse attività dell’Associazione Il Mulino e delle sue collegate (come l’istituto di ricerca Cattaneo, di cui fu presidente), e nell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Giovanni Treccani (fu condirettore dell’Enciclopedia delle Scienze Sociali), nonché con la fondazione e direzione di varie riviste, tra cui Il Pensiero Politico nel 1966 (assieme a Mario Delle Piane, Luigi Firpo e Salvo Mastellone) e Filosofia Politica nel 1987; con Norberto Bobbio (e successivamente Gianfranco Pasquino) diresse il Dizionario di Politica dell’Utet (1976), per il quale stese alcune fondamentali voci come “Contrattualismo”, “Liberalismo”, “Sovranità”.
Morì a Bologna il 9 ottobre 2006.
M. si laureò in Giurisprudenza all’Università di Bologna nel 1948, discutendo una tesi su Il diritto nella filosofia dello spirito di Benedetto Croce, e successivamente in Filosofia, nel 1950, con una tesi su Antonio Gramsci e la filosofia della prassi; in entrambi i casi il relatore fu Felice Battaglia, filosofo del diritto di formazione neo-idealista e di orientamento spiritualista cristiano, che ebbe un’influenza duratura sul suo pensiero, e verso il quale M. dimostrò la devozione che si ha verso un maestro e l’affetto che si prova per un padre. Nel 1974 M. passò sulla cattedra di Filosofia Morale a Lettere e Filosofia che era stata di Battaglia.
Nel 1949 M. vinse una borsa di studio presso l’Istituto Italiano Studi Storici, da poco fondato a Napoli da Benedetto Croce e ospitato nella propria abitazione, palazzo Filomarino. Il direttore era lo storico Federico Chabod, che seguì M. nella lunga gestazione che portò, dopo sette anni di ricerche tra Napoli (dove fu nuovamente borsista all’Istituto nel 1952), Bologna, Ginevra e Parigi, alla pubblicazione del volume su Jacques Mallet-Du Pan (1957). L’esperienza dell’Istituto ‘Croce’ fu estremamente formativa, grazie all’atmosfera di rinnovamento intellettuale europeo che vi regnava ad opera di Croce e Chabod; lì M. forgiò alcuni dei legami di amicizia e collaborazione scientifica che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita, in particolare con Vittorio De’ Caprariis e Girolamo Arnaldi, ma anche con Giovanni Pugliese Carratelli, Ettore Lepore e, in rapporto spesso ‘dialettico’, Gennaro Sasso.
Nel 1951, con alcuni amici del liceo Galvani e altri giovani studiosi (Antonio Santucci, Fabio Luca Cavazza, Federico Mancini, Luigi Pedrazzi, Pierluigi Contessi, Gianluigi Degli Esposti) diede vita, scegliendo la data simbolica del 25 aprile, alla rivista Il Mulino, di cui fu a più riprese direttore, cui seguì nel giugno 1954 l’omonima casa editrice, due imprese culturali destinate a divenire entrambe punti di riferimento della cultura italiana. La rivista condensò intorno a sé intellettuali di varia provenienza culturale (tra i primi Gino Giugni, Ezio Raimondi e Francesco Compagna), uniti dal desiderio di rompere le barriere politiche e di portare la cultura italiana del dopoguerra al di là dell’azionismo e della retorica dell’antifascismo verso una dimensione di valori genericamente liberali; in essa convivevano cattolici non clericali, socialisti e comunisti non dottrinari, liberali non solo liberisti, antidogmatici che si sentivano post-fascisti più che anti-fascisti. Negli stessi anni la casa editrice Il Mulino introdusse in Italia la sociologia americana (a partire dal Talcott Parsons) e successivamente quella tedesca (Norbert Elias e Niklas Luhmann per esempio), il costituzionalismo anglosassone, filosofi come Karl Popper (tradotto da Giuliano Pancaldi), storici come Gerhard Ritter (tradotto da Enzo Melandri), ma anche il teologo Karl Barth, il filosofo del diritto Hans Kelsen e il suo avversario intellettuale Carl Schmitt, il politologo Carl Friedrich e il sociologo Erving Goffman e tanti altri autori fino ad allora sconosciuti o ai margini della cultura italiana. Fedele alla propria vocazione di elevare la cultura italiana, la casa editrice propose anche collane dedicate, per esempio, ai “classici della democrazia” o antologie di scritti politici, in formato tascabile ed economico, dei grandi autori del pensiero politico occidentale, rendendoli così usufruibili a un grande pubblico. M. mantenne sempre un rapporto strettissimo con Il Mulino, che divenne ancor più la sua casa una volta andato fuori ruolo dall’Università nel 1996: lo si poteva incontrare tutte le mattine nel suo studio al piano terra nella sede della rivista in Strada Maggiore.
Dalla seconda tesi di laurea scritta sotto la guida di Battaglia M. trasse il suo primo libro, Antonio Gramsci e la filosofia della prassi (1951), uno dei primi lavori in Italia su questo autore: in esso egli metteva in luce le radici idealistiche e l’influsso dello storicismo immanentistico crociano sullo sviluppo della nozione di ‘prassi’ di Gramsci e sosteneva, contro Croce, l’organicità del suo pensiero. Ad esso seguirono due ponderosi lavori di storia del pensiero politico ideati sotto la guida di Chabod, dedicati rispettivamente al giornalista ginevrino Jacques Mallet-Du Pan, commentatore critico della Rivoluzione Francese, e al giurista francese del XVII secolo Jean Domat. In queste opere si avverte chiaramente l’influsso di Chabod nell’approccio di storia delle idee e nella scelta di contestualizzare gli autori all’interno della cultura europea dell’epoca. Nella prefazione che scrisse in occasione della ripubblicazione del volume su Mallet-Du Pan (2004), M. affermerà che con quell’opera intendeva consapevolmente inserirsi in quella tradizione interpretativa italiana liberale della Rivoluzione Francese che definiva “la linea Salvemini Omodeo Chabod che collegava gli ideali del 1789 all’età della Restaurazione”.
Negli anni Sessanta emerge con evidenza quella vena teorica che, coniugata con la base di storia del pensiero politico, caratterizzerà tutti i successivi lavori di M. Nel 1963 pubblicò il saggio Positivismo giuridico e costituzionalismo, che rimarrà uno dei suoi più significativi lavori teorici per l’equilibrio tra storia costituzionale e teoria del diritto: frutto di una lunga meditazione sul rapporto tra teoria e prassi, in esso M. critica la visione kelseniana di un diritto auto-fondato e, in generale, il positivismo giuridico, che egli considera una dottrina statalista perché concepisce la costituzione come un semplice strumento per ordinare i poteri dello Stato, e ne desume l’esistenza dalla mera realtà di un regime politico, per quanto autocratico o totalitario. M. invece, rifacendosi al costituzionalismo settecentesco e alla sua visione della costituzione come scelta di forma politica e norma fondamentale per la protezione dei diritti di libertà individuali, ritiene che essa debba essere necessariamente alla base dell’ordinamento politico e giuridico e dell’esistenza stessa dello Stato. Questo interesse per il ruolo della costituzione in un sistema politico porterà M. a studiare in profondità la storia del costituzionalismo. Nel 1965 egli scrisse una “monumentale introduzione” (150 pagine) alla traduzione italiana dell’opera di Charles H. McIlwain, La rivoluzione americana. Una interpretazione costituzionale. In essa M. situa il libro di McIlwain nel dibattito storiografico americano, evidenziando nel contempo le idee e i valori alla base della Rivoluzione Americana, da molti interpreti descritta invece come “senza ideologie e senza dogmi”. M. descrive il costituzionalismo come “tecnica della libertà contro il potere arbitrario”: ‘tecnica’ in quanto “i costituzionalisti hanno mostrato di avere più fiducia nelle istituzioni che negli uomini” e dunque operarono attraverso il diritto. Il discorso quindi si allarga e M. ribadisce la necessità di pensare un “nuovo liberalismo” che sia in grado di affrontare le sfide dell’epoca, superando l’ormai sorpassata categoria dell’antifascismo, un tema centrale delle sue riflessioni negli editoriali degli anni Cinquanta su Il Mulino; viene qui affermata anche la necessità di aprire un dialogo tra liberali e cattolici, fondato su una corretta interpretazione della laicità intesa come libertà di coscienza e non come dogma ideologico. Critico del ‘laicismo’, che considerava più dogmatico e intollerante della religione, M. mantenne vivo per tutta la propria vita il dialogo con il pensiero cattolico e, più in generale, l’apertura verso la religione: sebbene si considerasse un laico, M. aveva un gran rispetto per la religione, che considerava una risposta ai più grandi misteri che attanagliano l’uomo, e per gli uomini di fede. Così, fu amico e grande estimatore di Augusto del Noce, al quale riconosceva l’originalità delle riflessioni sulla modernità e il nichilismo, che pubblicò con Il Mulino il proprio fondamentale lavoro Il problema dell’ateismo (1963); di Enrico Berti e Dario Antiseri, che considerava esempi diversi di originale declinazione di quell’interessante tradizione minoritaria che era il Cattolicesimo liberale italiano. Con Berti, in particolare, aveva in comune la concezione dialettica della filosofia mentre con Antiseri condivideva l’apprezzamento per autori trascurati in Italia come Popper e von Hayek.
M. aveva incontrato il pensiero di Alexis de Tocqueville, pressoché ignoto in Italia, ai tempi dell’Istituto ‘Croce’ e nel 1962, grazie a una borsa di studio del governo americano, si era recato negli Stati Uniti e aveva ripercorso il viaggio di Tocqueville di 130 anni prima, per vedere con i propri occhi quei luoghi e quelle istituzioni che avevano entusiasmato il nobile normanno. Accettò pertanto immediatamente la proposta di Luigi Firpo di curare per la casa editrice Utet la traduzione delle principali opere politiche di Tocqueville. M. riteneva che Tocqueville avesse individuato il più insidioso problema per la democrazia, la “tirannide della maggioranza”, ossia quella forma di conformismo che induce i cittadini a uniformarsi alle idee prevalenti nella società. M. apprezzava, inoltre, le idee di Tocqueville riguardo al ruolo della religione nella società: essa consente agli uomini, in particolare nelle società democratiche prone a instillare nei cittadini un “materialismo onesto”, di elevarsi al di sopra delle realtà materiali e di attingere un superiore livello di spiritualità. Nelle sue ultime opere, M. ripropose, nel nuovo contesto della società globalizzata, i timori di Tocqueville per l’instaurarsi di un “dispotismo paterno” che amministrasse lo Stato in maniera suadente, lasciando agli uomini di occuparsi delle proprie faccende private: questa eventualità costituiva per lui la fine della vera politica, intesa come attività di partecipazione alla dimensione pubblica.
Dapprima assistente di Filosofia del diritto nella Facoltà di Giurisprudenza, nel 1965 M. vinse il concorso da professore ordinario di Storia delle dottrine politiche e prese servizio l’anno successivo nella neonata Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, voluta da Felice Battaglia e di cui M. nel 1964 era stato uno dei fondatori, assieme a Beniamino Andreatta, Achille Ardigò e Luigi Bagolini. Di lì a poco, quando era Preside della Facoltà, iniziarono le proteste studentesche sulla scia di quanto stava avvenendo negli Stati Uniti e in Francia. Nei suoi editoriali dell’epoca apparsi su Il Mulino M. mostrò inizialmente interesse e comprensione per il desiderio di cambiamento degli studenti, rilevando tuttavia come il movimento studentesco avesse proposte contraddittorie, velleitarie e irrealistiche: egli riteneva necessario che la protesta studentesca trovasse ascoltatori, e magari alleati, all’interno dell’Università nei professori riformisti, così come all’esterno nelle forze politiche. Nel giro di pochi mesi, tuttavia, il tenore della sua analisi mutò drasticamente, spinto dalla consapevolezza che la crisi dell’Università rispecchiava una crisi più generale nella società italiana -la crisi della cultura umanistica. M. riteneva che il neopositivismo e lo scientismo imperanti nella cultura dell’epoca avessero proposto una nuova immagine dell’intellettuale come ‘tecnico’, possessore di un sapere scientifico neutrale. E così come alla fine dell’Ottocento la rivolta contro il positivismo si manifestò con la nascita di istanze spiritualistiche e irrazionalistiche, allo stesso modo ora i giovani abbracciavano un utopismo e un massimalismo velleitari, che esaltavano l’azione e la violenza in sé. Così M., che pure ammirava la raffinata intelligenza di Marcuse e lo proponeva nei suoi corsi agli studenti, criticava aspramente la visione edonistica e a-politica della libertà che si ritrova in particolare in Eros e civiltà (1955); analogamente, fu sempre critico della psicanalisi di sinistra (Norman O. Brown, Erich Fromm), che considerava erede della filosofia della storia hegeliana e, ancor prima, dell’escatologia di Gioacchino da Fiore e del suo mito delle tre età. Nel 1970 M. coniò l’espressione “insorgenza populistica” per descrivere la situazione culturale italiana e parlò di “sbornia sociologica”, etichettando assai criticamente la moda di spiegare attraverso categorie sociologiche ogni evento, deresponsabilizzando gli individui e attribuendo a un’entità astratta come ‘la società’ eccessiva capacità di azione. Questa critica del sociologismo spicciolo lo porterà in seguito ad apprezzare sempre più l’individualismo metodologico di Friedrich von Hayek. Nelle sue opere dell’epoca M. definisce il ‘populismo’ come un insieme di “idee semplici e di passioni elementari, in radicale protesta contro la tradizione e, quindi, contro quella cultura e quella classe politica che ne è l’espressione ufficiale” (Matteucci 1970, p. 65). Esso gli pareva caratterizzato da “un diffuso antintellettualismo, un atteggiamento di rivolta contro la ragione critica, che è poi una rivolta contro lo specialista, l’esperto, lo studioso, in nome di sentimenti o passioni elementari […]” (Ibid, p. 66). Totalmente controcorrente, ma con grande lucidità e preveggenza, M. affermava che l’insorgenza populistica, con la sua esaltazione del pansindacalismo e del pangiovanilismo, era contraria alla vera e autentica politica e avrebbe portato al tentativo di annullamento delle procedure democratico-costituzionali, a un ritorno a un dominio di ceti e corporazioni della politica e dell’economia, in una visione del potere concertata tra gli interessi dominanti (di qui la sua attenzione critica per il neo-corporativismo elaborato in America negli anni Settanta). Gli “anni di piombo” gli avrebbero dato drammaticamente ragione.
Dalla fine degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta M. fece parte del consiglio di amministrazione della RAI come rappresentante del Partito Repubblicano. Senza trascurare i lavori scientifici, M. si dedicò in quegli anni a un’opera di sapiente divulgazione culturale, che riteneva rientrasse tra i compiti della televisione di Stato. Preparò pertanto il copione di due sceneggiati biografici, dedicati rispettivamente a Tocqueville e a Washington, per la rubrica “Sapere. Profili di protagonisti”, trasmessi su RaiUno nel 1970. Nel 1975 scrisse “La parola, il fatto. Machiavellismo”, andato in onda sui RaiUno il 22 ottobre e nel 1977 la serie “Gli intellettuali e la crisi”, per la quale preparò la lista degli invitati e le domande da porre loro. Per questi programmi M. non fece solo il consulente; scrisse la sceneggiatura completa, con indicazioni agli attori, cercando di fare emergere il profilo umano dei personaggi e di presentare la propria conoscenza degli autori e degli eventi in maniera accattivante per i telespettatori.
Negli anni Settanta gli interessi di M. ruotano attorno al liberalismo, cui dedica innanzitutto il suo più originale contributo teorico: Il liberalismo in un mondo in trasformazione (1972). In esso M. fa definitivamente i conti con il pensiero di Croce, di cui ripropone la visione etica e non utilitaristica del liberalismo, esemplificata dalla sua “religione della libertà”. Quest’opera, che propone l’immagine di un liberalismo non dogmatico, visto come un sistema di valori e istituzioni pensati via via per rispondere alle sfide dell’epoca, costituisce anche il suo personale tentativo di proporre un nuovo liberalismo in grado di fronteggiare le sfide della contemporaneità. Muovendo dalla visione antropologica crociana, secondo cui gli uomini sono diversi e altrettanto differenti e molteplici sono i loro fini, M. avverte la necessità di costruire “una nuova antropologia filosofica che eviti i pericoli di un astratto soggettivismo” (Matteucci 1972, p. 43); a tal fine occorre fare ricorso a tutte le scienze dell’uomo, dalla psicologia alla psicanalisi, dalla sociologia alla scienza politica. Il liberalismo appare a M. come una teoria politica empirica e non una speculazione filosofica sull’assoluto, e occorre pertanto concepirlo come una “risposta a sfida”: i pensatori liberali si sono preoccupati di individuare i concreti problemi di libertà in un determinato momento storico e hanno cercato soluzioni attraverso il diritto e le istituzioni; essi si sono sempre mossi lungo due linee direttrici, la difesa dei diritti dell’individuo e il controllo dei governanti, utilizzando una “grammatica comune”. Nella sua ricostruzione il liberalismo europeo ha dovuto rispondere essenzialmente a tre sfide: nel Settecento l’assolutismo, ossia la compiuta razionalizzazione dello Stato moderno e l’accentramento del potere nelle mani del sovrano; nell’Ottocento l’egualitarismo e il conformismo determinati dall’affacciarsi delle masse sulla scena politica; nel Novecento il totalitarismo di destra e di sinistra. M. riteneva che nella sua epoca il liberalismo dovesse affrontare la sfida della società post-industriale, la quale cerca di soddisfare una molteplicità di bisogni umani svincolandosi dai limiti imposti dalla natura; disponendo di un enorme potere, essa riunisce e indirizza verso un’unica meta (la ‘felicità’) gli egoismi degli individui. Ciò che caratterizza la società di massa è un uniforme amore per il benessere, che produce un aumento dei bisogni, anche artificiali, e trasforma lo Stato in un fornitore di prestazioni economiche e sociali che un tempo erano affidate ai privati. Nelle pagine finali M. delinea la figura dell’architetto della città del futuro, che dovrà disegnare nuovi spazi e immaginare nuove forme di convivenza nella libertà, e conclude con una caratterizzazione dell’uomo liberale come “soltanto un anarchico che fa i conti con ‘il principio di realtà’” (Ibid., p. 127).
Nella voce Liberalismo redatta per il Dizionario di Politica (1976), M. sostenne l’esistenza di un inscindibile nesso tra liberalismo e costituzionalismo, da lui concepito come il “prologo in cielo del liberalismo”. Egli opera qui una distinzione tra liberalismo etico e liberalismo utilitaristico, criticato per la sua semplicistica visione che considera solo gli effetti di un’azione e non i suoi motivi, e sostiene che per il liberalismo etico la libertà è la condizione esterna per l’auto-realizzazione dell’uomo. Nello stesso anno M. pubblicò uno dei suoi lavori storici più profondi e originali, Organizzazione del potere e libertà (1976). I saggi che lo compongono ruotano attorno al tema del costituzionalismo, che M. concepisce come una serie di riflessioni sull’organizzazione del potere incentrate sul principio del nomos basileus. Dal punto di vista storico, M. evidenzia come l’ideale dello Stato costituzionale, nato dal diritto pubblico, sia assai diverso da quello dello Stato di diritto, nato sul terreno del diritto amministrativo, che non conosce limiti alla propria azione se non quelli che si dà da sé. La ricostruzione storica di M. è, tuttavia, imperniata su una chiara scelta valoriale. Appare evidente, per esempio, come, nella sua esposizione del costituzionalismo inglese, egli mostri apprezzamento per un pensatore come Locke, capace di innovare rimanendo nel solco della tradizione politica britannica; analogamente, è evidente la sua preferenza per Bolingbroke, sostenitore della superiorità della costituzione sul governo, rispetto a William Blackstone, massimo teorico dell’onnipotenza del parlamento (pp. 113-4). M. sottolinea, inoltre, come il costituzionalismo anglo-americano fosse in “costante eterna polemica contro il positivismo giuridico, perché riduce lo ius allo iussum e non allo iustum” (p. 98).
Negli anni Settanta M., fedele alla propria visione etica del liberalismo, non si accodò all’idea, sostenuta da pensatori come Ralf Dahrendorf, che lo Stato liberale dovesse trasformarsi in uno Stato social-democratico erogatore di prestazioni economiche e sociali. M. fu sempre attento agli sviluppi teorici del liberalismo, in particolare da parte di autori come John Rawls e Robert Nozick. A Rawls attribuiva il merito di aver riproposto una visione normativa della filosofia politica, incentrata sul problema della società giusta. M. era infatti persuaso che l’ordine politico non andasse inteso in senso meramente statico, ossia come un ordine dato da descrivere soltanto, ma in senso dinamico, “come un ordine da instaurare politicamente in base al valore [..] Il pensatore politico non descrive un fatto ma partecipa (concettualmente) a un farsi: è sempre prescrittivo, mai descrittivo [..]” (Matteucci 1984, p. 16). Di Nozick apprezzava l’idea fondante della sua teoria della giustizia come “giusto titolo”, secondo cui gli individui hanno diritti morali, tra i quali la proprietà di ciò che legittimamente possiedono, che il governo non può calpestare in nome di un ideale di ‘giustizia sociale’.
Nei lavori degli anni Ottanta e Novanta riemerge la vena ‘tocquevilliana’ di M., che ripropone i timori del pensatore normanno riguardo alla ‘tirannide della maggioranza’ nell’epoca della globalizzazione. M. riteneva che la globalizzazione avesse acuito e amplificato problemi già esistenti: innanzitutto, il forte richiamo dell’edonismo causato da un espandersi del capitalismo non accompagnato da saldi valori etici, che conduceva al perseguimento di fini esclusivamente materiali. All’omogeneizzazione di gusti e mode prodotta dalla globalizzazione economica si aggiungeva poi il sempre maggiore conformismo derivato dall’accresciuta invadenza e sofisticazione dei mezzi di comunicazione di massa, che sembrava avverare la visione di McLuhan del “villaggio globale”. M. guardava poi con preoccupazione alla rinascita dell’integralismo religioso, che avrebbe inevitabilmente minacciato l’esistenza stessa della democrazia liberale.
In uno dei suoi ultimi interventi pubblici, un’intervista rilasciata a Vittorio Macioce nel 2005, M. affermava che “il liberalismo, come filosofia pratica, riguarda i valori e non la verità”: la verità è una, i valori invece sono tanti. E continuava: “Bisogna partire dall’individuo, che non è soltanto portatore di interessi, ma anche di opinioni, valori, simboli, perché soltanto l’individuo ha la capacità di dare un significato e un senso alle cose.” Questa era la sua originale maniera di declinare la crociana “religione della libertà”.
Antonio Gramsci e la filosofia della prassi, Milano: Giuffrè 1951; Jacques Mallet-Du Pan, Napoli: Istituto Italiano Studi Storici 1957, ristampato con una Prefazione, Lungro di Cosenza: Costantino Marco Editore 2004; Jean Domat, un magistrato giansenista, Bologna: Il Mulino 1959; Positivismo giuridico e costituzionalismo, in Rivista Trimestrale di Diritto e Procedura Civile, 1963, pp. 985-1100; poi ristampato come libro, Bologna: Il Mulino 1996; L’eresia liberal, in Il Mulino, 1969, pp. 10-25; La cultura politica italiana: fra l’insorgenza populista e l’età delle riforme, in Sul Sessantotto, Soveria Mannelli: Rubbettino 2008; Il liberalismo in un mondo in trasformazione, Bologna: Il Mulino 1972; Organizzazione del potere e libertà, Torino, Utet 1976; voce “Liberalismo” in N. Bobbio - N. Matteucci (edd.), Dizionario di Politica, Torino: Utet 1976; Alla ricerca dell’ordine politico, Bologna: Il Mulino 1984; Alexis de Tocqueville. Tre esercizi di lettura, Bologna: Il Mulino 1990; Dell’eguaglianza degli antichi paragonata a quella dei moderni, in Alma Mater Studiorum, 1991, pp. 195-224; poi in Lo Stato moderno. Lessico e percorsi, Bologna: Il Mulino 1993, pp. 201-233; Jacques Mallet-Du Pan. Ginevra, l’Illuminismo e la Rivoluzione francese, in Il Pensiero Politico, 38 (2005), p. 445.
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