SADDUMENE, Bernardo
Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 89 (2017)
Pseudonimo di Andrea Bermudes (Belmudes, Belmundo, Belmures, Belmuro, Bermúdez), di cui è anagramma imperfetto. La grafia ‘Bermudes’, la più prossima all’anagramma, è attestata per esempio da note di pagamento del 17 luglio e 7 novembre 1731 (Spoglio, 2015, ad annum 1731, nn. 757 e 1167); la pronunzia, parossitona o proparossitona, è incerta. L’identità tra i due soggetti è dimostrata dall’attribuzione dei medesimi drammi a Saddumene nei libretti a stampa e a Bermudes nelle polizze di pagamento corrispondenti (per es. Lo labborinto e L’amico traduto; cfr. Capone, 2007, pp. 315, 352). Ancora oscuro il quadro biografico. Nacque presumibilmente nell’ultimo decennio del secolo XVII. Dovette appartenere al ceto padronale, poiché le polizze di pagamento gli attribuiscono il titolo di ‘don’, circostanza che spiegherebbe la reticenza a far comparire il proprio nome sul frontespizio di testi di teatro per musica (Capone, 2007, p. 3, ne fa un «funzionario di corte»).
Saddumene debuttò probabilmente il 6 settembre 1721 al teatro dei Fiorentini con la commedia per musica Don Ciccio: un successo (la commedia «è riuscita oltremodo plausibile»: Griffin, 1993, p. 98; Markstrom, 2007, p. 23; Magaudda - Costantini, 2009, p. 356), che inaugurò il sodalizio con il compositore Leonardo Vinci. La collaborazione tra i due artisti, entrambi all’avanguardia nel gusto e in grado di elaborare congiuntamente soluzioni innovative sul piano drammaturgico-musicale (Strohm, 1991, pp. 149-158), fruttò a ruota una seconda commedia, Li zite ngalera (‘I fidanzati sulla galera’, ed. in Libretti d’opera italiani dal Seicento al Novecento, a cura di G. Gronda - P. Fabbri, Milano 1997, pp. 357-448), in scena sempre ai Fiorentini il 3 gennaio 1722 (vi dovette debuttare Laura Monti, la futura Serpina della Serva padrona pergolesiana), poi ripresa dal 29 novembre 1724 al teatro della Pace, musica accomodata da Domenico Galasso (Griffin, 1993, p. 119; Cotticelli - Maione, 1996, pp. 161, 174; Magaudda - Costantini, 2009, p. 433; un’ed. digitale, a cura di P. Maione, dei libretti dei due allestimenti è consultabile al link http://www.operabuffaturchini.it/operabuffa/: vi si trova in ed. digitale una serie di altri testi di Saddumene: La Baronessa, La Carlotta, Lo finto laccheo, L’Odoardo, Lo simmele, La taverna de Mostaccio, Le zitelle de lo Vommaro). Si tratta della più antica commedia per musica di cui sia pervenuta la musica (ed. facsimile della partitura: New York 1979); diversi numeri dell’opera vennero reimpiegati da altri compositori fino a metà secolo. Alla penna di Saddumene si deve anche l’ultima commedia per musica di Vinci per i Fiorentini, Lo labborinto (carnevale 1723).
Era altresì impegnato nell’adattare i drammi per musica di genere storico e mitologico per il teatro di S. Bartolomeo, forse già dall’Arianna e Teseo di Pietro Pariati, in scena dal 26 novembre 1721 con musica di Leonardo Leo e altri (Strohm, 1976, II, p. 183). Di sicuro adattò radicalmente il dramma tragico Bajazete imperador de’ Turchi, dal Tamerlano di Agostino Piovene, in scena il 28 agosto 1722 a Palazzo Reale e poi al S. Bartolomeo. Per esplicita dichiarazione del libretto, Saddumene ne realizzò, per la musica di Leo, anche le scene buffe (Venturina e Sciarappa), in cui inaugurò la collaborazione col basso Gioachino Corrado oltre che la propria assidua dedizione a questo genere minore (sui sottili legami tra dramma e intermezzi, cfr. Scoccimarro, 2012, p. 162); interpreti del dramma furono Faustina Bordoni, Nicola (Nicolino) Grimaldi e Annibale Pio Fabri. Anche per il Publio Cornelio Scipione di Antonio Salvi e Piovene, musica di Vinci, in scena dal 4 novembre 1722, sempre con la Bordoni (Saddumene citò poi la diva nei Marite a forza del 1732), provvide all’adattamento («arie nuove») e alle scene buffe (Ermosilla e Bacocco). Non vi manca un’irruzione autoriale di sapore metateatrale e autoironico: in una scena ultraterrena, Bacocco, cui appare un discendente poeta, si consola che, «dopo tante baruffe, / faran gli eredi miei le scene buffe» (Troy, 1979, p. 82 s.). E lo stesso fece forse per il Silla dittatore, sempre di Vinci (1° ottobre 1723 a palazzo e poi al S. Bartolomeo; interpreti Grimaldi, Marianna Benti Bulgarelli detta la Romanina e Fabri, con gli intermezzi Albino e Plautilla: Markstrom, 2007, pp. 49-60). Saddumene non smise poi mai l’attività di raffazzonatore di drammi altrui, attestata ancora nel 1732.
Il 15 ottobre 1724 inaugurò il teatro Nuovo sopra Toledo con una propria commedia, Lo simmele (‘Il sosia’), musica di Antonio Orefice. Ai Fiorentini garantì per un biennio un approvvigionamento continuo di commedie, di cui curò anche l’allestimento (la «concertatione» è sicuramente attestata per l’ultima della serie): La vecchia sorda, autunno 1725 (musica del debuttante Riccardo Broschi); Lo finto laccheo, inverno 1725 (Giuseppe De Majo); Lo paglietta geluso (‘L’avvocato geloso’), carnevale 1726 (ignoto il musicista); La Carlotta, primavera 1726 (Pietro Auletta, debuttante). Una polizza di pagamento per quest’ultimo titolo definisce inoltre Saddumene, all’altezza del 28 maggio 1726, «impresario» dei Fiorentini (Spoglio, 2015, ad annum 1726, n. 252). Sulle scene più popolari del teatro della Pace presentò e allestì L’amico traduto (Cotticelli - Maione, 1996, pp. 161, 174), musica di Domenico Galasso.
Sul fronte dell’opera seria una polizza del 19 febbraio 1728 (Spoglio, 2015, ad annum 1728, n. 135) registra il compenso a Saddumene «per aver assistito e concertato le tre opere in musica rappresentate al teatro di S. Bartolomeo terminate nel carnevale di questo anno corrente, ed anche per l’intermezzi da lui composti nell’ultima opera», cioè, rispettivamente, tra ottobre 1727 e carnevale 1728, La caduta de’ decemviri di Silvio Stampiglia (Vinci), Gerone, tiranno di Siracusa di Aurelio Aureli (Johann Adolf Hasse) e L’Oronta di Claudio Nicola Stampa (Francesco Mancini).
Se non risultano drammi per musica regolari attribuiti in toto a Saddumene, significativo è il suo contributo nel genere degli intermezzi, tutti per il S. Bartolomeo, sebbene non sia semplice accertarne i termini. Oltre alle citate scene buffe del 1722-23, sono sicuramente suoi gli intermezzi seguenti: Perichitta e Bertone (musica di Mancini) nella citata Oronta, ripresi a Torino nel 1730 come Il cavalier Bardone e Mergellina; la fortunatissima Contadina ossia Scintilla e Don Tabarano, autunno 1728 (Hasse) nel Clitarco o sia Il più fedel tra gli amici di Francesco Silvani e Giovan Maria Guizzardi (Pietro Scarlatti), interpreti originari Celeste Resse e Corrado, poi rivisti come Don Tabarrano per il teatro di corte di Dresda, 26 luglio 1737 (ed. facsimile a cura di O. Landmann, Leipzig 1982; circolanti anche come pasticcio di Hasse e Pergolesi pubblicato nel Novecento con il titolo La contadina astuta: Mellace, 2006, pp. 204-210; l’autorità di Saddumene è dichiarata in un libretto privo di note tipografiche, oggi nella biblioteca del conservatorio di Napoli, Rari 10.1.27/1, p. 22); forse Zingaretta nell’Argene, autunno 1731 (Leo); e sicuramente i seguenti tre: Vespina e Pacurio nella Semiramide riconosciuta, autunno 1731 (Francesco Araja); Nerina e Nibbio (L’amor fa l’uomo cieco, forse con Domenico Carcajus) nella Salustia, gennaio 1732 (Pergolesi: cfr. Piperno, 2011, p. 283); Levantina nell’Alessandro nell’Indie, carnevale 1732 (Mancini) (Spoglio, 2015, ad annum 1731, n. 642).
Resta congetturale l’attribuzione degli intermezzi seguenti, tutti con musica di Hasse in opere dello stesso compositore sassone: La fantesca ossia Merlina e Galoppo nell’Ulderica, 29 gennaio 1729 (ed. a cura di M.P. Jacoboni Neri, Bologna 2001); La serva scaltra ossia Dorilla e Balanzone nel Tigrane di Silvani, 4 novembre 1729 (ed. a cura di L. Bettarini, Milano 1985); Il tutore ossia Lucilla e Pandolfo nell’Ezio di Pietro Metastasio, autunno 1730 (ed. a cura di G. Lazarevich, Laaber 1992, comprendente anche La contadina e La serva scaltra). Improbabile l’attribuzione della Finta tedesca ossia Carlotta e Pantaleone nell’Attalo, re di Bitinia di Silvani, maggio 1728 (ed. a cura di C. Toscani, Pisa 2014), nonostante il parere di Michele Scherillo (1883, p. 127), il quale peraltro equivoca con La fantesca, effettivamente antesignana della Serva padrona (Lazarevich, 2004, p. 19; Mellace, 2006, pp. 191 s.; C. Toscani, Introduzione, in La finta tedesca, cit., pp. XV s.).
Il 1729 fu l’anno, feracissimo, della consacrazione in patria e fuori. Al di là degli intermezzi d’incerta attribuzione ora citati, Saddumene mandò in scena a Napoli tre diverse commedie: nella primavera al teatro Nuovo La sorella amante (Hasse; è la sola commedia di Saddumene, oltre a Li zite ngalera, di cui si conservi la musica, anch’essa in autografo; fu la prima opera comica data a Malta, nel teatro pubblico della Valletta, nel 1736: Miceli, 1997, p. 31); in autunno, dopo il 24 novembre, sempre al Nuovo, L’Erminia (Hasse; l’attribuzione della musica è oggi confermata da una polizza di pagamento: Spoglio, 2015, ad annum 1729, n. 854); il 10 dicembre ai Fiorentini La baronessa o vero Gli equivoci (De Majo; ed. del testo in L’opera buffa napoletana, II, a cura di M. Colotti, Roma 2001, pp. 99-183).
Nel carnevale 1729 due commedie di Saddumene andarono in scena al teatro Capranica di Roma, forse grazie a buoni rapporti tra questo teatro e quello napoletano della Pace (Markstrom, 2007, p. 262), entrambe con musica del napoletano Giovanni Fischietti in una versione radicalmente rivista, con parti sia in italiano sia in napoletano: La costanza l’8 gennaio (adattamento degli Zite ngalera; diverse arie sono di Vinci e Leo: Strohm, 1976, II, p. 271), La somiglianza il 7 febbraio (adattamento dello Simmele; diverse arie probabilmente di Hasse: ivi, p. 283). È assai probabile che tali allestimenti, eccentrici rispetto al cartellone corrente del teatro Capranica, rappresentino il primo approdo della commedia per musica napoletana fuori dal regno, non senza conseguenze per lo sviluppo dell’opera buffa a Roma e nel resto d’Italia (Weiss, 1986, 245 s.; Id., 2013, pp. 135-138, 260).
Nel carnevale 1730 Saddumene mise in scena ai Fiorentini la commedia L’Oronte, o vero Il custode di se stesso (Giuseppe Sellitto); nell’estate al Nuovo, dov’era impresario Fischietti, La Rosmene (Leo: Cotticelli - Maione, 1996, p. 147; Spoglio, 2015, ad annum 1731, n. 125). Nel 1731 fu la volta di ben tre chéllete pe museca – ‘coserelle per musica’, ossia commedie interamente in napoletano –, tutte ai Fiorentini (ivi, ad annos 1730, n. 828; 1731, n. 757): a carnevale La marina de Chiaja (Pietro Pulli, debuttante; evidentemente fu un successo, giacché venne riproposta con la stessa musica nell’estate 1734 e fu ripresa nel carnevale 1757 su un testo ritoccato da Pasquale Mililotti, musica di Gregorio Sciroli); a primavera La Rina (Nicola Pisano; fu riproposta nel rifacimento postumo La taverna de Mostaccio al teatro della Pace, musica del debuttante Pietro Comes, Gomes o Gomez); infine in autunno Le zitelle de lo Vommaro (Pulli). In parallelo proseguiva la collaborazione con il S. Bartolomeo (ivi, ad annum 1731, nn. 642 e 1167): Saddumene nell’estate 1731 accomodò, dietro compenso complessivo di 100 ducati, l’Argene di Domenico Lalli (Leo); per il 1° ottobre 1731 rivide la Semiramide riconosciuta del Metastasio (Araja), corredandola dei già citati intermezzi; nel carnevale 1732 ritoccò La Salustia di Apostolo Zeno (Pergolesi) e l’Alessandro nell’Indie del Metastasio (Mancini).
Ai Fiorentini propose altre due commedie: nella primavera-estate 1732 Li marite a forza (‘Gli sposi per forza’, Latilla; ripresa con la medesima musica ma con modifiche nel 1735: ivi, ad annum 1732, n. 91) e nell’autunno 1733 L’amore imbratta il senno (Giovanni Gualberto Brunetti; Cotticelli - Maione, 2006, p. 48; Spoglio, 2006, ad annum 1733, n. 566).
Allo stato attuale non è possibile accertare la paternità della commedia La mogliere fedele che il 15 maggio 1724 inaugurò il teatro della Pace. Va invece smentita l’attribuzione a Saddumene, persistente anche nella letteratura più recente, dei seguenti titoli: Lo funnaco revotato (‘Il fondaco rivoltato’, 1720, recte Francesco Oliva; Cotticelli - Maione, 1996, p. 370); La noce de Veneviento (‘Il noce di Benevento’, 1722, Oliva; nella prefazione l’autore dichiara suo Lo castiello saccheato, sicuramente di Oliva); La Locinna (1723, Francesco Antonio Tullio; Cotticelli - Maione, 1996, p. 371); Li duje figlie a no ventre (1725, Oliva; Cotticelli - Maione, 1996, p. 375); Donna Violante (1726, Tullio sotto lo pseudonimo anagrammatico di Col’Antuono Feralintisco); Amore mette sinno (1733, Oliva; Cotticelli - Maione, 2006, p. 48).
Morì in data imprecisata, tra il 1733 e il 1734: si riferisce a lui come al «morto autore» il libretto della Marina de Chiaja ripresa ai Fiorentini nell’estate 1734.
La breve carriera del drammaturgo coincise con gli ultimi tre lustri della dominazione austriaca (1721-34). Se investì una varietà di generi operistici, dominò in particolare il panorama della commedia per musica dei primi anni Venti, accanto a Oliva e a Tullio, e contribuì in termini decisivi allo sviluppo del genere. Collaborò con compositori di prima sfera (Vinci, Leo, Hasse, Pergolesi) e altri nomi significativi (Mancini, Auletta, Latilla, Araja); intonando testi di Saddumene debuttarono sulle scene Broschi, Fischietti, Comes, Pulli e lo stesso Latilla.
Saddumene collaborò assiduamente con interpreti buffi come Giuseppe de Lillis e Simone de Falco, specializzati nei ruoli rispettivamente di vecchio e vecchia (il secondo in due decenni recitò in quindici titoli suoi: Maione, 2009, pp. 166-168; Id., 2015, pp. 745 s.), con stelle del dramma per musica (Bordoni, Grimaldi, Benti Bulgarelli); e con formidabili interpreti degli intermezzi (Resse, Monti, Corrado).
I compensi accordati a Saddumene subirono forti variazioni nel corso della carriera: se per La Carlotta spuntò nel 1726 solo 10 ducati, per La marina de Chiaja 20, e 25 per Li marite a forza, gli fruttarono 40 ducati La sorella amante, La Rosmene (il compositore, Leo, ne percepì 100) e L’amore imbratta il senno; ma già per L’amico traduto ricevette un supplemento di 12 ducati per «concertare tutta quanta questa opera» (Cotticelli - Maione, 1996, pp. 147 e 174; Maione, 2009, p. 759 s.; Spoglio, 2006, ad annum 1733, n. 556; Spoglio, 2015, ad annos 1726, n. 252; 1729, n. 366; 1730, n. 705; 1732, n. 1138).
Se non mancò l’apprezzamento isolato d’un Napoli-Signorelli, che a inizio Ottocento giudicava «lepidissimi» (1847) i drammi di Saddumene (La Carlotta «condita delle usate grazie del linguaggio» e Il paglietta geluso pregevole per intreccio, caratterizzazione dei personaggi, locuzione, «la migliore che possa usarsi nel dialetto napolitano in questo genere, espressiva, musicale, graziosa, appassionata, piacevole oltre modo, senza veruna tinta pulcinellesca»: 1811, pp. 107 s.), il drammaturgo venne giudicato severamente dalla critica tardo ottocentesca (Florimo, 1881, IV, p. 587; Scherillo, 1883, p. 118), che lo bollò come corruttore dell’autentico carattere popolaresco della commedia per musica, contaminato da meccanismi drammaturgici e stilemi linguistici vicini al teatro metastasiano. Giudicato con più equilibrio già da Croce, che lo ritenne «per oltre un decennio il più fecondo poeta dell’opera buffa» (1916, p. 138), ha dovuto attendere il secondo Novecento per valutazioni che evidenziassero il carattere progressivo della sua scrittura (Mondolfi, 1961; Strohm, 1991, p. 149).
In un corpus che vanta una ventina di commedie, senza contare intermezzi e revisioni di drammi seri, Saddumene esibisce un sovrano controllo dei meccanismi drammaturgici, sin dalle ben costruite prefazioni ai libretti: in quella a Lo simmele definisce il testo, con evidente understatement, «burletta», «bagattella», «favoletta … fatta priesto priesto», per poi spiegarne con precisione la tessitura dell’intreccio, «na specia d’artificejo a’ duje cape … Lo primmo capo è n’arresemmegliamiento che ha no cierto galantommo … co’ n’ommo ordenario … E ll’auto è l’Ammore stravagante de Palomma, che vo’ bene egualemente a duje». In quella alla Costanza, mentre si schermisce di non poter competere con tragedia e dramma eroico, definisce il testo «commedia civile drammatica», richiamandosi espressamente a Giovanni Andrea Moniglia, il campione della commedia in musica fiorentina del secolo precedente, e individua il proprio intento nel «divertir per poche ore … colla piacevolezza di alcuni lepidi avvenimenti, che a guisa di controscene il viluppo d’una ben rappresentata favola circondano».
Nella sua produzione, tributaria tanto del dramma secentesco spagnolo quanto di Stampiglia (cfr. Robinson, 1984, pp. 228-230), Saddumene alterna sofisticate commedie d’intrigo (Lo simmele, La Carlotta, La sorella amante) a canovacci più semplici come La vecchia sorda, che nella prefazione dichiara «burletta» adatta alla calda stagione d’autunno in quanto «allegra, chiara, corta e lasca de ntrico … Li carattere de li perzunagge è cierto ca so nuove pe lo teatro addò s’ha da recetare; la mmenzione mme pare che sia graziosa e moderna». In quella del Finto laccheo dell’inverno successivo confronta il nuovo titolo, più complesso sul piano dell’intreccio e su quello sentimentale, stante la maggior varietà di caratteri e registri, col precedente, promettendo allo spettatore-lettore «cchiù gusto, perché otra lo sfizejo che te darranno le parte graziose, godarraje senza dubbejo de lo ntrico e delle passiune de le parte sode porzì».
Sul filo del plurilinguismo napoletano-toscano, forte d’una perfetta padronanza della versificazione in entrambe le lingue, in grado di sfruttare le implicazioni espressive del ritmo poetico (Mondolfi, 1961, col. 1380), Saddumene affronta, una generazione prima di Goldoni, la sfida non semplice di tenere insieme registro plebeo ed «elemento nobile e romanzesco» (Croce, 1916, pp. 137 s.), senza negarsi neppure i riferimenti colti a Torquato Tasso (Strohm, 1991, p. 155 s.). La scrittura comica culmina nei vivaci concertati, vuoi a fine atto vuoi intermedi, che drammatizzano la conversazione.
La strategia fondamentale del teatro di Saddumene risiede tuttavia nell’avvicinamento della commedia musicale al dramma per musica (Gallarati, 1984, pp. 118-120), che l’assiduo raffazzonatore di opere serie ben conosceva. Da un lato elabora per le parti serie un registro linguistico di avvincente immediatezza (Weiss, 2013, p. 136), in personaggi come Lavinia, la protagonista della Sorella amante, risoluta, volitiva, irascibile, dalla psicologia complessa, fraudolenta e macchinatrice, una vera furia paragonabile a una Emira o Vitellia nel coevo teatro metastasiano (Mellace, 2015, pp. 201-203). Seria è sovente la tipologia delle arie (10 su 29 nella Sorella amante: Lang, 2002, p. 12: non a caso Hasse ne riassegnò una alla Bordoni nella Cleofide tratta dal Metastasio), incline alla riflessione sentimentale, a integrare in misura cospicua il patetico. La mimesi del melodramma, di norma aliena da intenti parodici (non manca semmai la satira contro il mondo dell’opera: Candiani, 2000, pp. 163 s.; Scoccimarro, 2012, pp. 195-197), avviene in termini non meno palesi anche nel congegno dell’intrigo, che tende ad assomigliare, com’è il caso della Sorella amante, a un’opera seria con l’aggiunta di scene comiche, non del tutto integrate nel tessuto drammatico (Mellace, 2015, pp. 203-206).
Dall’altro lato si osserva la tendenza, culminante nei lavori del 1729-30 – forse in forza dell’esperienza di adattamento linguistico di due titoli sulle scene romane (Weiss, 2013, p. 138) – a far prevalere i ruoli in toscano, fino a ridurre il napoletano a due soli personaggi su otto (i «viecchi» Gianferrante e Alfonzo nella Sorella amante; altrettanto nella Rosmene). Tale propensione viene corretta dalla brusca svolta delle chéllete del 1731 e dei Marite a forza del 1732, in cui «la lingua napoletana torna per lo più a dominare la scena e nelle tonalità più ruvide, in rapporto alla connotazione sociale dei personaggi» (Candiani, 2000, p. 163). Scherillo volle individuare in questa conversione una «seconda maniera» con cui Saddumene avrebbe tentato un tardivo ravvedimento, col «riavvivare la commedia peculiarmente napolitana, cittadina, piscatoria e campagnuola» (1883, pp. 123-128). Da Saddumene attinsero i lessicografi ottocenteschi della lingua napoletana, come Raffaele D’Ambra (1873) ed Emmanuele Rocco (1882; ed. a cura di A. Vinciguerra, Firenze 2018).
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