SERBELLONI, Giovanni Antonio
Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 92 (2018)
Nacque a Milano nel 1519 da Giovanni Pietro e da Elisabetta Rainoldi, ultimo o penultimo di svariati fratelli e sorelle (almeno cinque maschi, di cui il maggiore era Gabrio, futuro generale e ingegnere militare al servizio dei papi e di Filippo II, e una femmina, che divenne monaca con il nome di suor Beatrice). Orfano in tenerissima età, Giovanni Antonio rimase sotto la tutela della madre sino alla sua morte, nel 1532, e quindi sotto quella del cugino paterno Giovanni Giuliano.
Nulla sappiamo dei suoi primi anni e della sua formazione. È lecito supporre che fu avviato alla carriera ecclesiastica, seguendo le orme di Giovanni Angelo de’ Medici, arcivescovo di Ragusa e quindi cardinale dal 1549, nonché cugino dei fratelli Serbelloni, in quanto figlio della zia paterna Cecilia. Allorché, nel maggio del 1557, il cugino cedette a Giovanni Antonio l’amministrazione del vescovado di Foligno ̶ riservandosi peraltro il diritto di regresso, la metà delle entrate vescovili e la collazione dei benefici ̶ questi era indicato come chierico.
La vera svolta nella sua carriera giunse quando Giovanni Angelo de’ Medici fu eletto al soglio pontificio nel dicembre del 1559, con il nome di Pio IV. Già nel gennaio del 1560 Serbelloni fu chiamato a Roma insieme ai fratelli Gabrio e Giovanni Battista e ai cugini Carlo Borromeo e Marco Sittico d’Altemps. Giovanni Antonio fu creato maestro di casa del papa, mentre suo fratello Giovanni Battista ebbe la carica di castellano di Castel Sant’Angelo. Poco dopo, la benevolenza di Pio IV si manifestò ulteriormente nei confronti di Giovanni Antonio con la concessione della porpora, insieme a Carlo Borromeo e a Giovanni de’ Medici, figlio del duca di Firenze, nella prima promozione cardinalizia. Ricevette il titolo di cardinale prete ̶ segno di una precedente ordinazione sacerdotale ̶ di San Giorgio al Velabro nel febbraio del 1560. Per tale motivo sarebbe sempre stato indicato come cardinale di San Giorgio.
L’ottenimento della berretta cardinalizia implicò l’avvio di una serie di scambi e cessioni di diocesi: in marzo Serbelloni cedette l’amministrazione della diocesi di Foligno, mantenendo il diritto di regresso, la collazione dei benefici e metà delle entrate vescovili, e ottenne, per resignazione da parte del cardinale Giovanni Morone, quella della diocesi di Novara. Inoltre, nell’aprile del 1560, fu nominato dal papa cardinale protettore dell’Ordine dei barnabiti.
Sebbene l’ambasciatore veneziano Girolamo Soranzo indicasse qualche dissapore con il cugino Carlo Borromeo, cardinale nipote di Pio IV, i rapporti fra i due furono sempre amichevoli e cordiali: non a caso il 7 dicembre 1563 fu lui a consacrarlo vescovo ̶ segno che a sua volta Giovanni Antonio era già divenuto vescovo nei tre anni precedenti ̶ in una cerimonia che si svolse nella Cappella Sistina.
Nel frattempo, nell’aprile del 1560, egli era diventato legato di Camerino, carica che esercitò per mezzo di vicelegati e che mantenne sino all’agosto del 1565, quando ottenne la più pingue legazione di Perugia, incarico da cui peraltro decadde dopo solo pochi mesi, poiché il nuovo pontefice, Pio V, decise di revocare tutte le legazioni. Risulta che Serbelloni fu anche governatore di Città della Pieve fra il 1565 e il 1569. In una relazione sui membri del Collegio cardinalizio redatta proprio in quell’anno, Prospero Santa Croce sottolineava come la promozione alla porpora di Serbelloni fosse stata dovuta alla parentela con Pio IV e non esitava a definirlo «Vir modestus ac moderatus, literarum non ignarus, ingenio hebetior» (Lestocquoy - Duval Arnould, 1980, p. 279). Un giudizio alquanto duro ̶ e forse un po’ ingeneroso ̶ che dipinge una figura di secondo o terzo piano, di non eccelse capacità e ambizioni.
La sua attività di vescovo di Novara si caratterizzò per la prolungata assenza e il governo attraverso vicari vescovili, preferendo risiedere a Roma: per esempio, non partecipò di persona al primo Concilio provinciale milanese indetto da Carlo Borromeo nel 1565. Tuttavia non mancò di mostrarsi attento all’attuazione delle prescrizioni del Concilio di Trento: nel 1566, per mezzo del suo vicario, fece erigere il seminario diocesano, finanziandolo per mezzo della tassazione del clero. Solo ai primi del 1568 si recò a Novara dove celebrò nel mese di maggio un sinodo diocesano (i cui atti furono editi nel 1571), condusse la visita pastorale in alcune aree della diocesi e compì vari atti di giurisdizione, come la conferma degli statuti del capitolo della cattedrale o alcuni interventi per la difesa dell’autonomia dalle autorità milanesi della Riviera d’Orta, feudo imperiale di cui erano titolari i vescovi di Novara: interventi tutti volti a ristabilire l’autorità episcopale indebolita dalle prolungate assenze degli ordinari diocesani e dai decenni di guerre che avevano coinvolto pesantemente il Novarese, territorio sul confine occidentale dello Stato di Milano.
Nel giugno del 1569 Giovanni Antonio era già ritornato a Roma, da dove promise a Borromeo di spendersi per l’approvazione degli atti del secondo Concilio provinciale milanese. Inoltre cercò di ottenere l’appoggio di Pio V a difesa della giurisdizione vescovile sulla Riviera d’Orta. Nel febbraio del 1570, a nome dei barnabiti presentò, senza successo, al papa l’istanza affinché il preposito generale dell’Ordine, Alessandro Sauli, potesse rinunciare alla promozione a vescovo di Aleria in Corsica. Per quanto sappiamo, il porporato milanese non si sarebbe più mosso da Roma per il resto dei suoi giorni, grazie anche alle sue cospicue rendite ecclesiastiche, valutate nel 1571 in oltre 3800 scudi d’oro annui.
Un nutrito carteggio attesta i buoni rapporti che egli intrattenne con Carlo Borromeo, sin dal suo trasferimento a Milano nel 1564. Proprio dietro suggerimento del medesimo Borromeo, nell’aprile del 1574, Serbelloni rinunciò alla diocesi di Novara a favore di Romolo Archinto. In quello stesso anno ringraziò l’illustre cugino per l’intervento compiuto presso papa Gregorio XIII affinché operasse a favore del riscatto del fratello Gabrio, fatto prigioniero dagli Ottomani durante la spedizione di Juan de Austria a Tunisi. È indicativo dell’atteggiamento di Serbelloni il fatto che la corrispondenza con Borromeo sia prevalentemente connessa a questioni familiari, a promesse o richieste di supporto in questioni prive di grande rilievo e a raccomandazioni per il conferimento di benefici ecclesiastici.
Il progressivo distacco di Giovanni Antonio dagli impegni pastorali e istituzionali traspare anche dal fatto che, nel 1578, preferì delegare Borromeo alla presidenza del capitolo generale dei barnabiti a Milano, in cui furono approvate le nuove Costituzioni dell’Ordine. A ogni modo, Serbelloni partecipò a cinque diversi conclavi della seconda metà del Cinquecento: nel 1565-66, nel 1572, nel 1585 e ai due svoltisi nel 1590.
Nel corso dei decenni egli cambiò più volte titolo cardinalizio: S. Maria degli Angeli (1565), S. Pietro in Vincoli (aprile 1570), S. Clemente (giugno 1570), S. Angelo in Pescheria (luglio 1570), S. Maria in Trastevere (luglio 1577), cardinale vescovo della Sabina (1578), di Palestrina (ottobre 1578), di Frascati (1583), Porto e Santa Rufina (dicembre 1587).
Infine, nel 1589, divenne decano del Sacro Collegio, assumendo l’annesso titolo cardinalizio della sede suburbicaria di Ostia. È interessante notare come, in un delicato concistoro del marzo 1590, dedicato al conflitto in atto in Francia e alle pressioni spagnole su papa Sisto V affinché scomunicasse i cattolici che sostenevano Enrico di Navarra, proprio a Serbelloni, in quanto decano, toccò di parlare per primo dopo il pontefice, ma, secondo l’ambasciatore mediceo Giovanni Niccolini, «et per la età et per la poca peritia, parlò di maniera piano et confuso, che non fu inteso» (Zagli, 2019, p. 317). Questo apparente offuscamento, legato alla scarsa competenza diplomatica, non impedì comunque al porporato milanese di proporre che due cardinali amici di Enrique de Guzmán, conte di Olivares e ambasciatore di Filippo II a Roma, lo informassero in via non ufficiale delle decisioni del pontefice e del concistoro. Che Serbelloni non fosse figura del tutto sbiadita emerge chiaramente dal fatto che, in un nuovo concistoro, tenuto tre giorni dopo il precedente, a fronte delle recriminazioni di Sisto V per le indebite pressioni e le velate minacce ricevute da Olivares, il decano si espresse risolutamente a favore della cacciata dell’ambasciatore da Roma. Alla morte del pontefice, proprio a lui quale decano del Sacro Collegio spettò di mettere in guardia i cardinali circa i rischi che il vuoto di potere unito all’arrivo nell’Urbe di molti forestieri e alla presenza di armate desse occasione di qualche disordine. Sempre l’ambasciatore Niccolini riferisce che un’eventuale candidatura di Serbelloni al papato non fu mai presa in considerazione durante il breve conclave che portò all’elezione di Urbano VII nel settembre del 1590, a causa della sua «sordidezza», dei suoi vizi e della sua imperizia, oltre all’età avanzata. Se impreparazione politico-diplomatica ed età appaiono comprovate, è ancora tutta da provare l’effettiva consistenza della voce sui vizi di Giovanni Antonio. Dopo la prematura scomparsa del neoeletto, nel successivo conclave, cominciato nell’ottobre di quello stesso anno, il porporato milanese fu uno dei voti decisivi che mancarono a Gabriele Paleotti per conseguire la tiara papale, aprendo di fatto la strada all’elezione di un altro cardinale milanese: Niccolò Sfondrati (Gregorio XIV).
Serbelloni morì settantaduenne a Roma il 18 marzo 1591 e fu sepolto nella chiesa di S. Maria degli Angeli.
Fonti e Bibl.: Milano, Biblioteca Ambrosiana, mss. F 42 inf., ff. 181-182r, 199r; F 59 inf., f. 145r; F 68 inf., f. 255r; F 74 inf., ff. 153r, 155r, 184r, 199r, 242r; F 75 inf., ff. 306r, 443r, 470r, 565r, 603r; F 76 inf., ff. 98r, 128r, 428r; F 88 inf., f. 166r; F 91 inf., f. 280r; F 97 inf., ff. 31, 42r, 126r, 127r, 138r, 223r, 443r; F 106 inf., ff. 34r, 300r; F 113 inf., ff. 339, 362; F 114 inf., f. 50r; F 116 inf., f. 572r; F 131 inf., f. 403; F 135 inf., f. 236r; F 147 inf., f. 87r.
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