TARCHIANI, Filippo. – Figlio di Jacopo, giardiniere nelle ville granducali di Castello e della Petraia, nacque il 2 marzo 1576 nella fattoria di Castello presso Firenze (Firenze, Archivio arcivescovile, Libro dei battesimi, S. Stefano in Pane, 1555-80, c. 94; Pizzorusso, 1979, p. 173). Utili notizie biografiche sull’artista si ricavano da un’anonima Vita di Filippo Tarchiani pittore manoscritta (in Firenze, Biblioteca nazionale centrale, F. Baldinucci - A.F. Marmi, Notizie dei professori del disegno, secc. XVII-XVIII), puntuale nell’elencazione delle opere ma meno affidabile nei pochi riferimenti cronologici. Contrariamente a molti pittori fiorentini della sua generazione Tarchiani non gode infatti di una biografia nelle Notizie di Filippo Baldinucci (1681-1728), dove è citato di sfuggita nella vita di Giovanni da San Giovanni e tra gli allievi di Gregorio Pagani insieme al fratello Andrea.
«Vivace ma sfortunato pittore senza fama» (Gregori, 1962, p. 36), è ignorato anche dalla letteratura artistica settecentesca: poche righe nelle Vite di Francesco Maria Niccolò Gabburri (Firenze, Biblioteca nazionale centrale, 1730-41 circa), nessuna nell’attenta ricognizione di Luigi Lanzi, e neppure i suoi dipinti uscirono dai palazzi fiorentini per le mostre periodiche dell’Accademia del disegno nel chiostro dell’Annunziata. Il nome del pittore non trova spazio nemmeno nelle guide cittadine e del territorio, dove invero lavorò tanto; quando segnalati, i suoi quadri sono infatti riferiti ad artisti a lui vicini (Gregorio Pagani, Jacopo da Empoli, Matteo Rosselli). Il recupero del suo corpus e la ricostruzione del suo percorso artistico si devono agli studi sul Seicento fiorentino della seconda metà del Novecento, e in particolare, dopo i contributi di Mina Gregori (1962 e 1967) e Fiorella Sricchia Santoro (1974), agli interventi di Claudio Pizzorusso (1979 e 1986a).
Verso il 1586 – seguendo la successione temporale dell’estensore della Vita – Tarchiani fu mandato alla scuola di Agostino Ciampelli, entrando in contatto così con i precetti sul disegno propri dei pittori riformati fiorentini eredi di Santi di Tito. Quattro anni dopo, intorno al 1590, il giovane seguì a Roma il padre, giardiniere incaricato anche della villa medicea sul Pincio insieme al maggiore dei figli, Giovanni (Butters, 1992, p. 399 e note 425-442), al quale Filippo fu probabilmente affidato. Nell’Urbe ebbe occasione di lavorare con Durante Alberti e di frequentare i tardomanieristi riformati come Giovanni e Cherubino Alberti, Niccolò Circignani, Cristoforo Roncalli.
Tornato a Firenze, nel 1594 si immatricolò all’Accademia delle arti del disegno e completò la propria formazione nella bottega di Pagani (Archivio di Stato di Firenze, d’ora in poi ASFi, Accademia del Disegno 57, cc. 2, 57) già conosciuto a fianco di Ciampelli.
Gli anni di attività con il Pagani restano ancora nell’ombra e i due lavori di Tarchiani menzionati dai documenti non ci sono pervenuti: un’Allegoria del colorito, probabile opera d’esordio del 1594 facente parte di un gruppo di allegorie commissionate dall’Accademia del disegno (Waźbiński, 1987), e gli affreschi con storie di s. Giorgio e s. Michele nella loggia di S. Michele a Castello, ricordati dal biografo, e affidatigli da Pagani nel 1596.
Una lacuna altrettanto significativa riguarda le opere del secondo soggiorno romano che sancisce la raggiunta autonomia del pittore e che durò dal marzo 1601 all’agosto 1607 (Gregori, 1962, p. 36). Dei «molti quadri et altro» che Tarchiani dipinse a Roma, ospite nel Collegio dei gesuiti, niente è stato rintracciato, ma è possibile che, a fianco di Ciampelli, fosse impegnato nei cantieri della Compagnia e che frequentasse gli altri fiorentini quali Andrea Commodi, Anastagio Fontebuoni e la cerchia di artisti protetti dal cardinale Francesco Maria del Monte, studiando le novità sul tema della luce dei primi seguaci caravaggeschi.
Tornato nel 1607 a Firenze (dove dal 1604 divideva l’affitto di una bottega sotto le logge dell’Annunziata con Giovan Battista Lupicini, ASFi, Corporazioni religiose soppresse dal governo francese, 119, SS. Annunziata, 211), Tarchiani ricevette alcuni incarichi di rilievo, tra cui un Transito di s. Chiara, non rintracciato, facente parte di una serie di opere inviate in Francia dalla granduchessa Cristina di Lorena. Al 1609 risale la decorazione ad affresco della cappella della villa del senatore Luca degli Albizzi a Pomino, cui si riferisce anche il disegno progettuale 914E degli Uffizi (Pizzorusso, 1986a). L’incarico, ottenuto verosimilmente tramite Jacopo da Empoli, autore della Cena in Emmaus sull’altare, segna il sodalizio tra i due artisti, non ricordato dalle fonti ma testimoniato dalle opere successive di Tarchiani, improntate da una dominante stilistica empolesca, nella chiarezza formale e nella limpidezza coloristica comuni ai pittori fiorentini ora partecipi di un orientamento purista neocinquecentesco.
L’artista fu poi coinvolto in alcune imprese collettive di committenza granducale: nel 1610 partecipò ai chiaroscuri per le esequie di Enrico IV nella basilica di S. Lorenzo con La resa di La Fère a Enrico IV di Francia (Firenze, Depositi delle Gallerie; Borsook, 1969, pp. 220 s. e nota 60); nel 1611 dipinse per la regina di Spagna Margherita d’Austria due scene notturne per il ciclo destinato al monastero della Descalzas Reales di Valladolid e ancora lì conservate: La presa di Cristo e Cristo davanti ad Anna; nel 1612 partecipò agli apparati per la commemorazione delle esequie della stessa regina con il monocromo raffigurante Margherita d’Austria accolta a Mantova dal duca Vincenzo Gonzaga (Firenze, Depositi delle Gallerie).
Nelle opere del secondo decennio Tarchiani arricchisce la stesura pittorica – dalle campiture compatte e lucide apprese dall’Empoli – di particolari preziosi e descrittivi e di nuove attenzioni all’efficacia dei chiaroscuri, alla potenza dei bianchi e alle possibilità drammatiche della luce. Nella Madonna col Bambino e santi per l’altare maggiore della chiesa di S. Jacopo a Reggello (1612-13 circa) e nell’Assunzione della Vergine (1615 circa), firmata, della pieve di Lizzano nel pistoiese, sulla tradizione dei riformati fiorentini s’innesta un nuovo naturalismo in rapporto con Fontebuoni e con la pittura caravaggesca (Sricchia Santoro, 1974, p. 46 nota 28). Lo dimostra anche il S. Domenico penitente (1612 circa), in due versioni (collezione privata e Metropolitan Museum of art di New York), dove il santo affiora dalle tenebre di un’ambientazione domestica con splendidi brani di natura morta (Pagliarulo, 1987). La matrice empolesca convive con le lucentezze cromatiche in opere successive come l’Orazione di Cristo nell’orto, firmata, già nel convento di S. Domenico al Maglio e oggi al Museo di S. Marco, replicata con varianti nella tela proveniente dal monastero della Crocetta di Firenze e oggi nella Galleria Palatina (inv. 1890, n. 5860).
Sulle orme di Matteo Rosselli, come lui allievo di Pagani, Tarchiani studiò nuove finezze descrittive e cromatiche, come si osserva nel Paolo III visita lo studio di Michelangelo (1616-17) nella Galleria di Casa Buonarroti, parte del ciclo commissionato da Michelangelo Buonarroti il Giovane ad affermati artisti toscani per onorare il celebre prozio (Vliegenthart, 1976), e nella coeva, oggi dispersa, Adorazione dei Magi per S. Michele a Castello (Pizzorusso, 1986a, III, p. 173). Ricordi dell’Empoli e del Cigoli affiorano nella Vergine del Rosario (1618 circa, firmata) oggi nella chiesa di S. Donato a Livizzano, nitida nel disegno ed elegante negli accostamenti cromatici di rosa, azzurri, arancio e nei bianchi splendenti, colori ‘neocinquecenteschi’ che si ritrovano anche in tele di carattere più intimo, vicine alla religiosità semplice e comunicativa del maestro Ciampelli: la Madonna porge la veste monacale a una novizia oggi nella Galleria Palatina e la Sacra Famiglia con s. Giovannino di Casciana Alta (Contini, 1989, p. 328), entrambe da collocare alla fine del secondo decennio.
Nel 1618 l’artista partecipò alla decorazione degli sportelli della cappella delle reliquie in palazzo Pitti voluta dall’arciduchessa Maria Maddalena d’Austria (Conti, 1977), dove lavorò anche il fratello Andrea, divenuto orafo e medaglista presso la Zecca granducale (Nardinocchi, 1993, pp. 439 s.). I due sportelli di Tarchiani con Cristo battezzato e S. Giovanni Battista, in linea con i precedenti di Alessandro Allori e di Ciampelli, rivelano altresì l’accoglimento del nuovo luminismo romano (Pizzorusso, 1986a, III, p. 173).
Al 1618 risale anche la Pietà della cattedrale di S. Zeno a Pistoia – memore della Pietà della Galleria Pallavicini, opera degli anni estremi del Pagani –, dove al nitido impianto disegnativo e alla disposizione naturalistica propri della tradizione fiorentina si associano le impressioni caravaggesche nei bianchi brillanti e nel luminismo perspicuo, analogo a quello di Orazio Gentileschi. La svolta stilistica in corso è confermata dalle tre versioni della Cena in Emmaus, da collocare all’inizio degli anni Venti (Sricchia Santoro, 1974; Pizzorusso, 1986a): una al County Museum di Los Angeles, una nell’Alte Pinakothek di Monaco, entrambe prima riferite all’Empoli, e la terza a Castel Forbes (Aberdeenshire), dipinti che se da un lato mostrano, non solo nel richiamo iconografico, recuperi caravaggeschi, sono ancora testimonianza di un rapporto articolato e persistente con l’Empoli, anche per la disinvoltura nell’affrontare brani di natura morta (Gregori, 1964).
Parallelamente Tarchiani proseguì la sua attività come frescante partecipando verso il 1619, a fianco di Giovanni da San Giovanni, alla decorazione della facciata del palazzo del senatore Niccolò dell’Antella in S. Croce (Carità, Equità e Virtù) e al ciclo francescano nel chiostro di Ognissanti con la lunetta del Miracolo dell’acqua tramutata in vino.
Dal 1622 fu molto operoso sui palchi della maggior parte delle imprese collettive nelle residenze medicee, a partire dalla cappellina dedicata a s. Giuseppe nel casino di S. Marco del cardinal Carlo de’ Medici, per la quale fu retribuito dal marzo del 1622 al giugno dell’anno successivo (Masetti, 1962). A fianco del pittore e impresario Michelangelo Cinganelli e di altri colleghi fiorentini tra cui Rosselli, partecipò anche al ciclo decorativo, terminato entro il 1623, nella villa del Poggio Imperiale appena acquistata da Maria Maddalena d’Austria. Nella sala delle udienze e nella sala delle Sante martiri spettano al Tarchiani tre lunette (Costanza d’Aragona concede la grazia a Carlo d’Angiò, Isabella e Cristoforo Colombo, S. Barbara abbatte gli idoli) e una volta (Allegoria del potere spirituale e del potere temporale). Quasi contemporaneamente, e sempre con Cinganelli, lavorò al piano nobile di palazzo Pitti, nella cosiddetta galleria del Poccetti, nella grotticina del piano terreno e in alcune stanze dei mezzanini (Pizzorusso, 1979, p. 173; Id., 1986a, III, p. 173). La sua mano è stata riconosciuta anche nel palazzo della Crocetta (ora Museo Archeologico), e nella loggia e nel ninfeo della villa di Careggi, ristrutturata per volere del cardinale Carlo de’ Medici (da ultimo: Fasto di corte, 2005).
Al terzo decennio del Seicento appartengono opere nelle quali convergono l’esperienza romana e fiorentina e per le quali Tarchiani, con Fontebuoni, è stato definito un «luminista riformato» (Gregori, 1962, p. 39): è il caso della tenebrosa e teatrale Lapidazione di s. Stefano di Capraia, firmata e datata 1621, memore del quadro del Cigoli con lo stesso soggetto e tra i pochi dipinti di cui conosciamo uno studio preparatorio (Oxford, Ashmolean Museum, inv. 197), e del Martirio di s. Bartolomeo a Padule, commissionato dal parroco Gherardo Totti e citato dall’anonimo biografo. Nel medesimo decennio si collocano il David e Golia della collezione Bardini (replicato dal figlio Jacopo) e il fiammeggiante e complesso S. Giovanni Evangelista e s. Francesco intercedono per le anime purganti (1621 circa) che decora la chiesa di S. Francesco a Pontremoli (Contini, 1989, pp. 333, 337). Sempre ancorato alla tradizione, ma irrobustito da solide costruzioni anatomiche definite dalla luce, è il Battesimo di Cristo affidato al pittore nel 1627 da Giovanni Battista d’Ambra per la chiesa di S. Orsola a Firenze, poi trasferito in S. Maria de’ Ricci e disperso dopo la metà del secolo scorso.
Nel decennio successivo la vitalità luministica e la struttura geometrica delle forme si ammorbidiscono e Tarchiani sembra anche recuperare la semplicità narrativa dei maestri controriformati. Tale cambio di passo si osserva già nell’Annunciazione di Padule del 1630 (Pizzorusso, 1979, p. 173 e fig. 3) e nella tela firmata e documentata al 1631-33 con le Esequie e miracoli di s. Verdiana a Castelfiorentino (Gregori, 1967, pp. 57, 59 nota 12; Proto Pisani, 1991), un’opera dalla narrazione serrata e dove la tavolozza si schiarisce in linea con il luminismo di Giovanni Martinelli, anch’egli attivo in S. Verdiana.
In questo quarto decennio, oltre alla partecipazione di Filippo (Tobia che visita i carcerati) e del figlio Jacopo (Tobiolo che guarisce il padre) alla serie di tele commissionate dalla Compagnia della Misericordia tra il 1632 e il 1633 (Bietti, 1981), vanno collocati, intorno al 1635, alcuni quadri citati nella Vita anonima: una «Beata Vergine Maria» e una «Santa Maria Maddalena a piè di Cristo» per il canonico Agnolo di Francesco Doni (pagati nel 1635-36: Caglioti, 2005, p. 70), la sontuosa e severa tela con la Gara fra Apollo e Pan dei Civici Musei di Reggio Emilia per Giovan Francesco Grazzini (Pizzorusso, 1986b) e un Tobiolo e l’angelo in collezione privata, forse quello per Filippo Strozzi citato nella biografia. è probabilmente dovuto sempre a una committenza Strozzi l’Angelo custode di S. Vito a Bellosguardo, dall’insolito sfondo paesistico con rovine antiche, opera matura dell’artista ma ancora debitrice agli insegnamenti di Pagani.
Richiami all’essenza della pittura di Pagani e di Rosselli, anche nell’eleganza delle vesti, affiorano nei due tondi con S. Cecilia e Re David (1635), incastonati ai lati dell’organo nella cantoria intagliata e dorata da Felice Gamberai per la famiglia Covoni nella Badia Fiorentina, opere la cui paternità è stata a lungo confusa con gli autori dei due dipinti rettangolari sottostanti, Baccio del Bianco e Francesco Furini.
L’anonimo biografo non menziona l’impegno dell’artista in cartoni per arazzi, cui invece si riferiscono alcuni documenti del 1618-19 (Meoni, 1998 e 2007) e ancora del 1635 (ASFi, Guardaroba Medicea, 1043, Affari diversi), mentre ricorda una collaborazione con Cinganelli, Baccio del Bianco e Remigio Cantagallina nell’esecuzione di grandi tempere per spettacoli teatrali.
Tra le ultime imprese di un certo rilievo portate a termine da Tarchiani intorno al 1640 sono le tre grandi pale della cappella Taglia nel duomo di Colle Val d’Elsa (Resurrezione, Immacolata Concezione, Madonna col Bambino e i ss. Andrea Corsini e Filippo Neri, le prime due firmate), dove, pur non mancando abilità luministiche, prevalgono i richiami alla tradizione fiorentina del Cigoli e dell’Empoli soprattutto.
Sebbene il catalogo di Tarchiani sia ancora lacunoso, nuovi quadri gli sono stati di recente riferiti (si vedano i repertori di Baldassari, 2009, e Bellesi, 2009), e l’artista ha trovato finalmente spazio adeguato tra i pittori del Seicento fiorentino, sia tra gli interpreti della corrente purista (D’Afflitto, 2001, p. 92; Barbolani di Montauto, 2014), sia tra quei pochi che si mostrarono disponibili a recepire il luminismo ‘caravaggesco’ (Fabbri, 2010).
Nessuna opera è attestata agli anni Quaranta, quando Tarchiani dovette dedicarsi, nella bottega dove teneva anche lezioni di disegno per dilettanti, a seguire le opere del figlio Jacopo (documentato a Firenze dal 1620 al 1692 e immatricolato all’Accademia del disegno nel 1639, https://www.aadfi.it/accademico/tarchiani-jacopo-di-filippo/, 31 marzo 2022), il cui catalogo è ancora composto da pochi numeri (tra cui il Tobia guarisce il padre dalla cecità e il Davide e Golia dell’Arciconfraternita della Misericordia, una S. Caterina da Siena, nel convento della SS. Annunziata di Poppi e due Angeli musicanti, in collezione privata aretina).
Morì il 21 settembre 1645 (ASFi, Arte dei Medici e Speziali, 258, Libro dei Morti 1635-50, lettera F; 21 agosto invece in ASFi, Ufficiali poi Magistrati della Grascia, 195, bob.11) e fu sepolto nella chiesa di S. Maria del Carmine insieme ai fratelli. Con la moglie Alessandra Nencioni ebbe, oltre al già citato Jacopo, altri cinque figli: Teresa, Antonino, Giovanni, Francesco ed Elisabetta.
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