UGO di Farfa
Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 97 (2020), 2023
Nato intorno al 972 da una nobile famiglia marsicana, nel 986 entrò nel monastero dei Ss. Quirico e Giulitta ad Antrodoco (Rieti), dove rimase per oltre dieci anni. Nel 997, dietro pagamento di una notevole somma di denaro, ottenne da Gregorio V la carica di abate di Farfa, che mantenne con alcune interruzioni per quarantuno anni.
Le modalità attraverso le quali Ugo era asceso al soglio abbaziale lo fecero giudicare colpevole di simonia dall’imperatore Ottone III, che non riconobbe dunque come legittima la sua consacrazione e concesse invece in beneficio l’abbazia a un vescovo – Ugo anche lui – con pieni poteri di amministrazione, ponendo all’interno del cenobio un suo stretto collaboratore di nome Erfone.
L’indignazione dell’imperatore per l’elezione di Ugo non era dovuta solo alla compravendita della carica, ma anche e soprattutto all’interferenza del pontefice nella scelta dell’abate di quella che si era configurata come ‘abbazia imperiale’ sin dal tempo di Carlo Magno e in particolare da quando il sovrano carolingio, con un precetto del 775, aveva esentato Farfa da ogni interferenza del potere civile e di quello ecclesiastico, ponendola sotto il mundiburdium regio al pari dei grandi cenobi appartenenti alla corona franca. Tale esenzione costituì una svolta importante nella storia del monastero, che mantenne a lungo la libertà e l’immunità che il precetto carolingio gli avevano conferito, godendo di condizioni privilegiate, come la libertà di elezione dell’abate da parte dei monaci del cenobio, secondo la regola di s. Benedetto. Tuttavia, se da una parte il precetto carolingio esentava il monastero dall’interferenza dei vescovi nell’elezione dell’abate, di fatto poneva quest’ultima sotto il controllo, più o meno marcato, dell’imperatore. Il monastero, insieme alle fondazioni monastiche di S. Andrea del Soratte e di S. Salvatore Maggiore di Rieti, diveniva così una sorta di avanguardia imperiale verso Roma e verso il papato, trasformandosi «in una istituzione non solo religiosa, ma anche e soprattutto politica, dominata da abati direttamente provenienti dai territori franchi e legati alle persone degli imperatori» (Andenna 2006, p. 115).
Nonostante l’iniziale contestazione della nomina simoniaca e della consacrazione da parte del pontefice, tuttavia, di fronte alle richieste dei monaci Ottone III acconsentì a riconoscere come legittimo il giovane Ugo, stabilendo però che in futuro l’abate, liberamente scelto dalla comunità dei monaci, fosse prima presentato all’imperatore e solo in un secondo momento consacrato dal pontefice (Il Regesto di Farfa, IV, 1888, p. 102, n. 700).
Da quel momento il monastero di Farfa tornò ufficialmente a far parte dell’orbita imperiale e il suo abate, ricevuto infine il benestare del sovrano, si trovò a godere del grande potere e della libertas garantiti dalla diretta dipendenza dalla curia regia, vantaggi che tornarono molto utili al giovane abate nelle numerose controversie che si trovò ad affrontare sin dai primissimi mesi dalla propria elezione per la difesa del patrimonio dell’abbazia.
L’elezione di Ugo era avvenuta infatti in un momento in cui le condizioni economiche e morali di Farfa si trovavano in uno stato di estremo decadimento. Le incursioni saracene che avevano devastato altri grandi cenobi dell’Italia centrale, come Montecassino e S. Vincenzo al Volturno, non avevano risparmiato il monastero della Sabina, costringendo la comunità monastica ad abbandonarlo, tra l’897 e l’898, per rifugiarsi in luoghi più sicuri. L’abbandono e la distruzione dell’abbazia segnarono l’inizio di un lungo periodo di crisi che si trascinò – attraverso scismi abbaziali, consistenti alienazioni di beni e una forte decadenza della vita monastica – per quasi un secolo. La situazione migliorò sotto l’amministrazione di Giovanni III (966-977), ma fu Ugo a condurre Farfa verso la rinascita, attraverso un’ardua impresa di rinnovazione dell’abbazia, che si declinò principalmente in due direzioni: da una parte la ricostruzione del patrimonio del grande cenobio, notevolmente depauperato nei decenni precedenti a causa di alienazioni, incuria e appropriazioni indebite; dall’altra la rinascita morale e intellettuale dell’abbazia.
Il riordinamento dell’immensa amministrazione farfense passò attraverso una lunga serie di azioni giudiziarie che videro Ugo protagonista e che sono ricordate nel Regestum Farfense di Gregorio da Catino (Il Regesto di Farfa, 1879-1914). La prima ebbe luogo il 9 aprile 998 quando Ugo – pochi giorni dopo la sua conferma da parte di Ottone III – fu chiamato in un placito presieduto dal papa e dal sovrano dinanzi alla basilica Vaticana a rispondere di ingiusto possesso di beni, concessi a Farfa in enfiteusi dai preti della chiesa di S. Eustachio a Roma. La questione riguardava in particolare due chiese – S. Maria e S. Benedetto – e le proprietà immobiliari che queste vantavano in città e che i monaci di Farfa, terminati gli anni dell’enfiteusi, si rifiutavano di restituire. Già in quest’occasione si dimostrò determinante per le sorti del monastero il favore del sovrano, il quale – su richiesta dell’abate – stabilì che il processo si svolgesse non secondo il diritto romano, ma secondo quello longobardo, che da sempre caratterizzava la persona giuridica dell’abbazia, determinando il successo di quest’ultima nella disputa. Analogo successo l’abate ebbe anche in un processo – sempre del 998 – contro il conte Benedetto della famiglia dei Crescenzi, per il possesso della corte di San Getulio (territorio oggi detto Villa Caprola, frazione di Montopoli di Sabina), che fu restituita ai monaci a patto che l’abate concedesse in enfiteusi al nobile romano il castello di Tribuco (Montopoli di Sabina), che sarebbe stato poi oggetto di un’altra lunga causa intrapresa da Ugo per rientrarne in possesso, cosa che gli riuscì solo nel 1014. Sempre nel 1014, papa Benedetto VIII, della famiglia dei conti di Tuscolo, su richiesta dell’imperatore Enrico II, assicurò ai cenobiti farfensi e all’abate, dopo assedi e scontri militari e dopo un lungo processo, la restituzione del castello di Bocchignano con tutti i diritti di fodro, di placito e di giurisdizione sugli uomini che abitavano nel villaggio e nel castello, sottraendolo ai conti Giovanni e Crescenzio, che lo avevano strappato con la forza al cenobio.
Queste e numerose altre rivendicazioni patrimoniali avanzate da Ugo e riferite dal Regestum Farfense – in particolare tra il 1001 e il 1009, grazie alle quali l’abbazia poté rientrare in possesso di molti beni che negli anni della crisi erano caduti nelle mani di laici o di altri enti ecclesiastici – danno conto dell’impegno profuso dall’abate nel riordinamento dell’immensa amministrazione farfense, al quale si dedicò con zelo per tutta la durata della propria carica.
L’attività di Ugo nel campo economico e amministrativo è attestata da oltre 220 documenti contenuti nel Regestum Farfense – che, eccezion fatta per quelli relativi alla sua elezione e alla riforma di Farfa, si riferiscono tutti alle rivendicazioni del patrimonio temporale del monastero – e da un abbondante materiale tratto dai catasti e disseminato in quasi tutte le opere di Gregorio da (o di), ma la riorganizzazione patrimoniale non fu l’unico caposaldo della più ampia riforma che Ugo intraprese a Farfa. Questa infatti passò anche – come già accennato – attraverso la restaurazione spirituale di quei costumi monastici che erano caduti tanto in basso negli anni della crisi. Per perseguire la sua riforma, Ugo si rivolse dapprima ai monaci benedettini di Subiaco e di Montecassino, ma non avendo potuto trovare in questi cenobi l’aiuto sperato, si recò a Ravenna, facendo da lì ritorno a Farfa con un piccolo drappello di monaci ravennati, che costituissero per la comunità farfense un esempio di disciplina monastica e austerità. Ma particolarmente importante per la riforma di cui Ugo si fece promotore fu l’influenza di figure del calibro di Odilone di Cluny e Guglielmo di Digione, che frequentarono il cenobio sabino in quegli anni e che spinsero l’abate a perseverare nel suo intento. Sotto la loro guida Ugo compilò quello che si configura come il vero e proprio manifesto della riforma monastica da lui promossa, il Constitutum Hugonis, promulgandolo nel 999 al cospetto di papa Silvestro II, che lo approvò e ratificò. In esso Ugo descriveva quello che era al suo arrivo lo stato dell’abbazia, i costumi secolari dei monaci, il decadimento morale, la mancata obbedienza alla regola monastica, impegnandosi poi all’osservanza nell’ordinamento di Farfa dei riti e dei costumi cluniacensi.
Notevole fu anche la spinta propulsiva che Ugo diede all’attività intellettuale all’interno del cenobio, promuovendo lo sviluppo dello scriptorium e del fervore letterario che da questo prese avvio. Scrive Ildefonso Schuster che «i migliori codici dello Scriptorium farfense conservati nelle biblioteche d’Europa datano […] alla prima metà del secolo undecimo e coincidono con il risveglio letterario promosso da Ugo I» (Schuster 1910, p. 713). Lui stesso fu autore di diverse opere di carattere storico e non solo, tramandate dal Regestum Farfense.
Prima fra tutte la Destructio Farfensis: composta tra il 1002 e il 1009, è il racconto della storia del monastero a partire da dove si era interrotto l’anonimo autore della Constructio Farfensis. Se quest’ultima descriveva la fondazione e lo sviluppo dell’abbazia, l’opera di Ugo si concentra invece sulla lunga crisi economica e spirituale vissuta da Farfa, prima e dopo le incursioni saracene, conducendo il racconto fino ai suoi tempi e arricchendolo di informazioni interessanti – se pur a volte imprecise – sulla situazione politica dell’epoca, in particolare a Roma e nel ducato di Spoleto.
Fa seguito alla Destructio un opuscolo, composto tra il 1024 e il 1026, intitolato Exceptio relationum de imminutione monasterii. In esso Ugo racconta la vera e propria battaglia giudiziaria da lui sostenuta per rivendicare a Farfa il possesso di alcuni beni nel territorio sabino, in particolare quello dei castelli di Tribuco e Bocchignano, lungamente contesi tra il monastero e i conti Crescenzi. Si tratta, secondo le parole di Ugo Balzani, di «un racconto pieno di vigore e di colorito, nel quale Ugo ci mostra vivi e moventi in azione i principali personaggi che dominavano e s’agitavano nel territorio romano sul finire del secolo decimo e il cominciar dell’undecimo» (Il Chronicon Farfense, 1903, I, p. XX), descrivendo mirabilmente quelle che erano all’epoca le condizioni del monastero, anche dal punto di vista dello stato d’animo dei monaci, che vivevano con ansia e timore «lo stato continuo d’assedio» da parte delle potenti famiglie romane (Schuster 1910, p. 802).
A quest’opera fa da complemento il Querimonium, uno scritto indirizzato da Ugo a Corrado II, in occasione del viaggio che l’imperatore compì a Roma per esservi incoronato tra il 1026 e il 1027. Si tratta di una sorta di memoriale della storia di Farfa, nel quale Ugo riporta la vicenda relativa alla contesa per i castelli di Tribuco e Bocchignano allo scopo di sollecitare un intervento del sovrano in favore del monastero.
Il Constitutum Hugonis, del quale si è già detto, è preceduto da una breve introduzione – scritta però diversi anni dopo, tra il 1003 e il 1008 – nella quale Ugo, descrivendo brevemente le condizioni di crisi profonda in cui versava il monastero al momento del suo arrivo, racconta anche schiettamente l’acquisto simoniaco della carica di abate e i tentativi da lui compiuti per fare ammenda a tale peccato.
Oltre a queste opere di carattere storico si ha poi notizia di alcuni scritti minori: il Breve de rebus perditis, presentato a Enrico II in occasione del sinodo romano del 1014 al quale lo stesso Ugo allude nella Exceptio relationum e comunemente identificato con uno scritto che Gregorio da Catino inserì nel Chronicon (Il Chronicon Farfense, II, 1903, pp. 10 ss.) e nel Regestum (Il Regesto di Farfa, V, 1892, doc. 1288, p. 283), sotto il titolo Breve recordationis facio ego Hugo humilis abba de terris, anche se tale identificazione non convinceva Schuster (Schuster 1910, pp. 803-804); due lettere ad domnum Landuinum, abate di S. Salvatore Maggiore, scritte verso il 1019 a proposito della corte di San Pietro in Meiana e dello scambio di alcuni beni (Il Regesto di Farfa, III, 1883, doc. 513, pp. 224-225; un breve recordationis dell’amministrazione di alcune terre del patrimonio farfense in Sabina, da ricollegare forse alle lettere precedenti, dove si fa appunto menzione di una simile nota (Reg. Farf., Il Regesto di Farfa, V, 1892, doc. 1288, p. 282; Schuster 1910, p. 804).
Il peso del governo di una così importante abbazia e l’impegno profuso da Ugo nella ricostruzione materiale e spirituale di Farfa dovevano gravare alquanto sulle spalle dell’abate, al punto che, nei quarantuno anni in cui resse le sorti del monastero, più di una volta egli rinunciò alla propria carica. Dopo aver già tentato di rimettere il governo dell’abbazia nelle mani dell’imperatore Enrico II ed essere stato da questi convinto a rimandare la propria decisione, Ugo lasciò la propria carica nell’anno 1009 e al suo posto venne eletto dai monaci suo nipote Guido. Nonostante non fosse più l’abate, Ugo rimase a Farfa e continuò indirettamente a occuparsi del governo dell’abbazia, esercitando notevole influenza sul nipote, il quale «sparì nell’ombra senza lasciar traccia di sé» (Schuster 1910, p. 738) quando, per l’insistenza di Enrico II, Ugo risalì sul soglio abbaziale, verosimilmente alla fine dell’anno 1013. Tornato a ricoprire ufficialmente la carica di abate, Ugo si concentrò sul consolidamento della situazione economica, scopo al quale senz’altro giovò il diploma che ottenne da Enrico II, che confermava gli ampliamenti patrimoniali avvenuti tramite donazioni negli ultimi anni (Il Regesto di Farfa, III, 1883, doc. 451, p. 164).
Nel 1027 Ugo rinunciò nuovamente alla carica abbaziale e al suo posto venne eletto Guido II. Non ci è dato sapere cosa accadde a Ugo negli anni intercorsi tra la sua nuova rinuncia e il momento in cui tornò a ricoprire la carica di abate, ma – scrive Schuster – «verisimilmente, se le animosità tra lui e Guido II gli vietarono in quest’occasione di soggiornare a Farfa, come aveva fatto altra volta sotto Guido I, a titolo d’onore fu certamente preposto a qualcuno dei numerosi monasteri farfensi. […] Ma l’impulso vitale impresso a Farfa da Ugo non illanguidì durante la sua assenza, e continuarono ad affluire le consuete donazioni, permute o compre vantaggiose» (Schuster 1910, p. 767).
Nel 1036 Guido II chiese di essere sollevato dalla carica, che tornò ancora allo stesso Ugo, che la detenne stavolta fino alla morte, avvenuta a Farfa la notte di Natale del 1038.
Fonti e Bibl.: Consuetudines monasticae, I, Consuetudines farfenses, a cura di B. Albers, Stuttgart 1900; Il Regesto di Farfa compilato da Gregorio di Catino, a cura di I. Giorgi - U. Balzani, I-V, Roma 1879-1914; Il Chronicon Farfense di Gregorio di Catino: precedono la Constructio Farfensis e gli scritti di Ugo di Farfa, a cura di U. Balzani, I-II, Roma 1903; Destructio monasterii edita a domno Hugone abbate, ibid., pp. 25-51; Relatio constitutionis domni Hugonis abbatis, ibid., pp. 53-58; Exceptio relationum domni Hugonis abbatis de monasterii Farfensis diminutione, ibid., pp. 59-70; Querimonium domni Hugonis abbatis ad imperatorem de castro Tribuco et Bucciniano, ibid., pp. 71-77; I. Schuster, L’abate Ugo I e la riforma di Farfa nel sec. XI (998-1038), in Bollettino della regia Deputazione di storia patria per l’Umbria, XVI (1910), pp. 603-812; Gregorio da Catino, Liber largitorius vel notarius monasterii Pharfensis, a cura di G. Zucchetti, I-II, Roma 1913-1932; I. Schuster, L’imperiale abbazia di Farfa, Roma 1921; G. Andenna, Farfa e il papato da Giovanni VII a Leone IX, in Farfa abbazia imperiale. Atti del convegno internazionale, Farfa-Santa Vittoria in Matenano, 25-29 agosto 2003, a cura di R. Dondarini, Verona 2006, pp. 101-130; C.D. Fonseca, Farfa abbazia imperiale, ibid., pp. 1-17.