VIDUSSONI, Aldo
Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 99 (2020), 2023
Nacque a Fogliano Redipuglia, provincia di Gorizia, il 21 gennaio 1914, da Silvio e da Anna Sandri. S’iscrisse al Partito nazionale fascista (PNF) il 24 maggio 1936. Frequentò la facoltà di Scienze economiche dell’Università di Trieste, ma interruppe gli studi e si arruolò volontario per partecipare alla guerra civile spagnola. Gli venne conferita una medaglia d’oro per un atto di coraggio compiuto il 15 agosto 1937 a Venta Nueva, in Spagna, nel corso della battaglia che consentì alle forze franchiste di conquistare Santander. Durante un assalto a una postazione nemica, riportò la mutilazione di metà dell’avambraccio destro e ferite alla testa con una parziale menomazione a un occhio.
Segretario federale a Enna dal 1° agosto 1940 all’8 novembre 1941, entrò di diritto a far parte della Camera dei fasci e delle corporazioni, dove rimase ininterrottamente fino al 18 aprile 1943. Come membro della Camera presentò 39 progetti di legge, ma nessuno di questi venne convertito in legge. Dopo Enna, fu chiamato a Roma presso la direzione del partito, prima come ispettore del PNF e poi come segretario generale dei Gruppi universitari fascisti (GUF). Il 26 dicembre 1941 fu nominato inaspettatamente segretario nazionale del Partito nazionale fascista, in tale veste entrò a far parte del Gran Consiglio. Grazie al decreto legge 11 gennaio 1937 n. 4, godette del rango di ministro segretario di Stato, che gli consentiva di partecipare all’attività di governo.
Il Popolo d’Italia del 27 dicembre 1941, nel dare l’annuncio della sua nomina, lo definiva «il supermutilato» ed elencava i suoi meriti. Ma, in realtà, il giovane segretario era del tutto sconosciuto nelle file del partito. Dopo aver sottolineato l’unanime stupore suscitato dalla nomina di «un certo Vidussoni», che «tutti commentano sarcasticamente», Galeazzo Ciano ammetteva che di lui sapeva solo «che ha la medaglia d’oro, ventisei anni ed è laureando in legge. Altro di lui non vi saprei narrare. Evidentemente si tratta di un esperimento audace» (Ciano, 1990, p. 571). Poi smentiva le voci che già avevano preso a circolare circa una sua ingerenza nella nomina, precisando che Vidussoni «è uscito dal pensiero di Mussolini come Minerva dal cervello di Giove». Raccoglieva quindi gli umori di importanti membri del vecchio establishment del partito, che avevano cominciato a darsi dattorno – scrive – «per dire che è un fesso»(p. 572). Giuseppe Bottai lo aveva preso a sferzate, celiando sul «suo sciocchezzaio bertoldesco»(Bottai, 1989, p. 339).
Anche se Ciano dichiarava che, da parte sua, non intendeva ancora emettere giudizi, le prime esternazioni del nuovo segretario lo avevano allarmato, quando, ad esempio, lo aveva sentito esprimere «truci propositi contro gli sloveni. Li vuole ammazzare tutti. Mi permetto osservare che sono un milione. Non importa – risponde deciso – bisogna fare come gli ascari e sterminarli tutti» (Ciano, 1990, p. 578). Nel dopoguerra, Vidussoni negò quanto scritto da Ciano, ma ammise che in effetti «tutti noi giuliani abbiamo un’avversione istintiva contro gli slavi ma da questo a massacrare un milione e mezzo di persone ci corre parecchio»(Roma, Archivio centrale dello Stato, Corte di assise speciale, f. 26).
Tra il febbraio e il marzo del 1942, cioè a pochi mesi dalla nomina, Ciano tuttavia aveva già preso le misure nei confronti di Vidussoni che, a suo avviso, aveva «poche idee, ma ben confuse». A commento di un lungo colloquio tra i due, il ministro degli Esteri scriveva di continuare a mantenere «un prudente riserbo: non può durare». Egli prevedeva quindi che Vidussoni avrebbe presto finito per soccombere e con ciò reso «ancor più precaria la situazione del Partito che è già molto debole e scossa». La sua inesperienza politica lo metteva spesso in conflitto anche con i suoi collaboratori più diretti. Lo stesso vicesegretario Carlo Ravasio, membro della vecchia guardia milanese, messo lì – come specificò Benito Mussolini al momento della nomina - «a sovrintendente della ortodossia politica e morale del Partito» (Guerri, 1978, p. 11), dopo qualche mese si mostrava sfiduciato e convinto «che le cose andranno male! Non vuole esserne responsabile senza averne né colpa né peccato»(Ciano, 1990, p. 587).
Se da una parte Mussolini era consapevole dello sconcerto con cui i primi e più fedeli seguaci avevano accolto la nomina di Vidussoni, dall’altra era mosso dall’urgenza di scuotere un partito ormai in crisi, con l’innesto di nuove forze. Lo disse esplicitamente al direttorio del 3 gennaio 1942: «Dopo venti anni di regime, vi sono due generazioni che si contendono il governo: quella che tramonta e quella che sorge. È quindi necessario saldare il ciclo delle generazioni, ognuna delle quali è fatalmente portata a esprimere il suo disaccordo nei confronti di quella che l’ha preceduta» (Guerri, 1978, p. 8). Nel contempo, però, vegliava su quella che egli considerava la parte migliore del partito di cui non voleva assolutamente perdere il consenso. A Vidussoni chiese, perciò, di avviare un processo di epurazione che, nelle sue intenzioni, doveva essere ben mirato. Il duce lo affermò in modo netto poco più di un mese dopo, il 13 febbraio 1942, quando parlò dell’opportunità di liberarsi di elementi «oggi considerati come una specie di zavorra». Occorreva «espellere questa zavorra. E puntare risolutamente sul giovane». Insomma il partito doveva «ricercare la qualità più che la quantità», attraverso una selezione che puntasse al ringiovanimento della classe dirigente (De Felice, 1996, pp. 899 ss.). Egli, d’altra parte, aveva avvertito da tempo i processi d’invecchiamento del PNF, che stavano provocando uno scollamento sempre più evidente tra il Paese e il regime, al punto che era diventato ormai un luogo comune indicare nel partito «una delle ragioni principali del malcontento, della passività dello spirito pubblico e dello scadimento del prestigio del regime e dello stesso Mussolini» (p. 898). Critiche che andavano mescolandosi pericolosamente ai diffusi malumori di un’opinione pubblica stanca di una guerra le cui ragioni aveva faticato a capire sin dall’inizio, e di cui cominciava a subire le pesanti conseguenze. A queste si aggiungeva, peraltro, l’evidenza dei comportamenti spregiudicati e l’ostentazione di lusso e privilegi da parte dei gerarchi. Si trattava, insomma, di affrontare ‘la questione morale’ chiamata sempre più in causa dalle insistenti ‘mormorazioni’ provenienti dal basso e ampiamente denunciata dalle relazioni della rete OVRA. Il pessimo andamento della guerra, su tutti i fronti, non giocava inoltre a favore di Mussolini e del regime. Era dunque necessario porre rimedio, ricorrendo alla nomina, a segretario del PNF di un giovane fascista volenteroso ed entusiasta come Vidussoni, del tutto impreparato, tuttavia, ad affrontare uno scoglio politico così complesso e insidioso, come quello rappresentato dal processo di rinnovamento del partito, un ambiente «di vecchie puttane» come lo bollerà icasticamente Ciano (Ciano, 1990, p. 572). Uno scoglio contro il quale erano già naufragate miseramente le velleità riformatrici degli altri due precedenti segretari, Ettore Muti e Adelchi Serena, peraltro politicamente più esperti di lui.
Per sostenere un ruolo così decisivo per le sorti del regime ci voleva, dunque, un vero politico, intelligente e smaliziato. Mussolini aveva fatto un preciso riferimento alla moralità, quando aveva promesso che l’epurazione sarebbe stata fatta «in base alle qualità positive o meno dell’individuo», e che non era importante se questo avesse significato perdere anche un milione di iscritti (cit. in De Felice, 1996, p. 900). Il calo della sua popolarità era evidente. La popolazione era ancora con lui, ma le critiche che investivano dal basso il partito lo serravano in una morsa da cui era difficile liberarsi. Era impossibile infatti che, dati i rapporti organici tra partito e regime, gli errori del segretario politico non finissero per ripercuotersi sulla sua persona. Ma Vidussoni interpretò le direttive del duce al ribasso. Con un’azione epuratrice abbastanza inconsistente, si limitò a colpire qua e là qualche notabile di seconda fila. Anche se vi furono alcune espulsioni esemplari di consiglieri nazionali e di federali, tuttavia esse non solo non servirono a porre rimedio alla crisi morale e politica in cui versava il partito, ma allarmarono la vecchia guardia, presa nel frattempo di mira anche dalle critiche radicali da parte di alcuni settori ristretti del mondo giovanile universitario, cui dava voce il loro organo, Roma fascista (Indrio, 1987). L’establishment parlò soprattutto per bocca di Roberto Farinacci, che non esitò a scagliarsi contro l’incapacità di Vidussoni e del suo entourage. Il ‘ras’ di Cremona scrisse ripetutamente a Mussolini nell’autunno-inverno del 1942, accusando il segretario di colpire i pesci piccoli per evitare di affrontare quelli più grossi. In realtà, Farinacci protestava anche perché erano stati presi di mira uomini a lui legati, come l’affarista Enrico Maria Varenna, al quale il giovane segretario aveva ritirato la tessera del partito.
La moralizzazione del PNF, attraverso un'epurazione incisiva che colpisse la vecchia guardia ma senza perderne il sostegno, era un obiettivo fuori della portata di Vidussoni. Inoltre la sua insensibilità per le grandi questioni politiche, che in quel momento investivano drammaticamente il Paese, fece il resto. Con il Vaticano, in particolare, la partita che stava giocando Mussolini era delicata. La guerra aveva naturalmente acuito la preesistente tensione tra il Vaticano e la Germania nazista che, con l’ingresso in guerra dell’Italia, aveva cominciato inevitabilmente a interessare anche l’alleato fascista. Mussolini aveva più volte aspramente criticato, nelle sedi del partito e del regime, le posizioni assunte dal pontefice, ma naturalmente nelle occasioni pubbliche faceva di tutto per smorzare i toni della polemica. Vidussoni non fu in grado di cogliere e adattarsi alle sottigliezze politiche del duce. Nel discorso al direttorio nazionale del 3 gennaio 1942, ad esempio, Mussolini era stato molto caustico verso alcune posizioni assunte da elementi importanti all’interno della Chiesa cattolica «che osteggiano l’Asse», profetizzando che il Vaticano avrebbe finito «per ridursi come all’epoca di Celestino V» (Guerri, 1978, pp. 9 e 12). Vidussoni prese sul serio e alla lettera le esternazioni di Mussolini, mettendole in giro pur trattandosi delle solite «enunciazioni più teoriche che politiche, più storiche che contingenti», e facendo sapere che il partito era pronto «a dare l’assalto al Vaticano» (Ciano, 1990, p. 593). Più volte Ciano dovette incaricare l’ambasciatore presso la Santa Sede Raffaele Guariglia di correre ai ripari smentendo tali voci (p. 594). Anche i temi propagandistici antiborghesi che Mussolini aveva preso ad agitare ad arte, per tenere a freno le velleità antifasciste di alcuni settori del ceto medio, vennero interpretati da Vidussoni in maniera estemporanea e riduttiva. Se la prese, ad esempio, con i circoli di golf, che minacciò più volte di far chiudere, perché «il golf è uno sport da signori». Ciano commentò sarcastico che gli sembrava «di sentir parlare quelli che abbiamo legnato nel 1920 e ’21» (pp. 617 s.).
Mussolini non aveva di certo tardato a valutare l’inadeguatezza di Vidussoni. Già nel maggio del 1942, parlando con Carmine Senise, il capo della polizia, si chiedeva se la sua scelta fosse stata «un bene o un male» (pp. 618 s.). Anche se tardò a sostituirlo, tuttavia non sottovalutò i pericoli di una disaffezione al partito da parte di membri di rilievo della vecchia guardia, soprattutto in un momento così difficile per il regime. Fece perciò entrare nel direttorio Carlo Scorza, squadrista della prima ora e avversario del segretario, non potendo più ignorare i molti segnali di un’opinione pubblica sempre più insofferente per la mediocrità dei cosiddetti uomini nuovi che da tempo egli chiamava alla direzione del partito. In una lettera anonima pervenuta a Ciano, Vidussoni viene definito il «perfetto campione della gioventù fascista: mutilata, ignorante e scema» (p. 583).
Il 21 settembre 1942, Vidussoni, insieme a una folta delegazione del PNF, partiva in treno per una visita alle truppe italiane schierate sul fronte orientale. Il punto più a est raggiunto, il 29 settembre, fu Millerovo, una piccola città a metà strada tra Charkov e Stalingrado, dove era acquartierato il Comando d’armata italiano. Da qui Vidussoni si spostava lungo il settore del fronte tenuto dai soldati italiani, che si estendeva da Millerovo a Rossosch, non lontana da Voronež. La relazione che presentò a Mussolini, scolastica e pignola, contiene alcuni particolari terribili che tuttavia sembrano scivolare sotto la sua penna. Osservava che gli ebrei erano «severamente trattati e sottoposti a restrizioni di ogni genere», che gli era stato riferito, «da italiani che vivono in quei territori e qualche volta anche dai tedeschi in vena di confidenze», che le fucilazioni di ebrei «sono all’ordine del giorno e anche per forti contingenti di individui di ogni età e sesso». A Minsk, egli stesso aveva visto «ammassata la roba di migliaia e migliaia di ebrei ammazzati» e constatato che «intere città e villaggi hanno avuto ridotto anche di un terzo e della metà la popolazione, specialmente per l’eliminazione degli ebrei». Vidussoni riferiva anche che tra i soldati italiani e tedeschi «i rapporti non erano molto cordiali» (Roma, Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 50). Il 7 ottobre partì in aereo per Vinnycja, in Ucraina, dove si trovava il quartier generale di Adolf Hitler, e vennericevuto dal führer e da Wilhelm Keitel. Quindi raggiunse Monaco di Baviera, da dove rientrò in Italia.
Alcuni passaggi della sua relazione probabilmente infastidirono Mussolini, laddove Vidussoni poneva l’accento sul modello nazista di partito e soprattutto sottolineava il primato assoluto di cui esso godeva in Germania. Trapelava, insomma, una evidente esaltazione della supremazia del partito nei confronti dello Stato — che Mussolini aveva sempre osteggiato — mostrando di non aver capito che il suo predecessore, Adelchi Serena, era stato rimosso proprio per posizioni analoghe. Serena si era messo «su di una cattiva strada» – aveva una volta confidato il duce a Bottai – «portando il Partito a contrastare di continuo con gli organi di Governo» (Bottai, 1989, p. 294).
Gli scioperi del marzo 1943 affrettarono la caduta di Vidussoni che, il 18 aprile 1943, venne sostituito da Scorza. Non è un caso che Mussolini, davanti al direttorio riunito per assistere al passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo segretario, nell’esaminare le cause dell’indubbio successo degli scioperi, riservasse al partito fascista le parole più dure: «Il partito, bisogna riconoscerlo – concluse quasi a mo’ di epitaffio della gestione Vidussoni – non è stato all’altezza della situazione» (De Felice, 1996, p. 954). Con il suo allontanamento, Vidussoni tornava nell’ombra. Aderì alla Repubblica sociale italiana e, dimenticato da tutti, visse i primi mesi a Trieste in condizioni di miseria. Fu il giornalista Attilio Crepas a suggerire a Mussolini che fosse opportuno trovargli un impiego (Roma, Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, Repubblica sociale italiana, b. 21). Venne così nominato presidente dell’Istituto nazionale del Nastro Azzurro fra combattenti decorati al valor militare e, assumendo l’incarico, venne a far parte di diritto del direttorio del Partito repubblicano fascista (PRF). Nel febbraio del 1945, arruolatosi volontario, fu assegnato con il grado di capitano al 1° battaglione della divisione Etna. Catturato il 9 maggio 1945, fu consegnato agli alleati e internato nel campo di concentramento di Coltano (Pisa).
Il 9 settembre 1945, l’Alto commissario per le sanzioni dei reati fascisti emanava a suo carico un ordine di cattura. Due erano i capi di accusa: perché «svolgendo attività diretta a rinforzare il partito fascista e le organizzazioni da esso dipendenti, e partecipando alle decisioni del Governo in un periodo in cui il fascismo era vacillante a seguito degli insuccessi militari, aveva contribuito a mantenere in vigore, con atti rilevanti il regime fascista». E inoltre «per avere collaborato col tedesco invasore ricoprendo nello pseudo governo repubblicano fascista la carica di membro del Direttorio nazionale del P.F.R.» (Roma, Archivio centrale dello Stato, Corte di assise speciale, b. 26).
Il 7 ottobre 1945, fu tratto in arresto all’interno del campo di internamento e tradotto a Roma. Dal 14 novembre al 15 dicembre 1945, a causa del sovraffollamento del carcere romano, fu detenuto nel penitenziario di Procida. Il processo venne celebrato davanti alla prima Sezione speciale della corte d’assise di Roma e la sentenza venne emessa il 2 dicembre 1946. Per la prima accusa fu condannato alla pena di 14 anni di reclusione, di cui un terzo condonati, mentre venne prosciolto da quella di collaborazionismo per sopravvenuta amnistia. Il 18 gennaio 1947, la Suprema Corte di cassazione, a sezioni riunite, decise l’annullamento senza rinvio della condanna.
Morì a Cagliari il 30 novembre 1982.
Fonti e Bibl.:
Archivio di Stato di Roma, Corte di assise speciale, f. 26; Roma, Archivio centrale dello Stato, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, bb. 50 e 73; Repubblica sociale italiana, b. 21; Ministero dell’Interno, Gabinetto, Fascicoli permanenti, 1944-1946, b. 170; Ministero dell’Interno, Gabinetto, Fascicoli permanenti, 1947, b. 4; Ministero dell’Interno, Divisione servizi informativi e speciali - SIS, 1944-1948, Sezione I, categoria A5G/32, Internati, b. 137.
G.B. Guerri, Rapporto al Duce, Milano 1978, ad indicem; U. Indrio, Da ‘Roma fascista’ al ‘Corriere della Sera’, Roma 1987; G. Bottai, Diario 1935-1944, Milano 1989, ad indicem; G. Ciano, Diario 1937-1943, Milano 1990, ad indicem; R. De Felice, Mussolini l’alleato, 2, Crisi e agonia del regime, Torino 1996, ad indicem.