ZUCCHI, Virginia (Eurosia, Teresa)
di Concetta Lo Iacono
Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 100 (2020), 2023
Nacque a Parma il 10 febbraio 1849 in una famiglia modesta: il padre Vincenzo era portiere, la madre, Maria Gerbella, maestra; anche la sorella Costantina divenne danzatrice.
Studiò dapprima nella città natale, quindi a Milano con Pasquale Corbetta, Giuseppe Ramaccini e il più noto Lodovico Montani, maestri di scuola milanese anche se non scaligeri a tutti gli effetti. Dopo il debutto a Varese, a 15 anni, in Nisia ossia Lo spirito danzante Zucchi iniziò una lunga gavetta nei principali teatri della penisola (Reggio nell’Emilia, Firenze, Piacenza, Bologna, Verona, Messina e Palermo ecc.). Nella stagione di carnevale e quaresima 1873 «incontrò esito felice» a Genova con La dea del Valhalla di Pasquale Borri: un tema d’ispirazione wagneriana nell’eclettica produzione coreografica postromantica, spesso rifacimenti di celebri titoli francesi; d’altra parte le guerresche divinità della mitologia nordica giunsero confortate dalla fama di Richard Wagner, precedendo a volte sulle scene italiane più accreditate l’allestimento delle opere. Sempre nelle riproduzioni di coreografi minori non autorizzate dagli autori (secondo la prassi vigente), Zucchi interpretò i balli di Giuseppe Rota (La contessa d’Egmont e Lo spirito maligno) nonché Fiamma d’amore ed Esmeralda, rispettivamente di Arthur Saint-Léon e Jules Perrot. Di Hippolyte Monplaisir divenne l’interprete ideale: balli ispirati a un vago esotismo come Estella, Le figlie di Chéope (sulla scia del successo nel 1871/72 dell'Aida verdiana), La Semiramide del Nord, dedicato alla vita e agli amori di Caterina II, dove interpretò Maria de Lieven, ‘la fata della Newa’, e soprattutto Brahma (su musica del collaboratore abituale del coreografo francese, Costantino Dall’Argine), da lei interpretato per la prima volta a Padova nell’estate 1873. La protagonista Padmana si accompagnava alle innumerevoli sacerdotesse e danzatrici indiane dei libretti coreografici ispirati alla ballata Der Gott und die Bajadere di Goethe: una fiera e magnetica danzatrice del tempio con un’insolita dignità nel volto e che danza da «vera zingara parsi», come recita il libretto.
Negli anni Settanta Zucchi si affermò soprattutto nei teatri di Torino, Firenze e Roma. A Torino conseguì un durevole successo e allacciò una contrastata liaison con Emanuele Alberto conte di Mirafiori (figlio di Rosa Vercellana, moglie morganatica di Vittorio Emanuele II). Nel 1870 ebbe da lui la figlia Rosina, che non sopravvisse. Nel 1874 confermò la propria fama al teatro alla Scala nella stagione 1875-76 nel ballo Rolla, ispirato alla storia patria e all’arte italiana (Michelangelo e Cosimo I si stagliano sullo sfondo dell’infelice storia dello scultore Rolla): fu uno dei primi balli storici di Luigi Manzotti, nel solco di una cultura popolare tesa a costruire l’identità nazionale. Zucchi limitò sempre gli spostamenti via mare e perciò rifiutò un invito in Egitto, tuttavia nel 1878-79 danzò a Londra (Royal Italian Opera, Covent Garden) nelle opere Le Prophète di Meyerbeer, Hamlet di Thomas e Le roi de Lahore di Massenet. Alla Hofoper di Berlino fu ospite per tre stagioni consecutive (1876-78) nei balletti più noti del coreografo Paul Taglioni, allora al culmine della carriera: Sardanapal, Madeleine (ispirato alla storia di Manon), Satanella, e La fille mal gardée (da Dauberval), l’unico balletto settecentesco del suo ‘canzoniere’ (ebbero tutti le musiche di Peter Ludwig Hertel). Nel 1879 ebbe dal pittore Adolphe Jourdan la figlia Marie, che le rimase poi sempre vicina.
All’inizio degli anni Ottanta ascese al rango di diva, e il suo nome apparve sui giornali pure per motivi mondani (La fille mal gardée, teatro Costanzi, Roma, 1881); gazzette e monitori teatrali come l’Asmodeo, spesso espressione diretta delle agenzie, da allora sino ai primi anni Novanta riportarono gli encomi poetici o le critiche pungenti della stampa da nord a sud. Quando a Napoli la claque diede vita a un «baccano indecente» tra la «celebrità danzante» Virginia Zucchi e la «ballerina di rango francese» Giovannina Limido che si alternavano nei balletti La sorgente, La fille mal gardée e Brahma, si annunciò la Zuccheide! (Gazzetta dei Teatri, 14 aprile 1881). Al teatro alla Scala fu la prima ballerina assoluta in due balli su musiche di Romualdo Marenco: L’Astro degli Afghani, coreografia di Rota riprodotta da Ferdinando Pratesi, e il Ballo Excelsior di Manzotti. Il direttore della Gazzetta, Carlo D’Ormeville, stigmatizzò anche questa volta i modi dell’irrequieta diva: nell’inno al progresso che racchiudeva l’immaginario della modernità, Zucchi diminuì il prestigio del suo personaggio (la Civiltà) indossando un costume che anticipava i lustrini della rivista. Sempre con lei, l’anno dopo il coreografo ripropose in Francia Sieba o La spada di Wodan, una wagneriana «azione coreografica in sette atti e nove quadri» adattata al teatro d’intrattenimento: l’Éden-Théâtre, edificato in forme orientali per ospitare il nuovo indirizzo della coreografia manzottiana.
Nella Parigi della Belle époque, Zucchi, gratificata con l’appellativo ‘La Divina’, fu la vedette del nuovo genere leggero (in Sieba il suo costume di walkiria non era molto diverso dall’odierna guêpière). Apparve sui giornali con il titolo La Zucchi (Le Gaulois, 21 novembre 1883; Le monde illustré, 15 dicembre 1883), nella réclame e nella letteratura minore come seducente ‘figlia di Eva’. La relazione con il tenore Julián Gayarre offrì spunti per un genere letterario in crescita: romanzi di vie parisienne, femmes fatales e danseuses (di Félicien Champsaur: Miss America, 1885, e L’amant des danseuses, 1888). S’impose con lei un costume più corto della vaporosa gonna a campana oggi definita ‘tutù lungo’ o ‘romantico’; il termine di nuovo conio nella lingua francese tutu fu introdotto prima nel gergo infantile e licenzioso, e solo più tardi in quello colto. Nel 1884 il pittore Georges Clairin la ritrasse con il corto tutu à l’italienne nel Portrait de M.lle Zucchi (ora nella Bibliothèque de l’Opéra), souvenir del suo tempestoso soggiorno parigino.
Nella stagione 1884-85 interpretò a Torino due nuovi personaggi: Rodope, con la coreografia di Raffaele Grassi (l’inquieta schiava d’Esopo ‘dalla guancia rosata’ sullo sfondo di un esotico Egitto), e l’intraprendente Swanilda in Coppelia, il balletto creato nel 1870 da Saint-Léon con la musica di Léo Delibes.
Il 18 giugno 1885 Zucchi debuttò nel teatro estivo Livadija di Pietroburgo, ribattezzato Kin’ Grust’ (Scaccia-tristezza) dal perspicace attore-impresario Michail Lentovskij, nel contesto di spettacoli di operette (Le voyage dans la lune e Les pommes d’or) e féeries con brevi divertissements del coreografo Joseph Hansen ed esibizioni di giocolieri e pantomimi. Nel clima effervescente degli spettacoli da fiera si assisteva a fantasmagorie tecniche, riprese poi da Georges Méliès nelle sue magie cinematografiche (Le voyage dans la lune, 1902). Nelle numerose repliche fece furore il valzer di Zucchi, eseguito sulla musica di un’aria molto popolare: Pomniš-li ty? (Ti ricordi?): sebbene non brillasse per ballon ed élévation, stupì per la velocità delle sue ‘punte d’acciaio’ create dagli artigiani italiani. Sull’affiche (RGALI, 1885, foglio 837) del terzo spettacolo-féerie – Lesnoj brodjaga (Il vagabondo nella foresta. Scene di vita americana) – comparve per la prima volta la dicitura «Danze composte da Virginia Zucchi», un riconoscimento raro all’epoca. Richiamati dalla novità, tra gli spettatori figuravano noti ballettomani capeggiati da Konstantin Skal’kovskij, che per primo aveva visto la ballerina in Italia e ne aveva parlato in Russia; si aggiunse il giovanissimo Aleksandr Benois (che più tardi convinse Sergej Djagilev ad avvicinarsi al mondo della danza), per il quale Virginia fu la musa ispiratrice che assommava in sé la quintessenza della femminilità. Perciò il 1885 segnò l’inizio ‘dell’invasione’ delle ballerine italiane e della gestazione dei Ballets Russes.
A seguito delle esibizioni negli esclusivi teatrini di corte fuori città (Carskoe Selo e Pavlovsk), ottenuta l’approvazione dello zar, le fu offerto un contratto vantaggioso con i Teatri Imperiali. Nel dicembre 1885, al teatro Bol’šoj di Pietroburgo, dopo La fille du Pharaon ou Le rêve du passé (dal Roman d’une momie di Théophile Gautier), colse il vero trionfo nella parte di Lisa (La fille mal gardée), nella versione di Marius Petipa e Lev Ivanov, musica di Hertel (nuova per le scene russe). Fu un’occasione di lavoro quanto mai stimolante: Virginia si trovava ora in un’istituzione perfettamente organizzata, con Petipa maître de ballet, Pavel Gerdt suo partner, assieme al miglior corpo di ballo allora esistente. Nel 1886 venne riaperto in tutta la sua magnificenza il teatro Mariinskij (a capo dell’orchestra vi era Riccardo Drigo, che aveva in precedenza diretto le opere italiane a Pietroburgo). Zucchi vi interpretò, con ardore mediterraneo, L’ordre du Roi (un adattamento coreografico dall’opera di Delibes Le roi l’a dit) e Paquita, e il 29 dicembre dello stesso anno Esmeralda. Per la ripresa del capolavoro di Perrot e Cesare Pugni tratto dal romanzo di Victor Hugo, Petipa aveva commissionato al musicista padovano nuovi brani, per consentire a lei e alle altre ospiti italiane di introdurre le attese ‘variazioni’ o assoli personali (che i grandi ballerini, al pari dei cantanti lirici, portavano con sé nei loro ‘bauli’).
Le stagioni russe furono per Zucchi gli anni più gratificanti, in linea con il periodo di massima espansione della coreografia italiana all’estero, che toccò l’acme nel 1887. In quell’anno la danzatrice interpretò il ruolo eponimo nell’opera di Auber La muette de Portici, intitolata in Russia Fenella anziché Masaniello: la protagonista muta dell’opera, divenuta simbolo di passioni locali, mitigava col suo sacrificio l’aspro conflitto tra spagnoli e napoletani, tra nobili e lazzaroni. Zucchi eseguì con commovente realismo le movenze della tarantella, applicando così uno dei dettami del Trattato di Carlo Blasis (che ella considerava «la sua Bibbia»), convinta che lo studio delle danze popolari sviluppasse l’espressività (Guest 1977, pp. 122 s.). Passionale in scena e intemperante tra le quinte, consapevole di essere la fonte dei lauti incassi del teatro, non accettò le disposizioni vigenti circa il vestiario e per questo accorciò i costumi secondo l’uso europeo. Discusse di sovente con Petipa (Racster 1923 e Benois 1941, passim), imponendo sia le scelte coreografiche (come le prese acrobatiche già affermatesi nei balli italiani, con il loro inevitabile effetto di ineleganza in composizioni di stile francese), sia le scelte estetiche (come i capelli sciolti e i vestiti in disordine). Nonostante i successi, il contratto della Zucchi non fu rinnovato perché il suo stile di danza cominciava a incontrare decise opposizioni, e anche perché la sua figura di ballerina e di donna non poteva armonizzarsi con l’aristocratico bon ton del teatro Imperiale (Benois 1941, pp. 81 s.). Il 12 marzo 1888 comparve per l’ultima volta al Mariinskij in uno spettacolo composto da scene di Coppelia e L’ordre du roi. In seguito colse ancora significativi successi in provincia, sulle scene minori o nei giardini d’estate, nei rifacimenti a cura di José Mendez dei balli a lei più familiari (cui aggiunse Catarina, la figlia del bandito, episodio della vita di Salvator Rosa); conobbe larga notorietà anche a Mosca.
Il giovane Konstantin Stanislavskij vide Zucchi sulle scene estive e la invitò nel suo teatrino domestico, potendo contare su di lei in qualità di «regista e protagonista» nella pantomima tratta da Esmeralda, come scrisse nell’autobiografia (1963, p. 107): «Mi colpivano la scioltezza e l’assoluta mancanza di sforzo dei suoi muscoli nei momenti di forte slancio spirituale, sia nel dramma, che nella danza, quando la sfioravo per sorreggerla in qualità di partner. Mentre io, al contrario, sulla scena ero continuamente teso e la mia fantasia era sempre addormentata perché mi avvalevo dei modelli altrui». L’attrice Marija Velizarij (1938, pp. 54 s.) descrisse con esattezza i terribili tormenti di Zucchi-Esmeralda: «E quando si rialza voi potete veder scorrere sul suo bellissimo volto trasfigurato dal dolore delle grosse lacrime. E all’improvviso di nuovo la danza indiavolata… Non avevo mai visto in un dramma un’attrice piangere tanto naturalmente […] nemmeno Sarah Bernhardt. Nella Zucchi erano vere sofferenze, in Sarah Bernhardt tecnica superlativa».
Al rientro in patria limitò ulteriormente il repertorio a balletti e a lavori drammatici dove apporre «il suo suggello di verismo» (D’Ormeville, Virginia Zucchi, in Gazzetta dei Teatri, 8 dicembre 1892). Caricature e parodie ricordate da Eduardo Boutet e Nicola Maldacea ne sancirono la fama; Casimiro Teja la ritrasse in «un bizzarro e ingegnoso scambio di mestieri in due grandi quadri, mercé il quale nell’uno furon veduti ministri in veste di celebri personaggi di teatro […] e nell’altro Ernesto Rossi, ballerina – Ferravilla, Oreste – la Zucchi Amleto» (Rasi 1907, pp. 82-84). Le sue doti di danzatrice-attrice le valsero le lodi di Marco Praga, che la vide al Dal Verme di Milano, e di Romain Rolland in visita a Roma (Pietro Micca, coreografia di Manzotti, Teatro Quirino), nonché gli inviti di Cosima Wagner a Bayreuth per la messinscena del Venusberg nella ripresa di Tannhäuser (1891), e di Raoul Gunsbourg a Montecarlo per la scena del sogno nel primo allestimento teatrale de La damnation de Faust di Berlioz (1893).
Il lento declino durò fino all’alba del nuovo secolo, quando si ritirò definitivamente dalle scene, al termine di una carriera tanto lunga da suscitare la disapprovazione dei suoi fedeli ammiratori (Skal’kovskij 1899, p. 208). Secondo lo storico Sergej Chudekov (1915, p. 393) che la vide danzare a Genova in una serata imbarazzante, «la curiosa ed eccentrica danzatrice che sin dall’inizio aveva suscitato opposte reazioni […] era sopravvissuta alla propria gloria».
Scelse come ultima dimora la Costa azzurra, dove insegnò saltuariamente. Tornò spesso a Cortemaggiore (luogo di origine dei genitori), circondata dalla sua famiglia, a Piacenza e a Milano. Lì curò la formazione della nipote, figlia di Marie (Virginia Zucchi junior danzò solo per una breve stagione al Teatro Colón di Buenos Aires nel 1917), e partecipò alle giurie degli esami finali della scuola scaligera.
Si spense a Nizza, al Grand Hôtel d’Angleterre, il 12 ottobre 1930 e fu sepolta nel cimitero di Cortemaggiore.
Nell’era di massimo splendore dei teatri imperiali russi, l’Età d’argento, a Virginia Zucchi fu assegnato dai fautori del nuovo teatro novecentesco un ruolo di primo piano, anteponendola, non foss’altro per motivi cronologici, alle tre interpreti italiane dei capolavori di Čajkovskij (Carlotta Brianza, Antonietta Dell’Era e Pierina Legnani), riconoscendo in lei una delle personalità europee che più stavano contribuendo al formarsi della scuola nazionale russa. Al contrario, il compositore prediligeva la grazia nelle danzatrici: «Come i cantanti delle opere di Wagner che facevano uso solo del recitativo, sembravano al musicista non persone ma manichini, così i ballerini che si esprimevano nel balletto con la gesticolazione e non con la danza erano per lui delle figure meccaniche. Perciò Čajkovskij stimò in modo particolare l’arte di quelle danzatrici che coltivavano soprattutto l’espressività della danza e non la mimica» (Kaškin 1896, p. 101).
Del talento di Virginia Zucchi fu testimone Stanislavskij (1963, p. 106), che l’osservò da vicino. Per lui era prima di tutto un’artista drammatica e poi una ballerina: «Ebbi modo di constatare la sua inesauribile fantasia, la sua prontezza di mente e di spirito, l’originalità, il gusto di fronte alla scelta dei compiti creativi e nell’elaborazione della messa in scena, la capacità di adattamento e, ciò che più importa, la fede ingenua e infantile in quello che in ogni dato momento faceva sulla scena e che accadeva intorno a lei»: punto di partenza per considerazioni basilari nel suo ‘metodo’ sulle ‘circostanze date’ e il ’come se’, ossia il ‘se magico’ nel lavoro dell’attore. Per Valerian Svetlov (1906, pp. 27 s.) Zucchi fu la prima a dimostrare, pur con eccessi «nanà-turalistici» – per Francesco Giarelli lei era lo «Zola della danza» –, che «il balletto non consisteva solo nella coreografia ma nel dramma».
Educata a un teatro di forti passioni, Virginia Zucchi privilegiava le espressioni del volto, mobilissimo e intenso, e indulgeva in gesti enfatici e in atteggiamenti melodrammatici, che riscattava con spontanea semplicità: uno stile in via di estinzione all’alba del Novecento, quando il balletto tendeva a decantare le convenzioni pantomimiche prive di vitalità, a favore di una danza totalmente espressiva. ‘L’ardente Parmesane’ che conquistò Parigi nelle féeries fin-de-siècle – in un teatro che fu, «vers 1884, ce que le Châtelet devint, grâce à Diaghilew, en 1908» – apparteneva alla scuola italiana che stava per essere eclissata da quella russa; era una ballerina di «demi-caractère: le style classique vu à travers un tempérament, les pointes de ses “jambes de Diane”, admirées par les contemporains, étaient d’une fermeté étincelante. L’école italienne de son époque se confinait dans les prouesses du terre-à-terre. Les temps de pointes et les vertigineuses pirouettes avaient comme paralysé le séraphyque envol des Sylphides d’antan. Chez Virginia, le diable au corps changeait l’exercice ardu en improvisation fantasque» (Levinson 1930, p. 13).
La forza dell’arte della Zucchi consisteva proprio nel fatto che era la vita stessa, non eseguiva una parte qualsiasi a lei affidata, ma si compenetrava tutta nel personaggio dato. La profonda comprensione del carattere e della motivazione di eroine drammatiche come pure di ingenue fanciulle, da Esmeralda nel balletto omonimo a Lisa nella Fille mal gardée, destava l’ovazione e l’entusiasmo in sala: «lì, dove Elssler disegnava Lisa semplice e infantile, civettuola, birichina e sognatrice, Zucchi si mostrava furba, maliziosa e audace, soprattutto nella scena in cui sogna a occhi aperti i figli» (Slonimskij, 1961, p. 57). Modello di danzatrice-attrice per le ballerine russe del primo novecento, da Matil’da Kščesinskaja ad Anna Pavlova, da Ol’ga Preobraženskaja ad Adelina Giuri, lasciò alla scuola russo-sovietica il ricordo delle scene mimiche, benché Tamara Karsavina ricordi anche il pas de Zucchi, un retiré alto arricchito da movimenti originali delle braccia (Guest 1977, p. 4).
Più volte riprodotte, rimasero nella memoria immagini significative (Guest 1977; Artocchini - Cocco Bognanni 2007, passim): il volto incorniciato dalla ribelle capigliatura nella miniatura a matita e acquarello su avorio di Silvio Robbiati, il ritratto di lei ormai anziana nel disegno di Léon Bakst (1917), le pose e i gesti ‘scapigliati’ nelle raccolte di litografie e fotografie del Museo Bachrušin di Mosca e del Museo teatrale alla Scala. Infine Mario Ferrarini (1946, p. 95) intravide in lei una fisionomia e una personalità conformi alle esigenze della recitazione nel cinema muto: il ballo, come l’opera, era al posto del cinematografo e se «fosse vissuta cinquanta anni dopo, si sarebbe certamente lasciata prendere» dallo schermo diventando «una diva autentica dell’arte cinematografica».
Fonti e Bibl.: Mosca, RGALI (Rossiskij Gosudarstvennyj Archiv Literatury i Iskusstva, Archivio Centrale di Stato della Letteratura e dell’Arte), Sanktpeterburgskie imperatorskie teatry (I teatri imperiali di Pietroburgo), f. 659. 4. 130: affiches 1885-1887; New York Public Library, The Walter Toscanini Collection of Research Materials in Dance, v. 30; U. Capetti, Stelle dietro le nubi: V. Z., in Gazzetta dei Teatri, 22 aprile 1886; F. Giarelli, La Baiadera della civiltà, in La Scena Illustrata, 15 marzo 1888; A Montecarlo. La damnation de Faust, Le Journal, 19 febbraio 1893; N.D. Kaškin, Vospominanija o P.I. Čajkovskom (Ricordi di Čajkovskij), Moskva 1896, p. 101; A.A. Pleščeev, Naš balet (1673-1899) (Il nostro balletto [1673-1899]), Sankt Peterburg 1899, pp. 9, 14, 17 e passim; K.A. Skal’kovskij, V teatral’nom mire (Nel mondo del teatro), Sankt Peterburg 1899; V.Ja. Svetlov, Terpsichora. Stat’i. Očerki. Zametki (Tersicore. Articoli. Saggi. Note), Sankt Peterburg 1906, pp. 288-293; L. Rasi, La caricatura e i comici italiani, Firenze 1907; S. Chudekov, Istorija tancev (Storia della danza), III, Petrograd 1915, p. 353; O. Racster, The Master of the Russian Ballet (The memoirs of Cav. Enrico Cecchetti), New York 1923, pp. 112 s. et passim; A. Levinson, V. Z., in Candide, VII, 346, 30 ottobre 1930, p. 13; M.I. Velizarij, Put’ provincial’noj aktrisy (Ricordi di un’attrice di provincia), Leningrad-Moskva 1938, pp. 54 s.; A. Benois, Reminiscences of the Russian Ballet, London 1941, pp. 89-93 et passim; M. Ferrarini, Parma teatrale ottocentesca, Parma, 1946, pp. 91-96; K. Stanislavskij, Sobranie sočinenij (Raccolta delle opere), I, Moja žizn’ v iskusstve (1924-26), Moskva 1954, pp. 90 s. (trad. it. La mia vita nell’arte, Torino 1963, pp. 105-107); R. Rolland, Retour au Palais Farnèse, Cahier 8: 1890-91, Paris 1956, pp. 252-254; Ju. Slonimskij, Tščetnaja predostorožnost’ (L’inutile precauzione), Leningrad 1961, pp. 56-57; V.M. Krasovskaja, Russkij baletnyj teatr vtoroj poloviny XIX veka (Il teatro di balletto russo della seconda metà del XIX secolo), Leningrad-Moskva 1963; Ead., Russkij baletnyj teatr načala XX veka (Il teatro di balletto russo dell’inizio del XX secolo), Leningrad 1971, II, ad ind.; I. Guest, The Divine Virginia: A Biography of V. Z., New York 1977; A. Benua (Benois), Moi vospominanija (I miei ricordi), Mosca 1980, I-II, ad ind.; C. Lo Iacono, La carne, la vita e il diavolo: i libretti dei balli di V. Z., in La danza italiana, 1986, 4, pp. 59-83; Ead., Z., V., in International Dictionary of Ballet, London 1993, II, s.v.; Ead., Il danzatore attore, Roma 2007, pp. 6 s., 50-52; C. Artocchini - N. Cocco Bognanni, V. Z., genio della danza dell’Ottocento, Piacenza 2007.