Biocombustibili
Una soluzione possibile?
Sicurezza energetica, sicurezza alimentare e cambiamenti climatici
di
5 giugno Si conclude a Roma la conferenza Sicurezza alimentare: le sfide del cambiamento climatico e della bioenergia, che ha riunito nella sede della FAO i rappresentanti di 181 Stati per discutere della crisi alimentare in atto in molti paesi, soprattutto africani, in cui i prezzi del cibo hanno subito rincari non sostenibili. Al centro del dibattito sono stati i temi della regolamentazione del mercato agricolo internazionale, della speculazione sui prezzi e dell’uso delle bioenergie.
Energia e cibo
I consumi globali di combustibili liquidi hanno raggiunto gli 86 milioni di barili di olio al giorno, e secondo le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’energia (IEA) la domanda mondiale toccherà i 116 milioni di barili nel 2030, soprattutto per l’aumento dei consumi nelle economie emergenti (Brasile, Cina, India, Messico, Sudafrica) e nei paesi in via di sviluppo. I combustibili liquidi sono destinati prevalentemente al settore del trasporto e al momento non hanno efficaci alternative, diversamente dai settori della produzione di energia che possono contare su opzioni differenziate (nucleare, carbone, idroelettrico, fonti rinnovabili). Questa ‘anelasticità’, associata all’aumento dei prezzi del barile, negli ultimi due anni quasi sempre sopra i 100 dollari con un valore medio attorno ai 115-120, sta mettendo a dura prova le economie dei paesi importatori e in particolare quelle dei paesi più poveri. Da ciò deriva lo sviluppo dei biocombustibili, che peraltro possono essere prodotti in quantità significative e a prezzi competitivi nei paesi più poveri che soffrono per l’aumento del prezzo del petrolio. Nell’ultimo anno i prezzi dei prodotti agricoli destinati all’alimentazione sono cresciuti di oltre il 40% rispetto al 2006, allargando in modo drammatico l’area della popolazione mondiale che non ha accesso al cibo o è esposta al rischio di scarsità. Questa situazione è determinata da molti fattori: la riduzione delle produzioni agricole per effetto delle avversità climatiche, l’aumento e la differenziazione della domanda nelle economie emergenti dell’Asia e nei paesi in via di sviluppo dell’Africa, la crescita del prezzo del petrolio che incide sia sul costo dei fertilizzanti chimici sia su quello del trasporto dei prodotti, i limiti strutturali dell’agricoltura mondiale legati sia alla carenza di infrastrutture nelle zone rurali delle economie emergenti e dei paesi più poveri, sia al sistema dei sussidi e delle barriere tariffarie che proteggono le produzioni agricole delle economie più sviluppate. A questo complesso di cause si è aggiunta la produzione di biocombustibili che, secondo un rapporto preparato da D. Mitchell per la Banca Mondiale (2008), sarebbero responsabili per oltre il 60% dell’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli a causa dello spostamento delle produzioni dal settore alimentare a quello bioenergetico: questa valutazione non sembra tuttavia avere riscontro con il prezzo di tutti i prodotti agricoli utilizzabili per la produzione di biocombustibili, ma solo con quello dei cereali, in particolare del mais, come si evince dal grafico di fig. 1. Infatti, nel caso del mais si sono create le condizioni per le quali il prezzo marginale del bioetanolo (grazie ai sussidi nel mercato interno degli USA) è superiore a quello del prodotto alimentare, provocando uno shift dalle produzioni agricole a quelle alimentari. Questo invece non è avvenuto nel caso della canna da zucchero, che è al momento la materia prima più efficiente per la produzione di bioetanolo. A proposito dei prezzi è inoltre interessante notare il rapporto tra il prezzo dei combustibili e quello dei prodotti agricoli (fig. 2) e il ruolo delle componenti finanziarie/speculative (fig. 3). Questi fattori incidono in maniera significativa sulla sicurezza alimentare dei paesi più poveri che peraltro potrebbero invece trarre vantaggio dalla capacità autoctona di produrre biocombustibili ed esportarli nel mercato globale dell’energia.
‘Conflitto di interessi’ tra sicurezza energetica e protezione del clima
Secondo il 4° Rapporto sul clima dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), presentato nel 2007, per assicurare la stabilizzazione della concentrazione di biossido di carbonio a livelli di sicurezza le emissioni globali dovrebbero essere ridotte, a partire dal 2030, nella misura di almeno il 50% rispetto ai livelli attuali (scenario B1 nel grafico di fig. 4). Una concentrazione più elevata di CO2 comporterebbe un’intensificazione difficilmente controllabile di effetti catastrofici, quali uragani, inondazioni, siccità prolungate, con conseguenze gravissime per le produzioni agricole soprattutto nei paesi più poveri e meno organizzati per far fronte a eventi climatici estremi. Le proiezioni per l’intensificazione degli eventi estremi e in particolare della siccità (fig. 5) indicano il rischio di effetti economici e sociali devastanti nei paesi più poveri, con costi stimati compresi tra il 3% e il 7% del Prodotto nazionale lordo, a causa in particolare delle modificazioni nelle produzioni agricole (fig. 6). Gli scenari di stabilizzazione della concentrazione di CO2 divergono, in modo quasi simmetrico, dalle previsioni energetiche future. Secondo il World Energy Outlook 2007 dell’Agenzia internazionale dell’energia la domanda mondiale di energia primaria è destinata a crescere, tra il 2005 e il 2030, di oltre il 50%. Nello scenario business as usual i combustibili fossili coprono l’85% dell’aumento della domanda di energia. L’aumento dei consumi energetici è destinato a provocare una crescita delle emissioni globali di CO2 di circa il 60% rispetto al livello attuale e questa previsione corrisponde agli scenari peggiori del rapporto IPCC (A2 e A1).
La possibilità di modificare il trend energetico globale verso una minore ‘intensità di carbonio’ è legata allo sviluppo e all’uso – entro il 2030 – di fonti energetiche alternative ai combustibili fossili e di tecnologie ad alta efficienza. Il World Energy Outlook 2007 ha elaborato uno ‘scenario alternativo’ basato su queste misure e sull’impiego delle tecnologie disponibili, secondo il quale, senza aumento complessivo degli investimenti, entro il 2030 sarebbe possibile un incremento, rispetto allo ‘scenario di riferimento’, delle fonti rinnovabili fino al 12%; dei biocarburanti di oltre l’80%; dell’energia nucleare fino al 10%; dell’efficienza energetica fino al 13% nella produzione di elettricità, fino al 29% negli usi finali dell’elettricità, fino al 36% negli usi finali dei combustibili fossili. Lo scenario alternativo potrebbe consentire nel 2030 una riduzione della domanda globale di combustibili fossili pari a 13 milioni di barili di olio equivalente al giorno e una corrispondente riduzione del 16% nell’aumento delle emissioni globali di CO2, che sarebbe contenuto in circa il 30% invece del 55% tendenziale.
Si tratterebbe di un risultato significativo verso la riduzione dell’intensità di carbonio dell’economia globale, tuttavia non sufficiente a consolidare la necessaria inversione del trend perché il contributo complessivo delle fonti a emissioni zero (rinnovabili, biocarburanti e nucleare) nella offerta primaria di energia rimarrebbe comunque compreso tra il 15 e il 20%. Considerando l’urgenza di misure efficaci nel breve periodo (10-15 anni), emerge la necessità di valorizzare al meglio le risorse e le tecnologie disponibili e nello stesso tempo di investire nello sviluppo di fonti e tecnologie alternative che assicurino risultati in tempi rapidi.
L’opzione delle bioenergie
Le bioenergie, e in particolare i biocombustibili, rappresentano un’opzione già disponibile in grado di assicurare sia risposte immediate sia ulteriori sviluppi tecnologici in tempi relativamente brevi: contribuiscono alla diversificazione delle fonti e alla sicurezza energetica; in relazione alle tipologie e alle tecnologie impiegate, riducono in modo significativo il contenuto di carbonio dell’energia utilizzata; sono suscettibili di importanti innovazioni a breve e medio termine in campo biotecnologico ed energetico, finalizzate a garantire la compatibilità con la sicurezza alimentare e ambientale. Esse contribuiscono attualmente a circa l’11% dell’energia primaria e rappresentano l’80% delle fonti rinnovabili impiegate a livello globale. Per molto tempo la bioenergia tradizionale (legname) è stata utilizzata prevalentemente come combustibile solido a fini alimentari e in ambito domestico per riscaldamento e illuminazione, spesso con un’efficienza molto bassa. A partire dalla fine degli anni 1980 sono state sviluppate nuove e più efficienti tecniche di produzione e tecnologie d’uso delle bioenergie, sotto la spinta di almeno cinque fattori principali: a) l’aumento del prezzo del petrolio; b) l’esigenza dei paesi importatori di greggio di ridurre la propria dipendenza da un ristretto numero di paesi esportatori attraverso la diversificazione delle fonti energetiche e delle aree di approvvigionamento; c) le opportunità per le economie emergenti dei paesi tropicali di offrire sul mercato globale dell’energia biocombustibili liquidi competitivi con i combustibili fossili; d) la domanda di energia dei paesi in via di sviluppo, in particolare per sostenere la crescita locale delle zone rurali; e) l’impegno di riduzione delle emissioni di CO2.
Le prospettive di sviluppo delle bioenergie nel breve e medio periodo sono molto favorevoli, in particolare per quanto riguarda i biocombustibili. Nello scenario alternativo questi potrebbero rispondere a circa l’8% della domanda globale di combustibili liquidi, quasi il doppio rispetto allo scenario di riferimento e quattro volte rispetto ai consumi attuali (36 Mtoe, milioni di tonnellate di olio equivalente, contro 8 Mtoe). Secondo le stime di diverse istituzioni scientifiche e agenzie internazionali, il potenziale di produzione globale dei biocombustibili nel breve e medio periodo è di gran lunga più elevato. Nel 2030 i biocombustibili potrebbero rispondere al 20% della domanda e nel 2060 a una quota tra il 30% e il 40%. A questo proposito va rilevato che il trend di crescita sarà sostenuto anche dagli impegni assunti negli ultimi anni da molti paesi (Unione Europea, USA, Canada, Brasile, Cina, Colombia, Malaysia, Thailandia) per raggiungere nel proprio portafoglio energetico quote obbligatorie di biocombustibili tra il 2010 e il 2020 (fig.). Il pieno sviluppo del potenziale dei biocombustibili richiede il superamento di limiti ambientali e sociali, oltre che di barriere commerciali, che ne ostacolano la diffusione come risorsa globale. I fattori critici sono rappresentati da: a) la competizione della produzione di biocombustibili con la protezione dell’ambiente, a livello locale e globale; b) la sicurezza alimentare, sia per i prezzi sia per la qualità del cibo; c) lo sviluppo economico dei paesi fornitori di materia prima, sia per l’accesso ai mercati dei paesi maggiormente consumatori di energia sia per lo sviluppo rurale interno.
Il problema ambientale
La protezione dell’ambiente deve considerare il ciclo di vita completo, che comprende: gli usi delle terre finalizzate alla produzione di biocombustibili, con particolare riferimento alla modificazione degli usi di foreste vergini e terreni di torba ad alto assorbimento di carbonio; la produzione della materia prima e le relative pratiche agricole, con riferimento all’impiego di fertilizzanti, alla produzione di rifiuti, all’erosione del suolo e del suo depauperamento, alla difesa della biodiversità, ai consumi delle acque di superficie e di profondità; il bilancio delle emissioni nette di carbonio, nelle fasi di lavorazione e conversione. L’analisi del ciclo di vita consente alcune prime conclusioni sulla sostenibilità ambientale delle attuali produzioni e degli attuali usi dei biocombustibili.
a) La conversione delle terre ad alto assorbimento di carbonio per la produzione di biocombustibili, come è avvenuto nel caso della sostituzione delle foreste pluviali e delle zone umide del Sud-Est asiatico con piantagioni di palma per la produzione di olio, ha un effetto devastante sia per la riduzione della biodiversità sia per l’aumento della concentrazione atmosferica di carbonio.
b) Il bioetanolo da mais ha un’efficienza di riduzione delle emissioni di carbonio attorno al 13%, che non appare sostenibile se confrontata con l’impegno di suoli agricoli per la produzione primaria, i consumi di acqua e le emissioni di nitrati derivanti dal processo di lavorazione e conversione. A questo proposito l’esperienza USA mette in evidenza molti aspetti problematici, e non ultimo quello relativo ai costi.
c) Il bioetanolo da mais è competitivo con un prezzo del barile oltre 80 dollari. Il bioetanolo da canna da zucchero ha un’efficienza di riduzione delle emissioni di carbonio attorno al 90% con un costo contenuto: è competitivo con un prezzo del barile di petrolio a 30 dollari. La lunga esperienza del Brasile dimostra le grandi potenzialità – nei tempi brevi – di sviluppo di produzioni sostenibili di bioetanolo da canna da zucchero, anche se non sono risolte tutte le contraddizioni connesse alla espansione degli usi energetici con altri usi agricoli e forestali delle terre.
d) Lo sviluppo, entro i prossimi 10 anni, di etanolo e biodiesel di ‘seconda generazione’ derivati da biomassa cellulosica (lolla di riso, bagassa da canna da zucchero, residui agricoli, rifiuti solidi urbani), o dalle alghe, renderà progressivamente disponibili in larghe quantità biocombustibili a elevata compatibilità ambientale. Secondo il rapporto How biofuels can help end America’s oil dependence (2004) del National Resources Defense Council statunitense, la combinazione di elevati standard di efficienza dei motori con gli sviluppi della ricerca biotecnologica consentirà agli USA, a partire dal 2020 ed entro il 2050, di sostituire progressivamente i combustibili fossili con biocombustibili di seconda generazione e consolidare un’economia sostenibile delle bioenergie non competitiva con la protezione dell’ambiente e la sicurezza alimentare.
La sicurezza alimentare
La sicurezza alimentare deve considerare le condizioni per l’accesso ai prodotti agricoli delle popolazioni povere e rurali, compatibilmente con le produzioni di bioenergia. Il mercato dell’energia è significativamente più ampio del mercato agricolo, in termini di valore, e quindi i prezzi dell’energia determinano quelli dei prodotti agricoli che possono essere impiegati a fini energetici. I prezzi in aumento dei prodotti per la bioenergia, soprattutto in presenza di sussidi per la produzione, vanno a beneficio dei produttori ma a discapito dei consumatori di tali prodotti per usi alimentari, in particolare per le popolazioni povere e rurali.
Abbiamo già accennato, a questo proposito, all’effetto distorsivo sui prezzi del mais – anche nei paesi terzi e in via di sviluppo – indotto dagli incentivi USA per la produzione di bioetanolo. Un effetto simile potrebbe anche essere provocato dall’applicazione di sussidi in Unione Europea. È inoltre prevedibile il rischio di un aumento dei prezzi e di una scarsità dei prodotti alimentari determinati da una crescita delle produzioni agricole nei paesi in via di sviluppo destinate alle bioenergie: in questo caso emerge una competizione di usi che riduce la disponibilità di prodotti alimentari.
In una prospettiva di breve periodo il rispetto di criteri di base per la sicurezza alimentare dovrebbe costituire una condizione per la vendita sui mercati interni e internazionali di materie prime destinate alla produzione di bioenergie. Nel medio termine, lo sfruttamento di terreni marginali non competitivi con produzioni alimentari combinato con l’impiego delle biotecnologie e lo sviluppo di biocombustibili di seconda generazione dovrebbe favorire la soluzione del conflitto tra sicurezza alimentare e produzioni energetiche.
Lo sviluppo economico dei paesi fornitori di materia prima È la condizione per la diffusione delle bioenergie nel mercato globale dell’energia in quantità sufficiente da competere con i combustibili fossili e nello stesso tempo può favorire nel breve periodo il rispetto dei requisiti di protezione ambientale e sicurezza alimentare. Infatti la produttività di bioenergie a basso contenuto di carbonio nelle zone tropicali e sub-tropicali è decisamente più elevata che nelle aree a clima temperato (Europa, Nord America), dove viceversa la domanda di biocombustibili cresce in maniera proporzionalmente maggiore. Ovvero, lo sviluppo nel breve termine di produzioni a elevata efficienza di bioetanolo da canna da zucchero e di biodiesel da jatropa può mettere a disposizione dei paesi consumatori di energia quantità rilevanti di biocarburanti per favorire la riduzione degli usi di combustibili fossili.
A questo proposito è assolutamente chiaro che l’Unione Europea non potrà rispettare l’impegno del 10% di biocombustibili nel portafoglio energetico entro il 2020 senza ricorrere alle importazioni dai paesi della fascia tropicale e subtropicale. Tuttavia, l’importazione di biocombustibili nel mercato europeo è limitata sia dalle barriere tariffarie sia dai sussidi ai produttori agricoli europei. In generale, e non solo per quanto riguarda l’Unione Europea, i nodi non risolti della classificazione delle bioenergie nelle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio e della persistenza di sussidi agricoli nei mercati interni costituiscono una barriera per lo sviluppo di un mercato globale dei biocombustibili. Eppure essi potrebbero rientrare nel paragrafo 31 (III) dell’Agenda di Doha, che prevede la «riduzione o eliminazione delle barriere tariffarie e non tariffarie per beni e servizi ambientali», a condizione che le materie prime e i prodotti finiti siano accompagnati da una certificazione che attesti il rispetto dei criteri di protezione ambientale e di sicurezza alimentare nella produzione. In questo modo potrebbe essere avviato un utilizzo globale e sostenibile dei biocombustibili in grado di assicurare due risultati: la disponibilità di fonti energetiche alternative ai combustibili fossili a prezzi competitivi; la crescita di un’economia sostenibile delle bioenergie di livello mondiale, a vantaggio dei paesi produttori delle materie prime e dei paesi trasformatori e consumatori. Ma un utilizzo globale dei biocombustibili, anche nella prospettiva dello sviluppo delle biotecnologie per l’etanolo e il biodiesel di seconda generazione, è suscettibile di modificare la geografia del mercato mondiale dell’energia. Non a caso, in occasione del vertice G8+5 di Heiligendamm del giugno 2007, il segretario generale dell’OPEC aveva minacciato la riduzione dell’impegno dei paesi produttori nell’estrazione e nella raffinazione come ‘rappresaglia’ nei confronti della conferma dell’impegno del vertice a favore della promozione delle bioenergie e del supporto alla Global bioenergy partnership.
repertorio
La produzione di biocombustibili
I biocombustibili sono combustibili ottenuti da materie prime di origine agricola: zuccheri, oli vegetali, cereali e cellulosa. A differenza dei combustibili fossili hanno il vantaggio di provenire da materie prime rinnovabili e ubiquitarie. I tipi principali sono il biodiesel e l’alcol etilico ottenuto per via fermentativa (bioetanolo). Nuove possibilità si aprono con le nuove tecniche, in via di sviluppo, mirate a gassificare qualsiasi tipo di biomassa e convertire il gas ottenuto in combustibile liquido.
Biodiesel
Il biodiesel è costituito da una miscela di esteri metilici (i cosiddetti FAME, Fatty Acid Methyl Esters, esteri metilici di acidi grassi), ottenuti per transesterificazione con metanolo dei trigliceridi contenuti negli oli vegetali oppure in grassi animali di scarto. Gli oli vegetali più impiegati sono quelli di colza, girasole, semi di soia. Il processo di transesterificazione determina la sostituzione dei componenti alcolici d’origine (glicerolo) con alcol metilico (metanolo) attraverso la rottura della molecola del trigliceride in tre molecole più piccole e quindi meno viscose, che si ricombinano in esteri e glicerolo, successivamente separati e purificati (il bilancio di massa semplificato dell’intero processo è 1000 kg di olio raffinato + 100 kg metanolo = 1000 kg biodiesel + 100 kg glicerolo). Il processo si esegue a temperature comprese tra 50 e 80 °C e a pressione atmosferica in appositi reattori, in presenza di un catalizzatore alcalino (in genere idrossido di potassio o di sodio). Come sottoprodotto della reazione si ottiene la glicerina, che può essere utilizzata nell’industria farmaceutica, alimentare e dei cosmetici. Un processo continuo ad alta temperatura e pressione consente di lavorare oli acidi e di ottenere glicerina di buona qualità.
Il biodiesel è utilizzabile come combustibile nel riscaldamento e come carburante in autotrazione. Il suo rendimento energetico è pari a quello dei carburanti e dei combustibili minerali. Nell’autotrazione si usa puro al 100% o miscelato al gasolio di origine petrolifera in proporzione fino al 30-40%. Il suo impiego non richiede modifiche al motore. Rispetto al gasolio di origine petrolifera, ha numero di cetano più elevato, maggiore capacità lubrificante; l’alta percentuale di ossigeno assicura maggiore stabilità di combustione.
Dal punto di vista ambientale, i gas di scarico di motori alimentati con biodiesel contengono minori concentrazioni di monossido di carbonio (–35%) e di idrocarburi incombusti (–20%) e di particelle di carbone; l’anidride solforosa risulta del tutto assente, così come gli idrocarburi aromatici (benzene, toluene ecc.) o policiclici aromatici. Il ciclo di produzione comporta uno sviluppo netto di biossido di carbonio praticamente trascurabile. L’unica controindicazione è data dal fatto che alla coltivazione della colza e della soia sono associate emissioni di protossido di azoto (un altro gas serra) di difficile quantificazione, ma che potrebbero attenuare il beneficio ambientale conseguente al minor rilascio di biossido di carbonio.
Bioetanolo
L’alcol etilico fu utilizzato nei motori a combustione interna all’inizio della storia dell’automobilismo, per essere poi soppiantato dagli idrocarburi, dati la loro ampia disponibilità e il basso costo. La ricerca di prodotti in grado di sostituire il petrolio come carburante è ripresa a partire dalla crisi petrolifera degli anni 1970 e si è intensificata nei decenni finali del 20° secolo, spinta da motivi di ordine sia economico sia ambientale. Tra questi prodotti, quello che oggi mostra il miglior compromesso tra prezzo, disponibilità e prestazioni è il bioetanolo, che in alcuni paesi dell’America Meridionale viene utilizzato puro in normali motori a combustione interna opportunamente tarati, mentre in altri paesi è usato in miscela con la benzina.
Come materie prime per la produzione dell’alcol etilico si possono impiegare materiali contenenti o zuccheri fermentescibili oppure sostanze capaci di fornire, mediante processi idrolitici, una soluzione di zuccheri fermentescibili. Al primo gruppo appartengono barbabietole, canna da zucchero, frutta ecc.; al secondo materie amidacee, come patate, cereali e i materiali cellulosici, cioè legno e residui delle lavorazioni agricole. Il bioetanolo in genere è prodotto dalla fermentazione di zuccheri a 6 atomi di carbonio (soprattutto glucosio) a opera di enzimi derivati dal lievito. Il modo più semplice è usare biomassa che contiene zuccheri che possono essere fermentati direttamente. La canna da zucchero e la barbabietola contengono rilevanti quantità di zucchero. Fino agli anni 1930 negli Stati Uniti l’etanolo veniva prodotto a scala industriale attraverso la fermentazione delle melasse ricavate dai raccolti di piante da zucchero; poi il costo relativamente alto dello zucchero ha reso preferibile l’utilizzo dei cereali. In Brasile e nella maggior parte dei paesi tropicali che producono alcol, la canna da zucchero rappresenta la materia prima più comune. I costi di produzione di bioetanolo da canna da zucchero nei paesi caldi sono fra i più bassi di tutti i biocombustibili. Alcuni paesi europei, come la Francia, usano la barbabietola.
Il processo di produzione inizia dall’estrazione dalla canna o dalla barbabietola dello zucchero, che viene poi fermentato. Normalmente le fermentazioni alcoliche vengono condotte a temperature comprese fra 25 e 35 °C; sono in corso tentativi di impiegare microrganismi termofili (per esempio, Clostridium thermocellum) che, essendo dotati di maggiore resistenza alla temperatura, consentano una conduzione del processo a velocità più elevate, condizioni di lavoro più sterili e un più facile allontanamento dell’alcol etilico dall’ambiente di reazione. Poiché i microrganismi termofili non tollerano concentrazioni di alcol superiori a qualche percento, si tende al miglioramento dei microrganismi attraverso le manipolazioni genetiche, con tecniche del DNA ricombinante e della fusione cellulare. La fase finale consiste nella distillazione dell’etanolo alla concentrazione desiderata e nella rimozione dell’acqua per ottenere etanolo anidro che può essere miscelato alla benzina. Nella lavorazione della canna da zucchero, anche la bagassa, cioè il residuo della macinazione e spremitura formato da cellulosa e lignina, viene usata come materia prima per la produzione di biocombustibile. Con le tecnologie standard per ettaro di coltura si ottengono dalla canna da zucchero 7 tonnellate di alcol, dalla barbabietola da zucchero 4 tonnellate.
Nei paesi settentrionali quasi tutto l’etanolo è ricavato dai cereali, largamente disponibili. La produzione da cereali (soprattutto mais e frumento negli USA e orzo e frumento in Europa) inizia con la separazione e macinatura delle parti contenenti amido delle piante e con la conversione dell’amido in zucchero, in genere mediante un processo enzimatico ad alta temperatura. Le fasi ulteriori coincidono con quelle descritte per le piante da zucchero. I sottoprodotti della lavorazione possono essere utilizzati come alimento per gli animali. La quantità di alcol che si ricava da 100 kg di amido è dell’ordine di 60 litri. Poiché le parti contenenti amido dei cereali rappresentano una percentuale relativamente piccola del totale, sono allo studio tecniche per sfruttare gli abbondanti residui fibrosi e ricchi di cellulosa (per esempio, crusca e steli) per produrre zuccheri fermentescibili, il che renderebbe la produzione molto più efficiente.
La produzione di bioetanolo da cellulosa metterebbe a disposizione una enorme quantità di materia prima (proveniente da residui di coltivazioni agricole e forestali, eccedenze agricole temporanee e occasionali, processi di produzione della carta, riciclo della carta raccolta nei rifiuti solidi urbani) ma è molto più laboriosa di quella da amido. Richiede infatti una preliminare idrolizzazione della cellulosa in zucchero attraverso il processo di saccarificazione. L’operazione può essere realizzata a temperatura ambiente con acido cloridrico concentrato (processo tipo Bergius) o a temperatura più elevata, circa 180 °C, con acido solforico diluito (processo Schöller). Il rendimento dei processi a bassa temperatura è molto elevato, ma gli inconvenienti dovuti alla notevole azione corrosiva dell’acido hanno fatto spesso preferire i processi tipo Schöller. Si tratta comunque di processi costosi e di redditività non competitiva. Quindi una gran quantità di ricerca è mirata a ottenere metodologie più economiche ed efficienti. Particolarmente promettente appare lo sviluppo di enzimi biologici in grado di rompere le catene di cellulosa e di emicellulosa, potenzialmente combinati a microrganismi fermentatori in un processo simultaneo di saccarificazione-fermentazione. Nella tecnologia dei fermentatori si utilizzano reattori a membrana che non richiedono né separazione né ricircolo dei microrganismi perché vengono utilizzati in forma immobilizzata, cioè fissati su particolari matrici, sia inorganiche, come la pomice, sia organiche, come gli alginati e i polimeri di sintesi.
Gassificazione della biomassa
Propriamente la biomassa è la massa della sostanza vivente (espressa come peso secco per unità di volume o superficie) prodotta in un determinato periodo di tempo da una popolazione o da una biocenosi o in un particolare ambiente biologico. Estensivamente, il termine viene usato per indicare il vastissimo gruppo di materie prime organiche (prodotti e scarti agricoli, materiali lignocellulosici ecc.) che hanno tutte in comune l’origine biologica naturale e che possono costituire il substrato di processi fermentativi idonei a ottenere prodotti di pregio (proteine, etanolo ecc.) o biogas.
Il biogas è prodotto dalla fermentazione (digestione) anaerobica di materiali vari (fanghi provenienti dal trattamento depurativo di acque di rifiuto, scarti agricoli, letami ecc.). È costituito da metano (anche il 70-80%) accompagnato da biossido di carbonio e da piccole quantità di idrogeno, vapor acqueo, idrogeno solforato. Può trovare tutti quegli impieghi che normalmente sono previsti per un combustibile gassoso di elevato potere calorifico (riscaldamento, illuminazione, alimentazione di motori fissi, autotrazione). Notevole interesse riveste la produzione di biogas da rifiuti zootecnici, la cui enorme quantità (valutabile in Italia in alcune decine di milioni di t all’anno), associata alle difficoltà tecnico-economiche connesse alla loro depurazione con metodi convenzionali, rende particolarmente grave il problema dello smaltimento in relazione ai rischi di inquinamento ambientale. In questo contesto, il trattamento degli scarichi provenienti da allevamenti di bestiame in impianti di digestione anaerobica consente sia di ridurre anche del 90-95% il carico inquinante associato a questi rifiuti, sia di realizzare un importante ricupero energetico. Dalla digestione anaerobica di liquami zootecnici si ottiene, oltre al biogas, anche un fango che, opportunamente disidradato, può trovare utilizzazione sia come costituente proteico di formulazioni mangimistiche sia come concime con proprietà fertilizzanti praticamente identiche a quelle del letame originario, e un liquido che, dopo ulteriore trattamento depurativo, può essere ricircolato e utilizzato per le varie necessità idriche dell’azienda zootecnica. La digestione anaerobica con conseguente produzione di biogas può essere applicata con successo anche su scarichi altamente inquinanti di difficile trattabilità (per esempio, le acque reflue provenienti da distillerie).
Nuove tecnologie, in via di sviluppo nei Paesi Bassi, in Germania e in Giappone, mirano a ottenere altri gas e prodotti finali dalla gassificazione della biomassa, utilizzando processi termici o chimici, eventualmente con intervento di microrganismi. Grande attenzione viene posta alla massimizzazione della resa in idrogeno di questi processi, per l’utilizzo nelle celle a combustibile. I gas ottenuti dalla gassificazione della biomassa possono essere usati per produrre combustibili liquidi di vario tipo. Il processo Fischer-Tropsch trasforma una miscela di ossido di carbonio e idrogeno (gas di sintesi) in idrocarburi superiori. Il gas di sintesi può essere anche convertito in metanolo, che però non è quotato come combustibile a causa della sua bassa resa e l’alta tossicità, e in DME (dimetiletere), che offre buone prospettive come carburante dei motori diesel.
Un altro processo in fase di studio mirato a produrre combustibili dalla biomassa è l’HTU (Hydrothermal upgrading), nel quale la cellulosa della biomassa è solubilizzata sotto alte pressioni e temperature relativamente basse per formare il cosiddetto biogreggio, convertibile in vari idrocarburi liquidi. Un diverso approccio si basa sulla pirolisi veloce, in cui la biomassa è rapidamente riscaldata ad alte temperature in assenza di aria e poi raffreddata a formare un ‘bio-olio’ più vari solidi e vapori. L’olio può essere raffinato per produrre carburante diesel. Questo processo è utilizzato anche per trattare la bagassa residuata dalla produzione di etanolo dalla canna da zucchero.
L’importanza della biotecnologia
Fra i motivi per i quali i biocarburanti al momento non sono ancora concorrenziali sotto il profilo economico rispetto agli idrocarburi di origine petrolifera è la bassa produttività per ettaro che le colture agricole sono in grado di generare. A questo proposito si ritiene che un valido aiuto possa venire dalle biotecnologie, che dovrebbero poter aumentare significativamente la produzione agricola di prodotti energetici, come è accaduto nel passato per quelli alimentari. Negli anni 1960, infatti, l’applicazione massiccia della genetica vegetale alla generazione delle nuove varietà garantì aumenti produttivi per ettaro mai ottenuti prima di allora. Si pensa che le biotecnologie dovrebbero assicurare gli stessi effetti molto più velocemente. In media la generazione di una nuova varietà vegetale impiega 14 anni. L’applicazione delle nuove tecniche biotech dovrebbe portare a dimezzare questo tempo. Con l’aiuto delle tecniche di ingegneria genetica si prevede sarà possibile individuare nuove varietà vegetali in grado di ottimizzare la resa per ettaro, aumentare la percentuale di cellulosa e di emicellulosa contenuta nelle piante, a discapito della quota di lignina non convertibile, e individuare nuovi enzimi da utilizzare direttamente nei processi di conversione della cellulosa. È da sottolineare fra l’altro che l’utilizzo di OGM (Organismi geneticamente modificati) nel settore energetico non dovrebbe suscitare le resistenze sollevate da un loro impiego per prodotti destinati alla catena alimentare.
Fra le sperimentazioni in corso si segnala la coltivazione di alcuni incroci ibridi del miscanto (Miscanthus giganteus), un’erba graminacea alta fino a 4 m con una notevolissima redditività potenziale (60 t di materia secca per ettaro, equivalenti a circa 60 barili di petrolio). Secondo alcune stime, se il miscanto venisse piantato sul 10% delle aree coltivabili europee potrebbe fornire fino al 9% dell’energia elettrica consumata dall’intero continente. In Italia le sperimentazioni sul miscanto vengono condotte dall’ENEA in Sicilia.