Bioetica e biotecnologie
Le biotecnologie hanno modificato la nozione di famiglia legata ai rapporti di sangue, la concezione di identità personale, i sentimenti associati alle fasi più solenni dell'esistenza (concepimento, nascita, morte), il ritmo dei cicli vitali. Ai vincoli di sangue, involontari, tendono sempre più a sostituirsi quelli elettivi. Si acuisce così la consapevolezza di un maggiore dominio della specie umana su se stessa e, insieme, l'angoscia di chi è chiamato a prendere decisioni dagli esiti talvolta imprevedibili. La bioetica, diventata un campo di battaglia tra opposte visioni del mondo, riporta l'attenzione sulla corporeità sia a livello individuale che a livello di generazioni future mediante l'intervento sul patrimonio genetico. In questo saggio vengono analizzati i problemi esistenziali che derivano dalla separazione tra generazione e fecondità, in particolare nei casi della fecondazione artificiale eterologa e dell'ovodonazione. Si mettono così in rilievo da un lato il complicarsi delle 'forme elementari della parentela' dall'altro i sentimenti delle persone nate per mezzo di queste procedure e dei loro genitori biologici e sociali, allorché tali ruoli si scindono.
L'impatto delle biotecnologie
La medicina è stata considerata a lungo un sapere che asseconda la natura, che si limita ad aiutarla nei processi di guarigione messi in atto dall'organismo. L'abitudine a 'lasciar fare alla natura' è stata tuttavia qualitativamente e quantitativamente intaccata nell' età moderna mediante scienze e tecniche tese al pieno dominio dei processi spontanei naturali. Solo che finora ci si era limitati al controllo della natura esterna e del presente, mentre oggi tale progetto di controllo si estende anche alla natura interna all'uomo e riguarda persino le generazioni future. Ciò significa che, mentre nel passato la tecnica aveva trattato la natura soprattutto come materia fisica, inanimata, oggi invece l'uomo stesso e, più in generale, la materia vivente, nella sua costituzione ereditaria, sono diventati oggetto specifico delle biotecnologie. Queste pongono in discussione convinzioni, abitudini e idee millenarie, ritenute sinora fondate sulla roccia di evidenze incrollabili o addirittura sull'autorità della rivelazione divina. Nulla, per esempio, è apparso finora meno dubbio del fatto che un individuo viene al mondo, secondo i vecchi e collaudati metodi della riproduzione sessuata naturale, con un corpo e una mente soggetti a malattie e malformazioni congenite soffrendo, godendo e morendo assieme a tutti i suoi organi. Eppure le biotecnologie ci obbligano a riformulare rapidamente, anche a livello di senso comune, molti dei parametri grazie ai quali la vita quotidiana si è orientata nel succedersi delle generazioni, come la nozione di identità personale, la rete di relazioni affettive di parentela, il ruolo della sessualità, le norme etiche e giuridiche che regolano i diritti dei singoli e delle famiglie, i cicli vitali, la grana, la varietà e l'intensità di determinate passioni. Cambia, per esempio, prospetticamente in quest'ultimo caso, il sistema dei sentimenti che scandiscono i momenti più solenni dell' esistenza umana: il concepimento, la nascita, la paternità e la maternità, la morte. Si modifica persino la configurazione dell'immaginario, in quanto condizionato dai nostri precedenti limiti biologici o mentali e dal complementare desiderio di eluderli.
Quel che appariva imposto dalle dure leggi della necessità o dall'imperscrutabile volontà di Dio si trasforma in oggetto di scelta, permettendo di essere padri sociali quando si è sterili, madri all'età della menopausa o figli di genitori sconosciuti (perché nati da una donna a cui è stato donato il seme o da un 'utero in affitto' o da una vedova ad anni di distanza dalla morte del marito). Quel che, inoltre, si mostrava inseparabile moralmente o naturalmente - sessualità e procreazione, grazie ai contraccettivi, in particolare a quelli farmacologici, oppure procreazione e figura parentale, grazie alle tecniche di fertilizzazione - si disaggrega, trasformando la precedente energia di legame affettivo in energia fluttuante e inquieta, che non sa ancora come distribuirsi e che provoca sconcerto e dolore. Allo stesso modo, il corpo - come organismo formato da parti indissolubili - si divide e i singoli organi si possono scambiare, passando da un organismo a un altro.
Si scaricano così sull'individuo responsabilità inedite e gravose, gli si abbandonano scelte che costituivano una volta la più gelosa prerogativa degli stati o delle Chiese. Ciascuno è pertanto posto di fronte a scenari metafisici che lo impegnano anche sul futuro remoto: vita e morte, scansione del ciclo vitale proprio o altrui, trapianto d'organi, gestione del patrimonio genetico. Infatti, è già plausibile che si possa intervenire sia sulla linea somatica, a scopi terapeutici, mediante l'inserimento di pezzi del DNA nella cellula staminale corretta, sia manipolando la linea germinale di un individuo, così che le modificazioni inserite entrino costitutivamente a far parte del suo genoma e vengano trasmesse per via ereditaria (Stich e Jackson 1979; Glover, 1984; Capron et al., 1993; Di Mauro e Maffettone, 1997). Le scienze biologiche si trasformano da saperi sostanzialmente puri in saperi capaci di spostare le frontiere della vita e della morte e di comporre un bricolage di organi.
Le biotecnologie non si fermano tuttavia al mondo umano, sebbene siano a esso finalizzate. Trasformano infatti le modalità del mangiare (mediante alimenti geneticamente modificati, come semi, piante e ibridi in precedenza non ottenibili), del curarsi (mediante farmaci prodotti con tecniche dell' inge gneria genetica o mediante le costruzioni di modelli di malattie indotte in animali transgenici). Gli organismi geneticamente modificati sono ormai, del resto, un prodotto industriale a larga diffusione su cui convergono gli sforzi di potenti multinazionali che beneficiano attualmente anche del fatto che il 12 maggio 1998 il Parlamento europeo ha approvato una direttiva che consente la brevettabilità dei materiali biologici. Si ha così la creazione di organismi vegetali inattaccabili a certe larve. Per esempio, inserendo nel DNA di alcuni vegetali un gene del batterio Bacillus thurigiensis, che seceme una specifica tossina, si tengono lontane le larve di lepidotteri come l'Heliotis zea. D'altra parte, la vita è stata manipolata da tempo in campo agricolo e veterinario, per esempio attraverso la selezione artificiale di sementi o di razze animali.
La materia vivente diventa trasportabile da un corpo all'altro, viene resa compatibile operando, mediante la biologia molecolare, sui geni. Si mettono così in relazione esistenze e storie umane differenti, che si incontrano anche oltre la morte. Cadono virtualmente le barriere tra le specie: il cuore di un maiale può essere usato per un uomo, tanto che il filosofo H. Jonas, proiettando le sue paure, ha potuto osservare: "lo reprimo il brivido metafisico che mi prende pensando all'orrore di ibridi umano-animali, che, in modo del tutto conseguente, sono già comparsi tra le prospettive pratiche della biologia molecolare all'insegna della ricerca sul DNA ricombinante" (Jonas, 1985).
La bioetica branca dell'etica filosofica
La bioetica, termine forse coniato dal cancerologo V.R. Potter (Potter, 1971), nasce con l'intento dichiarato di gettare un ponte tra scienza ed etica, due sponde che sembravano destinate a restare separate (fig. 2). Essa rappresenta un sapere di frontiera sia in senso locale, in quanto posta tra due spazi disciplinari originariamente separati, sia in senso temporale, perché giovane e in continua espansione grazie agli effetti in precedenza mai ipotizzati delle biotecnologie e, in particolare, allo sviluppo della genetica e della biologia molecolare. Secondo la definizione datane da T.W. Reich, essa è "lo studio sistematico della condotta umana nell'ambito delle scienze della vita e della cura della salute, quando tale condotta umana è esaminata alla luce dei valori e dei principi morali" (Reich, 1978).
La bioetica è entrata a far parte dell'etica filosofica, rivitalizzando l'etica pubblica che sembrava essere stata, da una parte assorbita dalla legislazione positiva, dall'altra relegata nella sfera della morale privata. Essa contribuisce poi a spostare l'interesse dalla sfera dell'anima o dell'invisibile a quella della corporeità, accreditando la convinzione che non solo abbiamo un corpo, ma anche che siamo un corpo. Il problema della corporeità - che poteva risultare secondario nella tradizione dell'Occidente che insisteva sul corpo prigione del!' anima e sul dualismo cristiano o cartesiano di anima e corpo - viene riportato in primo piano allorché le biotecnologie rendono possibile modificare in profondità la dimensione corporea (Melchiorre e Cascetta, 1983; Nancy, 1992; Huisman e Ribes, 1992).
L'etica cessa in tal modo di essere un tema specialistico dei filosofi ed entra, con minori mediazioni che nel passato, nelle sfere del senso comune, della medicina e del diritto. Anche se risulta evidente la sproporzione tra i principi e le norme da un lato, e la loro applicazione effettiva dall'altro, non bisogna sottovalutare l'importanza dell'etica nel mondo attuale, prendendo le sue regole per prediche inutili. Da esse e dallo sforzo di osservarle dipende infatti una vita sensata nel presente, oltre che nell'avvenire delle prossime generazioni.
Data la sua crescente incidenza sulla società, la bioetica può quindi oggi rivendicare, con buoni argomenti, la propria autonomia rispetto all'etica tradizionale. È tuttavia vero che l'origine storica delle sue inquietudini risale a un periodo molto più remoto dello sviluppo delle biotecnologie. Le questioni bio etiche sorgono, in Occidente, sullo sfondo di una crisi morale che è strettamente legata al venir meno di una serie di convinzioni, sia etiche che ontologiche. Infatti, già con la rottura dell 'unità religiosa, ai tempi di Lutero, "non fu più possibile sperare di vivere in una società che potesse aspirare a un'unica concezione morale, dettata da un'unica autorità morale suprema" (Engelhardt Jr., 1986). La morale venne così sospinta nell'interiorità della coscienza individuale o dovette confondersi con il diritto positivo o i comandamenti delle Chiese e degli stati. La bioetica, con il suo aggancio al corpo, ha ridato alla morale un carattere pubblico, visibile; ne ha fatto un patrimonio condiviso (se non altro di preoccupazioni). Essa si sta, infatti, "sviluppando come la lingua franca di un mondo che si interessa dell' assistenza sanitaria ma non possiede una concezione etica comune" (Engelhardt Jr., 1986). In un regime di 'politeismo' dei valori, non potendoci accordare sui principi morali ultimi, pur essendo di fronte a questioni ultime, siamo indotti a confrontarci con gli altri secondo proposte che si affidano al consenso e alla buona argomentazione. Lo stesso Engelhardt Jr., in una intervista a un quotidiano nel 1998 ha perciò definito "morale laica la condizione default della società, una condizione di mancanza, che non sarà l'ideale ma che è tutto quanto siamo in grado di raggiungere".
L'antidestino
Lo spostamento delle frontiere della vita come conoscenza, genesi, qualità, durata ed esito, modifica l'orizzonte di aspettative del singolo, e, pertanto, la comprensione che ciascuno ha di sé e degli altri. Molte condizioni che apparivano legate alle dure e imperscrutabili necessità del mondo si trasformano in oggetto di scelta, in un 'antidestino' (Rodotà, 1997), ponendo la questione se quanto è tecnicamente possibile sia anche lecito (va ricordata un'ovvietà, ossia che tutto ciò che le biotecnologie introducono come innovazione in natura, segue poi le leggi della natura stessa). Cosa implica - solo per fare alcuni esempi - il poter conoscere in anticipo la probabile durata della nostra esistenza, o la natura delle malattie (come la corea di Hungtinton, che si manifesta intorno ai quarant'anni) da cui noi stessi e i nostri figli saremo verosimilmente affetti? Sono informazioni la cui conoscenza sicuramente renderebbe felici i datori di lavoro e le compagnie di assicurazione. Ma devono essere comunicate a chi ne sarà colpito, o no?
Che il ventaglio delle possibilità si allarghi implica che vi sia una diminuita fiducia nella potenza e nel carattere normativo delle presunte leggi di natura così come finora le abbiamo interpretate. Ciò implica anche una complementare tendenza a privilegiare, soprattutto nel futuro, un maggior tasso di artificialità nel proprio corpo o il prevalere di sentimenti acquisiti, per esempio di paternità o maternità affettive, invece che di legami di sangue. Ciò non avviene tuttavia in modo semplice e indolore. Ci si chiede infatti: se la vita e la morte fossero programmate e burocratizzate - organizzate con banche del seme ed eventualmente con centri per la conservazione di 'cadaveri di stato', che dovrebbero distribuire gli organi a chi ne ha bisogno - non diventerebbero banali e prive di valore intrinseco?
Occupandosi delle questioni 'ultime', la bioetica rende problematico ciò che prima era considerato normale e si situava, come sfumato, sullo sfondo inerte delle nostre preoccupazioni morali dirette. La soluzione alle nostre difficoltà era infatti generalmente offerta dalle singole fedi e credenze oppure lasciata alla dimensione della coscienza individuale. Si scaricano ora sui singoli responsabilità inedite e gravose, in quanto essi sono chiamati a prendere decisioni in precedenza delegate ai grandi emissori di norme e di orientamenti morali, alle 'banche etiche' come Chiese, stati partiti.
Data la posta in gioco, è quasi inevitabile che si scatenino conflitti e fanatismi, i quali, oltre che lacerare la coscienza del singolo, pongono in virtuale rotta di collisione culture, concezioni e fedi religiose, ampliandone ulteriormente il contenzioso, già alto nel mondo per effetto dei fenomeni di globalizzazione che mettono in contatto parti distanti del pianeta e per effetto della convivenza ormai diffusa di diverse etnie sullo stesso territorio.
Per effetto delle biotecnologie aumenta pertanto il divario tra le possibilità di innovazione e la loro recettività a livello sociale, culturale e religioso. Si verificano, spesso, reazioni di rigetto o di forte differenziazione e si approfondisce il solco tra le norme etiche o religiose consolidate e gli atteggiamenti più aperti e sensibili alle opportunità generate dalla ricerca scientifica. Succede talvolta che, nella difesa a oltranza delle proprie ragioni e dei propri dogmi, vengano toccati livelli di radicalità tali da porre il cittadino in aperto contrasto con le leggi del proprio paese e da spingere il credente o a opporsi al magistero della propria confessione, o ad accettarne le direttive volte a combattere quanti attentano al suo credo. Per rendersi conto della grandezza dei problemi, si pensi soltanto alle polemiche sulla inseminazione artificiale, sullo statuto dell'embrione o sulle terapie geniche che già si prospettano per intervenire sul genoma umano. Di fronte al comune effetto di 'vertigine' provocato dalle conquiste (reali o virtuali) delle biotecnologie, davanti alle implicazioni, molte delle quali ignote, a cui essa potrebbe portare, la coscienza morale resta turbata e gli animi si dividono.
Si può dire che sostanzialmente la linea di frattura passi tra due concezioni, tra la difesa della sacralità e della gratuità della vita (sostenuta dai credenti delle religioni rivelate, ma non solo) e quella dei fautori della qualità della vita. l primi, che rivendicano talvolta il carattere semplicemente razionale delle loro posizioni, riconoscendo norme morali assolute "da rispettare sempre e comunque, senza eccezioni" (Melina, 1988; Sgreccia, 1988; Cattorini, 1990), incentrano i loro argomenti sull'idea di persona, ossia sull'unicità di ogni individuo umano e sulla sua differenza dagli altri animali: "L'io è irriducibile a cifra, a numero, ad atomo, a cellule, a neuroni [ ... ] In ogni uomo, in ogni persona umana, il mondo tutto si ricapitola e prende senso, ma il cosmo nello stesso tempo è travalicato e trasceso. In ogni uomo sta racchiuso il senso dell'universo e tutto il valore dell'umanità: la persona umana è un'unità, un tutto e non una parte di un tutto [ ... ] Dal momento del concepimento alla morte, in ogni situazione di sofferenza o salute è la persona umana il punto di riferimento e di misura tra il lecito e il non lecito" (Sgreccia, 1988).
Sebbene l'opposizione tra religiosi e laici nasconda e distorca la pluralità di posizioni esistenti sulla bioetica, anche in campo laico - intendendo il termine nel senso di un pensiero antidogmatico, tollerante ed esposto al dubbio e all'eventuale rettifica delle posizioni acquisite - attualmente si parla molto di persona. In quest'ambito, però, il concetto di persona rappresenta il tentativo di trovare un comune denominatore che ponga l'accento sulla dignità di ogni singolo uomo. Evitata la nozione tomistica di persona quale individua substantia rationalis naturae, sostanza indivisibile della natura razionale, risulta difficile legare la persona alla sola dimensione psicologica dell'autocoscienza, il che escluderebbe, per esempio, il feto a un certo momento del suo sviluppo. Qualsiasi defrnizione di persona si scelga, si perde qualcosa di essenziale, e l'accordo minimo tra le varie parti in conflitto, attualmente, sfuma.
Da parte laica il tema della qualità della vita viene visto in questi termini: "Il motto cattolico potrebbe essere 'valori etici eterni nelle situazioni nuove'; il motto laico 'a situazioni nuove forme etiche nuove', ispirato dal timore del male che in situazioni nuove possono involontariamente produrre forme etiche vecchie" (Scarpelli, 1996). U. Scarpelli ha ben riassunto il senso delle intenzioni e delle posizioni dei laici: "Procederò dunque nel mio ragionamento etsi Deus non daretur, cioè da laico. Laico, infatti, non è il negatore di Dio (la negazione di Dio è essa stessa una proposizione su Dio, un parlare dell'ineffabile) ma chi ragiona fuor dell'ipotesi di Dio accettando i limiti invalicabili dell'esistenza e della conoscenza umana [ ... ] Ma nell'etica non c'è verità. l valori di vero e di falso convengono alle proposizioni del discorso descrittivo-esplicativo-predittivo, non convengono alle proposizioni del discorso prescrittivovalutativo; la stessa varietà storica dei principi convince che essi sono frutto di processi culturali, sociali e personali, e non sono riconducibili a un'astratta e metastorica zona della verità immediatamente intuibile da ogni intelletto. L'etica è dunque nei suoi principi logicamente arbitraria, ma questo non significa che sia umanamente arbitraria. Nell'esperienza e nella problematica etica ciascuno è impegnato con il suo condizionamento organico e culturale, con il suo carico di legami e di affetti, nella situazione individuale e concreta in cui è venuto a trovarsi alla nascita e che si è trasformata con lui nel corso della sua esistenza [ ... ] Un'etica è dunque sempre e radicalmente individuale; proprio ciò assicura la non arbitrarietà umana" (Scarpelli, 1987).
Siamo qui di fronte a due posizioni che appaiono antitetiche o, almeno, difficilmente conciliabili e integrabili e che conducono a vere e proprie aporie etiche. La materia del contendere è fisica e metafisica insieme: è sostanzialmente la vita stessa, intesa non solo in senso biologico, ma anche spirituale e culturale. Per i credenti, in genere la vita e il corpo devono esser concepiti come dono divino, gratuità, qualcosa di cui non possiamo disporre, quasi una livrea da servi del Signore, ricevuta col nascere e da restituire con la morte (Flores d'Arcais, 1997). Del resto, noi non siamo i padroni del nostro corpo: le cellule si moltiplicano e muoiono, il sangue scorre, le ghiandole endocrine secernono i loro prodotti, i globuli bianchi vanno all'assalto delle infezioni e i nostri polmoni si gonfiano: c'è qualcosa che vive in noi che non è nostro e che non dipende direttamente dalla nostra volontà. Da qui - anche - il senso del mistero e della sacralità dell' esistere e il fulcro delle argomentazioni contro l'idea di autonomia individuale delle posizioni laiche.
Se dunque per i credenti noi non siamo padroni a casa nostra e la divinità o la nietzschiana "grande ragione del corpo" sembrano sapere meglio di noi e della nostra "piccola ragione" cosa è meglio per noi, perché allora pretendere prometeicamente di diventare padroni e, addirittura, creatori di se stessi mediante la scienza e la tecnica? Perché osare l'impossibile o l'empio, con il sottrarsi alla dipendenza del caso, alla lotteria genetica? Perché esigere il controllo della vita nel suo complesso, dalle sue sorgenti al suo esito, passando poi attraverso tutte le fasi critiche di essa? Perché separare e disaggregare quel che Dio, la natura o la società hanno da sempre (o da tempo immemorabile) unito, e cioè la sessualità e la procreazione, la procreazione e la responsabilità parentale?
L'idea di sacralità della vita si scontra però oggi con la volontà di molti di regolare la propria esistenza in modo da migliorarne la qualità e la dignità, nonché con la tendenza dei saperi scientifici e delle biotecnologie a procedere oltre i limiti di volta in volta posti. E non saranno certo i fantasmi che ancora si aggirano in molte discussioni (di nuovi Frankestein o di nuove divisioni Lebensborn) a bloccare questi processi.
I nuovi dilemmi creati dalle biotecnologie
La sfida portata dai progressi medici e dalle biotecnologie pone alla bioetica numerosi e spinosi dilemmi e innesca paradossi di difficile soluzione. Nella forma di 'esercizi di perplessità', cercheremo ora di vedere quali conseguenze già si diano e quali presumibilmente si avranno sul terreno dei sentimenti e dell'identità personale.
Si modifica intanto - dapprima in maniera irriflessa e poi sempre più consapevole - la percezione sia dell'ampliarsi dell'orizzonte della propria vita sia dei rischi che immancabilmente comporta ogni tentativo di avventurarsi verso l'ignoto. Cambiano, con lo spostamento di questa linea di orizzonte, le aspettative e le paure, i progetti e le rinunce. Con essa avanza infatti la portata e la 'longitudine' dei desideri. Felicità e infelicità degli individui e dei loro eventuali discendenti, forme di amore e di rispetto per i figli o per i genitori, senso di responsabilità, gerarchie familiari e sociali, diritti e doveri ne escono profondamente segnati. Tanto più che, per la prima volta nei suoi circa centonovantamila/ centosettantamila anni di esistenza, gli esponenti della specie Homo sapiens cominciano a pensarsi come gli unici esseri del pianeta capaci non solo di trasformare l'ambiente, ma anche di cambiare se stessi e le generazioni dei secoli venturi attraverso un intervento diretto sul 'codice della vita'. Questi miliardi di mammiferi, che popolano ogni angolo della Terra e che vivono in qualsiasi clima, sono però diventati (grazie al numero e allo sviluppo tecnico complessivo) una specie potenzialmente nociva, virtualmente pericolosa per la sopravvivenza di tutte le forme di vita racchiuse entro la sottile fascia della bio sfera larga appena trenta chilometri.
Tuttavia l'introduzione massiccia delle biotecnologie genera soprattutto sconcertanti paradossi, intendendo quest'ultimo termine nel senso di teorie e situazioni che vanno contro la 86ça, l'opinione recepita e consacrata dalla tradizione. Assieme a essi sorgono inoltre attese malriposte, o semplicemente premature, nei risultati di quelli che sono stati chiamati 'i laboratori della felicità' (Flamigni, 1994): ci si aspetta troppo e troppo presto. I paradossi toccano soprattutto l'intimo della nostra vita di relazione. Oggi ci si può chiedere, brutalmente, secondo le espressioni in uso, cosa si prova a essere figli di una provetta o 'della scienza' , cosa si prova ad avere un padre biologico sconosciuto, che in circostanze normali non sarà mai lecito incontrare (tranne in Svezia)? Si scombinano così le forme della parentela a cui siamo abituati, viene alterata l'architettura dei ruoli familiari, vengono sostituiti i suoi principi presuntivamente immutabili, di modo che anche il proverbiale mater semper certa, pater incertus non è più necessariamente vero.
La famiglia, ubiquitous institution (istituzione ubiquitaria), varia certo nel tempo e nello spazio, ma può cambiare profondamente, non solo a causa delle tecniche di procreazione assistita in generale, ma soprattutto per effetto della fecondazione eterologa (indicata anche con l'espressione AID, Artificial lnsemination by Donors, inseminazione artificiale con semi di donatori), dell'ovodonazione o della possibilità di scegliere il sesso dei nascituri. L'istituzione famiglia verrebbe così scossa dalle fondamenta, sia da un punto di vista giuridico e morale, sia da una prospettiva psicologica.
L'atto procreativo, il più intimo e segreto, si trova a essere ridotto al rango di un esperimento scientifico, artificiale e programmato, cosa che Goethe aveva poeticamente prefigurato (Jonas, 1985) nel Faust, nella scena del laboratorio nel secondo atto, in cui Wagner crea homunculus attraverso storte e alambicchi:
Per noi, il modo antico di procreare è una sciocchezza. Il punto delicato da cui sprizza la vita, la dolce forza che dall'intimo balzava, che prendeva e dava, destinata a disegnare se stessa, ad appropriarsi prima quel ch'è più prossimo, poi quel ch'è più estraneo, ora è stata deposta dalla sua dignità. L'animale ci trova ancora gusto ma l'uomo con le sue capacità grandiose avrà più alta, molto più alta origine. (Rivolto al fornello) Scintilla! Guardi! ... Ora si può sperare davvero che se da un miscuglio di varie centinaia di elementi - quel che conta è, appunto, il miscuglio noi la materia umana con calma componiamo e in un lambicco saldiamo e accortamente distilliamo si compirà in silenzio allora l'opera.
Mentre la contraccezione separa la sessualità (e il relativo piacere) dalla riproduzione, le tecniche di fertilizzazione indotta, utilizzate dapprima nel settore veterinario, separano la generazione dalla fecondità. In un Occidente in cui (al contrario dei paesi in via di sviluppo) l'infertilità è in aumento - negli Stati Uniti è sterile una coppia su sei - diventa oggi possibile alla coppia avere figli quando uno dei due coniugi sia sterile o la donna in età da menopausa. Ma è giusto pretendere di avere figli 'a ogni costo'? "Per ora vige un sistema di contraddizioni assai difficili da disinnescare. Da una parte, rifiutare gli interventi medici di sostegno alla procreazione in nome di una inviolabile naturalità del processo generativo frnisce per ridurre l'uomo all'identità biologica e fisiologica dei rapporti sessuali, dall'altra, aprendo la trasmissione della vita agli scambi sociali, si rischia di consegnare la filiazione alle logiche del mercato e della speculazione" (Vegetti Finzi, 1997). Qualora queste tecnologie si diffondessero su larga scala, sarebbe la famiglia stessa - come nelle grandi utopie filosofiche da Platone a Campanella - a veder scomparire le ragioni della propria esistenza. Essa trae infatti la sua legittimità dai vincoli di sangue, dal divieto dell'incesto e dalla trasmissione patrilineare. Marginalizzando la riproduzione biologica, la struttura familiare "rimane un guscio vuoto, una costruzione immotivata" (Vegetti Finzi, 1997). Come già detto, ai legami di sangue, ascrittivi, non voluti, tendono a sostituirsi i legami sociali, consapevoli, elettivi e affettivi.
Il problema - come sempre - è l'uso che si sarà capaci di fare di questa maggiore libertà. La paura, comprensibile, è quella di non essere capaci di gestirla, di non essere all'altezza della sapienza che la natura mostra, pur con tutti i suoi errori. Si recide comunque il legame (istituito sin da quando "tombe, tribunali ed are fero le umane belve esser pietose di se stesse ed' altrui") tra paternità e maternità biologiche e paternità e maternità sociali o giuridiche entro il matrimonio.
L'eventuale relativizzarsi della famiglia monogamica come finora l'abbiamo conosciuta o immaginata, pur rendendo possibili "aggregazioni nuove e ancora intentate", minaccia però i fattori a noi noti dell'identità individuale, scindendo, per esempio, l'unica figura materna in madre biologica, madre gestante e madre sociale o legale: "I progressi dell' embriologia in vitro hanno anzi diviso in due il concetto stesso di maternità, rendendo possibile una distinzione tra madre genetica, ossia quella di cui è stato usato il gamete e il cui DNA ha fornito 23 cromosomi al bambino, e madre gestazionale, ossia quella che l'ha portato in grembo e l 'ha fatto nascere. E naturalmente sussiste la possibilità di una terza madre distinta, la 'madre sociale', che alleva e educa il bambino. Analogamente, la nascita rappresenta uno spartiacque tradizionale. Nel diritto essa segna il confine tra due reati, l'aborto e l'infanticidio; e quasi tutti la celebrano come l'arrivo del nuovo essere umano. Sennonché noi stiamo approdando a un'epoca in cui sarà possibile praticare l'ectogenesi, cioè portare a termine il feto in un utero artificiale. Quando ciò accadrà, la nozione di nascita perderà gran parte del proprio significato giuridico e sociale" (Harris, 1992). In quest'ultimo caso si spezzerà un rapporto molto più profondo e viscerale, quello tra madre e bambino portato in grembo per nove mesi. Infatti, "mentre lo sperma funziona come un sistema di segni che si trasmette attraverso i corpi ed è in quanto tale impersonale, il 'contenitore utero' costituisce l'aggancio della biologia alla biografia" (Vegetti Finzi, 1997).
Storie di fecondazioni in vitro e di inseminazioni artificiali
Quando, il 25 luglio 1978 - a Oldham, nell'Inghilterra settentrionale - venne al mondo Louise J. Brown, il primo essere umano nato attraverso la FlVET (Fecondazione in vitro e trasferimento dell'embrione), si aprì una nuova era, che la protagonista ha così ricordato vent'anni dopo, sottolineando il lato emotivo della sua esperienza: "Papà e mamma mi hanno detto tutto quando avevo cinque anni. Accesero la televisione e mi fecero vedere questa cassetta, sì, proprio questa. Su quel piattino di vetro c'è un uovo di mamma e lo sperma di papà. Una mescolatina e via. Era la mattina del 10 novembre del 1977. Quella stessa sera diventai una speranza fecondata di vita umana. Poco dopo mezzanotte ero già un embrione sistemato al caldo nell'utero di mia madre. Ma io penso che non sono nata allora. Sono nata in quest'altra videocassetta, girata nove mesi dopo. Era il 25 luglio del 1978, esattamente vent'anni fa. Quel punto rosa tra i camici verdi sono io. Da allora non mi sono mai liberata di questo marchio: la bambina in provetta, la test tube baby. La prima al mondo [ ... ] A cinque anni non capii quasi niente di quello che i miei genitori mi spiegavano. Ma loro furono costretti a farlo allora. Stavo per cominciare la scuola. E i bambini erano terribili, mi ha raccontato la mamma. I più crudeli. Ogni volta che passavo per strada cantilenavano: la bimba in provetta, la bimba in provetta. Il guaio è che tutti pensavano che fossi davvero cresciuta in una provetta, e che poi da lì fossi uscita. Guardavano nella carrozzina per vedere se ero diversa, che so, un po' più lunga e sottile di un bambino normale, con la testa fatta a uovo, un genere di extraterrestre di una nuova invenzione" (Polito, 1998). Un tentativo di fecondazione artificiale umana era stato effettuato in Italia nel 1961: "Gli anni '60 sono iniziati con la notizia diffusa il 13 gennaio 1961 dalla stampa quotidiana che Daniele Petrucci dell'Università di Bologna era riuscito a produrre in vitro un embrione e a mantenerlo in vita per 29 giorni, filmando con esattezza l'intero esperimento e interrompendolo per ragioni morali. Lo scandalo fu enorme, e Petrucci (che sembra non abbia mai prodotto dati) fu espulso dall 'Università e trovò rifugio in Unione Sovietica" (Mori, 1995).
Ora, è vero che, soprattutto a causa dell'inseminazione artificiale, si corre il rischio di avere una disembodied procreation (procreazione extracorporea) e una terapia assimilabile a "una sorta di meccanismo per il controllo della qualità nel processo produttivo" (Lauritzen, 1993), di trattare l'ovulo o lo sperma come fattori anonimi, spersonalizzati, ma è anche vero che tali procedure portano poi a processi naturali (nulla, in effetti, si compie contro natura) che sfoceranno in un bambino forse più amato di altri.
Difficoltà di altro livello pongono invece le AID families o artificial families, che acuiscono il problema della libertà degli individui in rapporto al benessere della società. Il primo caso di AID sembra essere avvenuto nel 1884 a Philadelphia con la moglie di un mercante quacchero sterile. Il caso - discusso e praticato presso il Jefferson MedicaI College - viene raccontato nel 1909 sulla rivista Medicai World da quello che era allora uno studente, e forse il donatore in quanto "il più bello della classe". Per qualche anno la cosa fece scalpore. Le questioni etiche che oggi permangono riguardano il "come soddisfare i bisogni degli individui, mantenendo nello stesso tempo l'integrità dell'organizzazione sociale" (Snowden e Mitchell, 1983).
La pratica dell'inseminazione artificiale fu condannata dall'arcivescovo di Canterbury già nel 1945. Anche a prescindere dai motivi di principio a sostegno della posizione contraria assunta dalla Chiesa cattolica, ritengo che le conseguenze psicologiche ed esistenziali possono essere gravi. L'AID produce instabilità nella coppia e la può spingere alla dissimulazione (più o meno onesta) sull'origine del bambino nella trama dei rapporti interpersonali. Infatti il bambino è 'di lei', ma non 'di lui', dimodoché entrambi davanti ai parenti (soprattutto 'di lui') e alla società preferiscono fingere che il bambino sia figlio del suo padre sociale o putativo. La tendenza al segreto (che non è sempre nell'interesse del bambino) può avvelenare i rapporti di coppia e renderla vulnerabile nei confronti dell' opinione altrui. Esiste il concreto pericolo che il segreto possa essere violato, magari alla presenza del bambino, da parte di uno dei coniugi, per rivalsa, per vendetta nei confronti dell'altro o per l'intollerabilità psicologica del fatto di non poterne parlare con nessuno, di sopportare tutto il peso di una decisione sofferta. È inoltre mia opinione che l'inseminazione artificiale metta in gioco la figura patema, sia nel campo del reale che in quello (forse in questo caso ancora più importante) dell' immaginario e tutto questo può essere alla radice di un contenzioso incomponibile. D'altra parte, però, le procedure di inseminazione sono ora diventate relativamente semplici: occorre solo un donatore, così che vietare tale pratica porterebbe solo a un aumentato tasso di segreto e di clandestinità.
Le ragioni per la scelta dell'AID sono molteplici. Sulla donna vi sono sostanzialmente due forme di pressione psicologica, assorbite con l'educazione: che deve avere un bambino, che deve averlo nell'ambito del matrimonio. Molte donne, poi, soffrono di baby hunger (smania di avere figli). È questa, peraltro, una delle motivazioni (non sempre corrispondenti al vero) di alcuni mariti che accettano di essere padri putativi (Snowden e Mitchell, 1983). Sul padre legale gioca, per giunta, la paura di una dipendenza psicologica nei confronti del donatore e del formarsi di un'alleanza - che lo esclude - tra madre e bambino. Si instaura in realtà in lui un conflitto di ruoli: "Il genitor è la connessione biologica, il maschio che fornisce lo sperma che fertilizza l'ovulo nella femmina. In questo caso il donatore è il genitore. Il pater è il padre, ossia il maschio che è legalmente responsabile del benessere del bambino, la persona a cui il bambino deve obbedienza filiale e che usualmente svolge il ruolo di capo famiglia" (Snowden e Mitchell, 1983).
Ignorare l'identità del padre può provocare per tutta la vita una ricerca tormentosa. Alcune lettere lo rivelano, come quella di un lettore del quotidiano Guardian (5 luglio 1979) che sconsiglia l'AID, rivelando come lui, figlio di padre sconosciuto, abbia trascorso un'infanzia penosa nel tentativo di individuarlo tra gli sconosciuti: "Lo cerco per la sua somiglianza [con me] tra la folla, fuori dagli ostelli dell'Esercito della salvezza, alla televisione, dovunque. Questa è la mia crisi di identità ed è molto dura da sopportare". In un'altra lettera un giovane, nato per mezzo dell'AlD, confessa: "Non mi sono mai preoccupato di essere un bastardo. No, ciò che sconvolse il mio intero essere era che nessuno conosceva il mio 'vero' padre: come se metà di me stesso non esistesse, non esista" (Snowden e Mitchell, 1983). La soluzione di mescolare i semi, in modo che non si sappia mai chi è stato il padre del bambino AID, è, per alcuni studiosi, moralmente riprovevole, specie se è un medico a procedere in questo modo: "A lui è assegnato un ruolo inaudito nella storia della medicina. Eccetto che nel caso in cui la coppia porti con sé il donatore di seme, egli lo deve procurare o, meglio, deve procurare il seme. Ciò gli assegna, detto volgarmente, il ruolo di ruffiano [ ... ]. Qui c'è però una mossa diabolica con la quale tutto il problema giuridico viene aggirato, rendendo de facto impossibile qualsiasi identificazione: il cosiddetto cocktail di semi di varia origine che viene fornito per l'inseminazione" (Jonas, 1985).
Coloro che difendono l'AID insistono su tre punti:
l) il carattere storicamente determinato dei rapporti di filiazione e di paternità, dimostrato dal fatto che i figli adulterini (in ltalia sino al 1975) o quelli incestuosi ancora oggi, sebbene sia innegabile la paternità biologica, non venivano o non vengono considerati tali, mentre i figli adottati, pur non avendo alcuna relazione genetica con la coppia che li accoglie, erano e sono ritenuti figli agli effetti giuridici. Tale mutamento storico nell'ambito della filiazione e della paternità va valutato nel quadro più ampio della trasformazione dell'idea di famiglia. Questa comprende infatti, attualmente, nuove tipologie, sorte anche grazie alla maggiore diffusione dell'istituto del divorzio, come "famiglie unipersonali, famiglie di fatto di vario tipo, famiglie senza figli, famiglie con figli propri e adottati, e così via" (Mori, 1995).
2) La constatazione che le famiglie AlD (il 2% di tutte quelle francesi) sono molto più stabili delle altre, in quanto meno toccate dai divorzi (Mori, 1995).
3) La constatazione che l'equilibrio psicofisico dei bambini nati con questa procedura (tranne che per l'incidenza della segretezza sulle modalità della loro nascita) generalmente non ne risente: "Ma in assenza di litigiosità pur in presenza di un alto numero di nati-AlD, si deve concludere che l'AlD è un fattore coesivo della famiglia, che temprata dall' esperienza della sterilità e dalla gioia della nuova nascita, trova nuova unità [ ... ] Oggi l'obiezione insiste sui danni di natura psicologica derivanti dal fatto che il figlio è privato delle 'normali' figure parentali. Ma quest'obiezione sembra informata alla concezione tradizionale di filiazione (legata alla vecchia concezione del matrimonio) e si dissolve immediatamente non appena si assuma la nuova concezione attenta ai fatti empirici: di fatto i figli-AlD sono (mediamente) più accuditi e curati degli altri e non presentano particolari disturbi psicologici [ ... ] A ben vedere chi è nato grazie all'AlD non sarebbe mai nato senza tale intervento, per cui poiché stiamo considerando il possibile danno inflitto al nato, si deve dire che per lui l'alternativa è tra nascere grazie all'AlD o il non-nascere affatto, e se nasce amato e accudito sembra che il fatto di metterlo in questa condizione non sia in nessun senso un danno" (Mori, 1995).
A queste argomentazioni si aggiunga il fatto che l'accesso ai "nuovi diritti riproduttivi" considera l'utilizzazione delle tecniche di fecondazione assistita non come rimedio terapeutico contro l'infertilità, bensì come prerogativa inalienabile degli individui ut singuli, prima ancora che come membri della famiglia. È questo il principio di autonomia delle scelte individuali che si sta affermando contro le visioni tradizionali familiocentriche. Ciò non esclude tuttavia che le tensioni siano inevitabili e persino prevedibili, come nel caso di un padre sociale che ha disconosciuto il bambino (ora undicenne) nato attraverso l'AlD. La vertenza giudiziaria, iniziata nel 1990, nel 1998 non si è ancora conclusa: "Intanto la famiglia del piccolo si è disintegrata. Ora egli vive con la madre, infermiera, in un piccolo paese a una decina di chilometri da Cremona, tra difficoltà immaginabili, sottoposto al peso psicologico della curiosità che il caso ha suscitato nei compagni di scuola e nella gente. Il padre gestisce un bar a pochi chilometri di distanza, ma ha ribadito che di quei due non ne vuoI più sapere, forte del fatto che quel bambino non è nato dal suo seme" (Bandera, 1998).
L'ovodonazione
Simmetrica all'AlD è - sul versante femminile - l'ovodonazione. Senza considerare le situazioni più complesse (come quella della combinazione di due ovuli da parte di due donne diverse, una più anziana, che offre il nucleo, con il proprio patrimonio genetico, e una più giovane che offre invece il citoplasma), anche tale tecnica più standardizzata può provocare reazioni psicologiche di rigetto o di forte perplessità.
È questo il caso di una donna quarantenne che ha deciso di ricorrere all'ovodonazione: "Ci ho messo dieci anni a fare un bambino [ ... ] Prima la solita trafila di medici e ginecologi. Ognuno diceva la sua, e tu ti senti una specie di qualcosa che non so definire, sbattuta qua e là. E continui a volere questo figlio e non puoi averlo a meno che non decidi di fare una scelta radicale. Che ti fa a pezzi. O accetti o niente figlio. E tuo marito preme. E pensi che lui potrebbe mollarti e cercarsi una che gli ovuli ce li ha, belli e pronti, a paIate. Una donna che non aspetta altro che trovare uno come lui, come tuo marito, disperatamente alla ricerca di un figlio, o magari di due o tre. Hai delle fantasie quasi pazzesche, vedi solo chi ha figli, ti sembra che tutti possano e tu no. Vedi bambini dappertutto, se poi vedi anche una pancia è la fine. Una tragedia ... forse lo è stata per me e comunque lo è ancora, nonostante il bambino, che è bellissimo e che adoro. Ma lo so che non ha niente di me. Ha delle cose di suo padre ma non mie. Neanche un particolare. Niente. E assomiglia a una donna che non ho mai visto e di cui non so nulla". Si notino i sentimenti di paura e di gelosia, rivolta a una persona indeterminata, mai vista e conosciuta, che compaiono, in forma diversa, anche in un'altra donna, di 38 anni, a cui è stata proposta l'ovodonazione: "Lei non potrà mai avere figli, mi ha detto il ginecologo. Mi è sembrato di morire. L'unica alternativa è l'ovodonazione. Nient'altro. E io non me la sono sentita. E allora è saltato tutto, matrimonio compreso. Come fai a dire a tuo figlio: scusa, sai, ma per averti ho usato l'ovulo di un'altra donna, e non so neanche chi sia. Tacere? Ancora peggio. L'ovodonazione ti spacca in due. Come fanno a convivere con una scelta così?" (Bonaccorso, 1998).
La mamma-nonna e la zia-madre
Molteplici altri paradossi, in grado di provocare - per ora sconcerto e scandalo sorgono da altre applicazioni della medicina e delle biotecnologie. Uno dei paradossi che ha turbato le coscienze è il caso della 'mamma-nonna'. Non tanto quello di Mary Shearing, una californiana di 53 anni, che nel novembre del 1992 ha generato due gemelle utilizzando gli ovuli donati da una donna di vent'anni e fecondati dal seme del marito, quanto quello dell'italiana in età di menopausa che ha convinto la propria figlia a lasciarsi inseminare artificialmente con il seme del proprio convivente. Ma vi è anche il caso della zia-madre: nel gennaio 1995 nasce Elisabetta, a Roma, da uno dei quattro embrioni ottenuti per fecondazione in vitro e congelati che la madre (morta due anni prima in un incidente stradale) aveva lasciato. Colei che ha portato a termine la gravidanza è la sorella del marito della donna morta, ossia la zia paterna della bambina. Nel 1997, poi, il ginecologo italiano P. Billotta ha reso noto il caso di una donna gravida di due feti formati da embrioni di coppie di genitori differenti. Infatti, una delle madri naturali è priva di utero, mentre l'altra non può affrontare il parto in quanto cardiopatica.
Grande sconcerto ha seminato più recentemente la notizia dell'inseminazione di una donna attraverso lo sperma estratto dal marito morto. Si è parlato di 'fecondazione dalla tomba' o di un ponte tra il mistero della nascita e quello della morte. l fatti sono questi: la rivista New Scientist del luglio 1998, riferisce il caso, ripreso da tutti i maggiori giornali, di una giovane vedova inglese di 29 anni, già al primo mese di gravidanza, a cui è stato impiantato in utero un ovulo fecondato con spermatozoi del marito morto. Ciò è avvenuto al Centmy City Hospital di Los Angeles. Il professor Cappy Rothmann, che ha condotto l'intervento, è convinto di aver agito eticamente: "Questo intervento è etico poiché dà speranza alla gente e riduce il dolore per l'improvvisa perdita di una persona cara".
La nascita di un figlio dell'al di là, di un bambino come continuazione di un genitore morto ha provocato reazioni diverse. Mentre da parte laica si è osservato che in tal modo viene colpito "quel nucleo di sentimenti che sottende la distinzione tra morto e vivo, in cui crescono le nostre tradizioni religiose, morali civili" (Giorello, 1998), da parte cattolica si ribadisce invece la convinzione per cui "la fecondazione artificiale è sempre illecita". E si aggiunge: "Ma qui c'è l'aggravante della totale mancanza di volontarietà e consapevolezza dell'uomo, c'è l'aspetto macabro dell'intervento su un corpo morto. Si tratta di aberranti esperimenti di zootecnia [ ... ] È stato violato, nella maniera più profonda e più spaventosa, un principio fondamentale: la procreazione umana deve avere alla base un atto personale dei coniugi, un atto di amore libero e responsabile. È evidente che prelevare il seme di un defunto è quanto di più lontano ci possa essere da questo requisito" (Sgreccia, 1998).
La determinazione del sesso
Tra le possibilità che oggi si presentano, nell'ambito della procreazione assistita vi è anche quella di selezionare le caratteristiche e il sesso del nascituro e - in una prospettiva apparentemente fantascientifica - quella della clonazione e della partenogenesi.
Già l'eventuale scelta anticipata dei tratti caratteristici del bambino appare controversa, in quanto ricorda l'eugenetica nazionalsocialista, per quanto, in effetti, sia la più innocua di tutte. Alcuni hanno argomentato che non ha senso impedire questa opzione ai genitori: "A me sembra che il problema stia in questi termini: questi tratti - colore dei capelli o degli occhi, sesso o simili - o sono importanti o non lo sono. Se non sono importanti, perché non lasciare alla gente la possibilità di sceglierli? E se sono importanti, può essere giusto lasciarli al caso?" (Harris, 1992). Più discusso è il caso della scelta del sesso del nascituro (citata sopra come equivalente al colore degli occhi o dei capelli), sia nel modo in cui è già stato praticato in Inghilterra, sia con i più sofisticati metodi di selezione degli spermatozoi (in entrambi i casi viene però alterato, nel succedersi delle generazioni, il sistema patrilineare o matrilineare eventualmente in vigore in una determinata società).
In alcune cliniche private londinesi è possibile, di fatto, scegliere il sesso del bambino da quando la legge inglese ha ritenuto discriminatorio negare alle donne di origine indiana il diritto di preferire i figli maschi, dato che nella loro cultura la nascita delle bambine è considerata fortemente indesiderabile. In India viene a volte evitata ricorrendo all'aborto dopo l'individuazione del sesso del nascituro; così che, su 8.000 aborti ascrivibili a coppie che avevano compiuto una diagnosi prenatale a questo scopo, sono stati trovati 7997 feti di sesso femminile, mentre gli altri tre casi erano conseguenza di un errore diagnostico (Mathieu, 1990; Rodotà, 1995).
Anche chi è favorevole alla selezione del sesso - senza ricorrere all'aborto tardivo - mostra qualche perplessità in proposito: "Naturalmente la selezione sessuale non è una novità del nostro tempo. L'infanticidio selettivo è stato praticato per millenni da varie società ed è praticato tuttora, a volte anche nella nostra società. L' amniocentesi rivela anche il sesso e una madre potrebbe decidere di interrompere la gravidanza proprio in forza di questa informazione. In futuro, poi, con ogni probabilità diventerà relativamente facile determinare il sesso selezionando lo spermatozoo da usare per la fecondazione. In campo animale già oggi disponiamo di tecniche perl'identificazione e la separazione dello spermatozoo in relazione al sesso che determina. [ ... ] l timori più diffusi sono legati alla possibilità che certe società favoriscano in misura così marcata la produzione di figli maschi da conferire alla discriminazione delle femmine proporzioni epidemiche. Sebbene simili linee di comportamento alla lunga sembrino destinate ad autocorreggersi, senza dubbio nel breve periodo possono dar luogo a molta infelicità. Sarà bene ricordare, comunque, che, poiché un certo numero di malattie genetiche è legato al sesso, in assenza di altre terapie la scelta di un sesso particolare per il proprio figlio può essere suggerita da ragioni molto forti" (Harris, 1992).
In termini più generali, si può intravedere all'orizzonte un altro pericolo, adombrato sin dal 1932 ne Il mondo nuovo (Brave new world) da A.L. Huxley, uno scrittore che proveniva da una famiglia di biologi. In esso si ipotizza che venga creata artificialmente una gerarchia sociale rigida composta da individui (Alpha, Beta e Gamma), alcuni dei quali sono programmati geneticamente per comandare, altri per ubbidire. Forse si ricorda meno il fatto che nel romanzo una parte del globo non è stata sottoposta a questa terapia genica del tutto particolare, e che vi sono i cosiddetti 'selvaggi', da cui l'autore sembra aspettarsi il riscatto dell'umanità futura con la parallela distruzione di tali gerarchie. Sebbene fantascientifico nello stile in cui è stato elaborato nel 1932, oggi uno scenario alla Huxley può diventare plausibile. Potrebbe cioè, di fatto, accadere che le biotecnologie avanzate frniscano per riguardare gli abitanti delle nazioni economicamente più ricche e sviluppate, favorendo la crescita non di razze, ma certamente di generazioni di individui artificialmente trattati, sempre più esenti da malattie e malformazioni, programmati nel numero e nel sesso, lasciando la maggior parte degli uomini, che non ha accesso a queste tecnologie abbandonata alla lotteria della natura e della storia.
Sottolineando il proprio "principio di responsabilità", Jonas ha ammonito a non programmare in anticipo la vita degli esseri umani non nati, sia determinandone il sesso e le caratteristiche individuali, sia clonandoli, sia, infine, intervenendo rischiosamente - pur con le migliori intenzioni - sul patrimonio genetico a livello germinale. Egli rivendica quindi il "diritto di ogni vita umana a trovare la propria strada e a essere una sorpresa per se stessa". In caso contrario, "l'azzardo della vita" viene "defraudato della sua attraente e anche angosciosa apertura. Si è permesso al passato di precorrere il futuro tramite una sua conoscenza non autentica e lo si è fatto nella sua sfera più intima: nella sfera della domanda 'chi sono?'. Questa domanda deve provenire dal segreto. Sì, il segreto, già condizione del domandare e del cercare, è, per chi cerca risposta, persino la condizione della possibilità di diventare forse proprio ciò che poi sarà la risposta. L'artificiale esser noto all'inizio, l'assenza soggettiva del segreto, distrugge la condizione di autentica crescita" (Jonas, 1985). Il caso, che è il nemico dell'antidestino propugnato dalle biotecnologie, viene così rivalutato e difeso contro i suoi detrattori, in quanto la vita umana ha diritto all'ignoranza dell'origine e della fine, ha diritto a essere secondo la lezione di Agostino ripresa da H. Arendt - un initium assoluto: "Il caso, fonte produttrice dell'evoluzione della specie. Il caso: in ogni riproduzione sessuale la garanzia che ogni individuo che nasce sia unico e nessuno sia del tutto identico all'altro. Il caso provvede all'esistenza del sempre nuovo, del mai esistito" (Jonas, 1985).
Partenogenesi e donazione
L'irripetibile unicità dell'individuo umano, il valore della sua autenticità vengono in prospettiva messi in questione da due tecniche, una di più impensabile o remota, l'altra di più probabile o ravvicinata realizzazione. La prima prevede che nascano per partenogenesi artificiale individui di sesso unicamente femminile mediante un procedimento atto a indurre la moltiplicazione cellulare nell'uovo: "Un sottoprodotto curioso, ma tutt'altro che insignificante, del massiccio lavoro in corso sul terreno dell' embriologia umana è rappresentato dalla possibilità della partenogenesi artificiale. La partenogenesi è un processo in virtù del quale l'ovulo umano non fecondato (come quello di altri animali e mammiferi) viene stimolato a svilupparsi senza fecondazione. Il risultato del processo è un individuo di sesso femminile che è equivalente a un clone della madre. Si crede che la partenogenesi avvenga casualmente ma raramente in molte specie; con gli ovuli raccolti per la fecondazione in vitro la moltiplicazione cellulare può essere indotta con il semplice espediente di immergere gli ovuli non fecondati nell'alcool [ ... ] Volendo, un gruppo di donne in possesso delle risorse tecnologiche appropriate potrebbero dar vita a una società esclusivamente femminile ma vitale, ossia capace di riprodursi senza ricorrere agli uomini, nemmeno ne II 'umile ruolo di donatori di sperma o maschi da riproduzione" (Harris, 1992).
L'altra tecnica mira invece a clonare i singoli individui. La clonazione non è altro che un tipo di riproduzione asessuata, frequente nelle piante, e che ora si è riusciti a produrre anche tra gli animali introducendo il nucleo di una cellula nel citoplasma di un uovo enucleato. La famosa pecora Dolly ha mostrato recentemente la fattibilità di questo progetto, che sembrava fantascientifico fino a pochi anni fa, e ha aperto la strada a una già possibile clonazione umana. Ciò ha scatenato paure e fantasie, che rendono verosimile quanto gli scrittori dell'Ottocento e del Novecento avevano semplicemente immaginato sui doppi, le token persons e gli individui fotocopia. Caratteristica dei cloni è di avere il medesimo patrimonio genetico e ciò rappresenta un indubbio vantaggio per un eventuale trapianto di organi senza l'eventualità del rigetto. Già molti oggi pensano con orrore alla possibilità di duplicati di se stessi tenuti in vita come contenitori di pezzi di ricambio organici.
Qualora la clonazione umana si realizzasse (e la probabilità, malgrado ogni condanna morale o sanzione giuridica, appare alta nell 'immediato futuro), si avrebbero ulteriori paradossi, come quelli già rilevati da G. Prodi: "Così una donna può portare dentro o fabbricare la copia del marito morto, ricostruendolo da una sua cellula conservata in azoto liquido, e fado crescere e trovarselo giovane come era un tempo. Se lo sposasse di nuovo, sarebbe incesto? Rapporti giuridici completamente inediti. E il diritto di proprietà? Questioni ereditarie a non fmire, magari a distanza di secoli (la cellula donatrice del nucleo può rimanere al freddo indefinitamente, e permettere la ricostruzione perfetta della copia secoli dopo)" (Prodi, 1987). l filosofi, specie anglosassoni, hanno già disegnato molti di questi scenari, in alcuni dei quali si finisce per non distinguere più l'originale dalla copia (Williams, 1973; Nagel, 1979; Nozick, 1981; Parfit, 1984).
Le biotecnologie modificano, anche in altri campi, le nozioni e le rappresentazioni apparentemente semplici di corpo proprio e di identità personale, considerate sino a oggi abbastanza ovvie, anche se difficili da spiegare e da giustificare razionalmente. Per loro tramite si mostrano nuove e insperate possibilità di migliorare e guarire il proprio corpo, che acquista una dignità intrinseca: non è più prigione dell'anima, né carne corruttibile e scheletro. Esso diventa soggetto e oggetto di nuovi diritti che non sono più soltanto economici o politici, ma che riguardano la vita e la salute: il corpo viene così "giuridificato" (Rodotà, 1995).
Il trapianto degli organi
Le biotecnologie consentono, fra l'altro, di ricevere nel proprio corpo organi di un altro uomo, vivo o morto o di animali modificati geneticamente. Anche lo statuto del morto cambia, e quindi anche il nostro immaginario in relazione a esso, poiché molti cadaveri non vengono più interamente sepolti secondo pii rituali o interamente abbandonati all'azione dissolutrice degli elementi, ma alcune loro parti continuano a vivere in un altro corpo, in una inedita contaminazione del vivo e del morto. Si potrebbe giungere a dire che certi organi vivono due volte, vivono due vite in corpi differenti. Qualcuno ha delle resistenze ad accettare tale contaminazione, ma la necessità, in questo settore, crea la legge (Degos, 1994).
Il problema del trapianto di organi tocca il nucleo della personalità, anche in un altro modo, ossia a livello economico e culturale. Non è un segreto che nel mondo esiste una carenza di organi da trapiantare e che è sorto un vasto e fiorente mercato che li tratta, legale in India e in Turchia. Allo stesso modo è noto che sono sempre i più poveri a vendere gli organi ai più ricchi. In questo senso è stato detto giustamente che non bisogna puntare esclusivamente sulla bioetica di frontiera, sulla mappatura del genoma, sulla terapia genica o sull'invenzione di medicinali avanzati, perché esiste anche una bio etica quotidiana, che riguarda la maggior parte degli uomini, e che tocca la prevenzione e la cura di individui distrutti, nel corso di un'esistenza breve, dalle difficoltà dell'ambiente in cui vivono (Berlinguer, 1989; Berlinguer e Garrafa, 1996). Da qui però l'importanza della distribuzione degli investimenti nell'ambito della cosiddetta Big Science, cioè nelle grandi imprese scientifiche, in quanto, data la limitatezza dei mezzi, investire in un campo significa tralasciarne altri.
L'identità personale viene toccata anche in relazione al problema di quando comincia l'Io in relazione allo sviluppo dell'ovulo fecondato o dell'embrione (v. anche il saggio di A. Palmieri e R. Pardolesi, La brevettabilità del vivente). La rilevanza della questione si spiega, in termini giuridici ed esistenziali, in rapporto alla liceità dell'aborto. L'ovulo fecondato nella fase del concepimento è già persona, a cui è necessario estendere la tutela giuridica, dimodoché l'aborto volutamente procurato è, già in quel momento, equiparabile a una sorta di infanticidio? Oppure - come sostiene N.M. Ford, un sacerdote salesiano - l'essere umano comincia a esistere come individuo dopo il quattordicesimo giorno con il formarsi della stria primitiva, e, da questo momento in poi la vita dell'embrione o del feto può ricevere tutela giuridica (Ford, 1988)? La commissione Warnock ha parlato di preembrione a proposito del prodotto del concepimento prima del quattordicesimo giorno (Warnock, 1985) e, in questo arco cronologico, la questione della tutela giuridica dell' embrione in quanto tale non si pone. In termini più ampi questa tesi viene condivisa anche da M. Mori: "Siamo certi che il preembrione non è persona, perché sappiamo che per alcuni giorni dopo la fecondazione non si ha né l'individualità né la razionalità, e questo è più che sufficiente per risolvere il nostro problema" (Mori, 1995). Ovviamente è arduo parlare di lo nel caso della vita prenatale. Dipende da quando il feto è capace di provare dolore o piacere? Da quando sorge un barlume di coscienza?
In Italia la questione ha sollevato il dibattito sulla revisione dell'articolo l del Codice civile, in modo da spostare l'attribuzione della capacità giuridica dal neonato all'ovulo umano appena fecondato o alla quarta settimana del suo sviluppo prenatale. Molti però osservano che in tal modo si lede la libertà e la responsabilità degli uomini e, soprattutto, delle donne nello stabilire il momento più opportuno per assicurare allo zigote, all'embrione, al feto o al concepito una situazione di armoniosa crescita e di soddisfacente inserimento nella società.
Conclusioni
Attraverso tutte le trasformazioni introdotte dalle biotecnologie l'idea stessa di vita come spontaneità, autopoiesi, viene indebolita. Nello stesso tempo tende ad assottigliarsi l'aura di mistero che circonda tutto ciò che in noi avviene per mantenerci sani e in vita senza il nostro consenso. Se da sempre non siamo completamente padroni del nostro corpo e delle sue funzioni, né mai abbiamo tentato di esserlo (diversamente dal pensiero orientale, in Occidente, sin dai tempi di Aristotele, si ritiene che non si può intervenire sulla cosiddetta anima vegetativa), siamo ora in grado di intervenire in più modi e con efficacia sulla materia vivente. Ne consegue che non soltanto la maternità, come si dice, è assistita, ma tutto il nostro corpo e, in parte, i nostri organi di senso e persino la nostra mente sono assistiti grazie a una quantità di interventi, medicinali e protesi. Da questo punto di vista, quel che più conta non sono le modificazioni introdotte a livello somatico, ma quelle eventuali trasformazioni - di esito incerto - a livello delle cellule germinali. Il controllo del patrimonio genetico espone infatti non soltanto al rischio di manipolazioni, ma anche di impoverimento: al possibile venir meno della ricchezza e della diversità, all'equiparazione di tutti a modelli comuni.
In ogni caso, il problema non sembra essere quello di condannare il diritto degli individui ad avere una vita più sensata attraverso l'uso delle biotecnologie. Si tratta di stabilire limiti e di creare una cultura dei limiti, di evitare una privatizzazione o un interesse privato nelle scoperte scientifiche e di non porre ostacoli, dettati soltanto dalla paura, alla ricerca scientifica, perché non è con la semplice paura o, per dirla con Jonas, con "l'euristica della paura" - che si controllano i processi in atto. La paura resta sempre una cattiva consigliera. Quello che invece serve è focalizzare insieme i vincoli e le possibilità, le conseguenze e le aspettative delle biotecnologie. Ci vuole umiltà per non schierarsi subito in maniera referendaria da una parte o dall'altra su cose che non si sanno, perché l'ignoranza non dà nessun diritto, né a credere né a non credere, e l'etica funzionerà sempre meglio come guida che non come freno.
Ringraziamenti
Ringrazio Armando Massarenti e Maurizio Mori per l'aiuto offertomi nel reperimento di alcune fonti bibliografiche.
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