Bioetica
Poiché non possiede un corpus coerente e strutturato di conoscenze e metodi, la bioetica non è una disciplina in senso proprio. Si tratta di un insieme differenziato di riflessioni, che rimandano a diverse idee e teorie etiche, teologiche, filosofiche, politiche, sociologiche, antropologiche, giuridiche ed economiche, riguardanti le dimensioni morali delle scelte individuali e/o politiche nei campi della ricerca biomedica, della cura delle malattie e della promozione della salute.
I temi della bioetica sono emersi nel contesto della società e della cultura nordamericane durante i decenni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale, quando in seguito agli orrori perpretati dai medici nazisti fu varato il Codice di Norimberga. Tuttavia, né questo né altri proclami internazionali riuscirono a impedire ulteriori ricerche mediche contrarie alla dignità umana e alla libertà individuale. Sotto la spinta dei processi di secolarizzazione, degli scandali provocati dalla scoperta di sperimentazioni mediche immorali e della critica politica del potere medico e della scienza, la comunità medica internazionale si interrogò e intraprese un processo di innovazione dei presupposti etici della propria attività. L'etica medica tradizionale (deontologia medica) non si era dimostrata in grado di prevenire gli abusi sperimentali. Inoltre, i processi di emancipazione economica, sociale e culturale rendevano i pazienti, nei Paesi occidentali, più consapevoli dei propri diritti, e meno disposti ad accettare la tutela paternalista del medico. La conseguenza era la rivendicazione e quindi il riconoscimento, anche per i pazienti, del diritto all'autodeterminazione personale. Il tutto mentre emergevano una serie di conflitti tra i valori morali e le concezioni della vita, della morte e della salute diffusi nella società (condizionati dalle credenze religiose) e le possibilità di intervento su tali processi prospettate da una medicina basata su nuove conoscenze biologiche e nuove tecnologie. In tutti i Paesi occidentali sono quindi sorti organismi decisionali e consultivi deputati ad analizzare le questioni poste di volta in volta sia dalla società nel suo complesso sia dalla ricerca scientifica.
La bioetica sta quindi fronteggiando nuove sfide, con la difficoltà ulteriore di dover ricomporre la progressiva frattura tra scienza e società, che nei Paesi europei è divenuta particolarmente acuta riguardo all'applicazione di alcune tecnologie genetiche. Il ruolo sociale, culturale e politico dei bioeticisti è quindi della massima importanza, trovandosi essi coinvolti non solo in discussioni filosofiche ed epistemologiche, ma dovendo anche contribuire a prendere decisioni di carattere politico: la loro influenza si estende dunque a tutto lo sviluppo culturale e scientifico. La crescente centralità della bioetica nella cultura contemporanea ha tuttavia creato le condizioni per numerosi approcci diversi tra loro, a volte incompatibili. Tra gli elementi di novità va registrato anche un maggior coinvolgimento degli stessi ricercatori, che sempre più spesso sollevano interrogativi relativi all'etica della ricerca biomedica e al suo impatto sulla società.
I principî e i valori che sin dall'antichità governavano la pratica professionale della medicina, impegnavano moralmente il medico ad agire per il bene del paziente, evitando di arrecare danno o andare contro i valori condivisi. Il giuramento di Ippocrate e i codici professionali dei medici hanno rappresentato sino a metà del Novecento gli unici riferimenti etici normativi per il medico. La garanzia per i pazienti della correttezza e benevolenza del medico era, oltre ai codici penali, il controllo esercitato dalla stessa comunità medica attraverso le sanzioni professionali. I codici deontologici prescrivevano comportamenti che, quando la medicina non possedeva rimedi e metodi di ricerca efficaci, funzionavano relativamente bene come guide per una condotta moralmente accettabile. Con l'avvento del metodo sperimentale e l'emergere della figura del medico-ricercatore la medicina cominciò a disporre di un valido metodo di ricerca per migliorare le conoscenze sulla funzionalità normale e patologica dell'organismo e sviluppare trattamenti efficaci. A quel punto le regole stabilite dai codici professionali si rivelarono però inadeguate a evitare la contaminazione ideologica della medicina e a contenere le ansie di conoscenza e di successo dei ricercatori attraverso la sperimentazione sull'uomo.
Anche il superamento di una concezione morale della pratica medica ispirata da una filosofia finalistica e vitalistica delle funzioni biologiche, superamento determinato dal successo degli approcci sperimentali e riduzionistici in grado di spiegare e manipolare i processi fisiologici, contribuì a determinare un 'vuoto morale' intorno alla ricerca medica sull'uomo. Tale situazione venne alla luce nel corso del processo di Norimberga contro i medici nazisti, che avevano effettuato sperimentazioni mortali sui prigionieri nei campi di concentramento. Quei medici giustificavano la loro condotta richiamandosi al dovere di ubbidire alle leggi dello Stato e al principio per cui in condizioni di guerra la ricerca biomedica deve mettere innanzi gli interessi della società rispetto a quelli del singolo. Inoltre, dalle testimonianze dei periti angloamericani nel corso del dibattimento emerse che anche al di fuori della Germania venivano condotte sperimentazioni su soggetti umani contrarie a un'etica rispettosa dei diritti fondamentali della persona. Data la mancanza di leggi e dichiarazioni internazionali che stabilissero quali esperimenti medici sull'uomo fossero ammessi e quali fossero illeciti, il Consiglio degli Stati Uniti per i crimini di guerra propose dieci criteri per giudicare l'ammissibilità della sperimentazione sull'uomo. Tali criteri vennero inclusi nella sentenza emessa dal tribunale il 19 agosto 1947 e sarebbero diventati noti come il Codice di Norimberga. Al primo punto si afferma che "il consenso volontario del soggetto umano è assolutamente essenziale" perché risulti eticamente accettabile qualsiasi sperimentazione sull'uomo.
Nel 1948 la World Medical Association votava la Dichiarazione di Ginevra, che aggiornava in chiave laica i contenuti del giuramento di Ippocrate e impegnava il medico a non utilizzare, neppure se costretto, le sue conoscenze contro le leggi dell'umanità. La World Medical Association ribadiva inoltre, nella Dichiarazione di Helsinki del 1964, il concetto che solo il consenso esplicito poteva giustificare moralmente la ricerca sui soggetti umani e che "nella ricerca medica gli interessi della scienza e quelli della società non devono mai prevalere sul benessere del soggetto".
Né il Codice di Norimberga né la Dichiarazione di Helsinki avevano tuttavia valenza giuridica. In seguito ai gravi problemi causati dal talidomide ‒ farmaco usato da donne in gravidanza che provocava malformazioni fetali ‒ nel 1962 negli Stati Uniti vennero introdotti i trial clinici per testare l'efficacia e la sicurezza dei nuovi farmaci. Tale soluzione accresceva di fatto l'importanza della sperimentazione sull'uomo nella ricerca clinica.
Negli stessi anni, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, furono denunciati numerosi casi di sperimentazione umana contrari all'etica medica del Codice di Norimberga. Ma l'evento che catalizzò la svolta politica, determinando la nascita di una nuova etica della medicina fu il Tuskegee study of untreated syphylis in the negro male. Nel luglio del 1972 venne alla luce che a Tuskegee in Alabama, da quarant'anni era in corso un esperimento: 399 persone di colore affette da sifilide non erano mai state curate ‒ nonostante la disponibilità di antibiotici dopo la fine della Seconda guerra mondiale ‒ allo scopo di studiare in modo completo l'evoluzione naturale dell'infezione sifilitica nell'uomo. A seguito dello scandalo venne creato un comitato che nel rapporto finale giudicava l'esperimento immorale, sia per quanto riguarda il modo in cui era iniziato, sia per come era stato continuato, raccomandandone l'immediata cessazione e il risarcimento delle vittime sopravvissute.
Il dibattito politico scatenato e l'ulteriore scandalo sollevato da scienziati e teologi cattolici a seguito di alcune ricerche condotte su feti umani indusse il Congresso degli Stati Uniti a votare nel 1974 il National research act, che istituiva la National Commission for the Protection of Human Subject of Biomedical and Behavioral Research. La commissione, composta da undici esperti, licenziò il 18 aprile 1979 il Rapporto Belmont, che proponeva quelli che sarebbero diventati i principî di una nuova etica biomedica: il rispetto per le persone, la beneficità e/o non maleficità, e la giustizia.
Nel contesto politico-culturale nordamericano, il rispetto della persona e della sua autonomia decisionale rappresentò la novità su cui si concentrò la riflessione da parte di filosofi, teologi e giuristi per tentare di definire la natura, i temi e i metodi della bioetica. Nel frattempo alcune sentenze riconoscevano la prevalenza del diritto all'autodeterminazione, come nel caso della sentenza Roe versus Wade, in cui la Corte suprema nel 1973 dichiarava che le leggi contro l'aborto violano il diritto costituzionale alla privacy (XIV emendamento), ma soprattutto in quello delle sentenze riguardanti i casi Quinlan e Cruzan. Con il caso Karen Quinlan, la corte del New Jersey riconosceva, nel 1976, il diritto del malato di rifiutare un trattamento terapeutico, mentre nel caso Nancy Cruzan la Corte suprema riconosceva, nel 1990, il diritto di rifiutare nutrizione e alimentazione artificiali. Il rispetto del paziente e dei suoi valori, codificato nelle norme che prevedono il consenso informato per qualsiasi atto medico, è diventato un caposaldo della nuova etica medica o bioetica, ed è stato progressivamente incorporato in tutti i codici deontologici.
La nascita dei comitati etici fu una delle conseguenze più importanti del dibattito bioetico sul consenso. I primi comitati etici, la cui istituzione veniva proposta nella Dichiarazione di Helsinki, furono creati negli anni Sessanta del Novecento a livello di singole istituzioni di ricerca biomedica, quindi a livello ospedaliero. Inizialmente lo scopo dei comitati etici era di salvaguardare i diritti e il benessere dei soggetti della ricerca, focalizzando l'attenzione sul consenso informato, l'accertamento dei rischi e dei benefici prevedibili, e il controllo della riservatezza delle informazioni personali e sanitarie raccolte durante l'indagine clinica. La crescente sensibilizzazione verso i problemi etici della ricerca hanno determinato un progressivo ampliamento delle funzioni, sollevando controversie circa il fatto che dovessero anche giudicare la validità scientifica del protocollo di ricerca. Il funzionamento e le deliberazioni dei comitati dipendono fortemente dalla loro composizione, anche perché la legislazione in materia rimane alquanto vaga. Se i componenti sono dei professionisti del settore medico-sanitario, solitamente orientati a dare maggior valore ai benefici conoscitivi potenziali rispetto ai rischi per gli individui, il tasso di rifiuto di protocolli sperimentali risulterà molto basso. Viceversa, quando prevalgono figure estranee all'ambito medico-sanitario il comitato tende a porre vincoli che rendono spesso impraticabile la ricerca.
Nel frattempo, gli avanzamenti conoscitivi e applicativi della ricerca biomedica, soprattutto per quanto riguardava l'ingegneria genetica e la medicina riproduttiva, alimentavano crescenti ansie nell'opinione pubblica e quindi un'attenzione politica per i temi della bioetica. Dopo la commissione che aveva prodotto il Rapporto Belmont, negli Stati Uniti venne istituita nel 1980 una President's Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research, in funzione fino al 1983. Nel 1996, dopo che vari comitati avevano lavorato su temi specifici, veniva creato il National Bioethics Advisory Board, decaduto nel 2001 e sostituito dal President's Council of Bioethics.
La Francia istituiva il Comitato Nazionale di Bioetica nel 1983, mentre il Consiglio d'Europa invitava, nel 1989, i governi degli Stati membri a creare istanze nazionali e interdisciplinari con lo scopo di informare l'opinione pubblica e le autorità politico-legislative dei progressi scientifici realizzati nell'ambito delle scienze biomediche per indirizzare e controllare le applicazioni, giudicare i risultati e i potenziali rischi dal punto di vista dei sistemi di valori morali condivisi. In Italia, il Comitato Nazionale per la Bioetica venne istituito il 28 marzo 1990, e le sue funzioni riguardavano l'acquisizione di informazioni sugli sviluppi e gli obiettivi della ricerca biomedica; la formulazione di valutazioni e indicazioni per la soluzione a livello giuridico e legislativo di questioni sollevate dai progressi delle conoscenze biomediche e dalle possibili applicazioni in campo clinico; l'elaborazione di proposte per affrontare operativamente le esigenze di controllo sui possibili rischi per l'ambiente e i pazienti derivanti dalla manipolazione dell'informazione genetica. A livello europeo, nel 1991 è stato creato il Group of Advisor on Ethical Implications of Biotechnology, che nel 1998 è stato rinominato European Group on Ethics in Science and New Technology. Dal 1992 nell'ambito del Consiglio d'Europa è operativo il Comitato Direttivo sulla Bioetica, che si occupa soprattutto di sviluppare la riflessione sugli aspetti giuridici dei problemi bioetici in modo da fornire delle coordinate di riferimento ai singoli Stati.
Nel 1983 la World Health Assembly affermava la necessità di tener conto, nei programmi sanitari, degli aspetti etici e delle questioni relative ai valori umani. Il Council for International Organizations of Medical Sciences (CIOMS) presentava quindi, nell'ambito di una conferenza internazionale organizzata ad Atene nel 1983, il Programma di politica della salute, etica e valori umani, per affrontare a livello internazionale e interculturale i problemi morali delle scelte di politica sanitaria. A partire dal 1984 il CIOMS ha orientato la sua attività nel senso di promuovere le capacità delle singole nazioni di riconoscere i problemi morali e i valori umani implicati nella politica sanitaria, di contribuire a diffondere la comprensione del contenuto di valore delle strategie sanitarie dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e di sviluppare approcci transculturali e transdisciplinari ai problemi dell'etica della salute. Di conseguenza ha organizzato numerose conferenze internazionali da cui sono scaturiti documenti che attualmente fanno testo nel campo dell'etica medica.
Il Programma di bioetica dell'UNESCO venne creato nel 1993 per promuovere la riflessione a livello internazionale sulla bioetica in quanto parte integrante di una delle cinque priorità dell'UNESCO, cioè dell'etica della scienza e della tecnologia. Il Programma di bioetica otteneva nel 1997 che la Conferenza generale dell'UNESCO adottasse la Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti umani, come già aveva fatto nel 1998 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite. Nel 2003 seguiva la Dichiarazione internazionale sui dati genetici umani, che stabiliva i criteri etici per raccogliere, elaborare, immagazzinare e utilizzare le informazioni genetiche contenute nei campioni biologici. Il 19 ottobre 2005 la Conferenza generale ha adottato la Dichiarazione universale sulla bioetica e i diritti umani, che afferma la superiorità dei valori della libertà individuale e della dignità umana a fronte delle istanze scientifiche e sociali.
Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento le scienze biomediche registrarono una serie di sviluppi conoscitivi e terapeutici rivoluzionari: le scoperte della biologia molecolare, i progressi nelle tecniche di rianimazione, gli avanzamenti della farmacologia e l'avvento della medicina dei trapianti rendevano concreta la prospettiva di un controllo della vita, della morte e delle malattie da parte della medicina scientifica. Tra gli sviluppi della medicina, i trapianti hanno catalizzato il confronto culturale e morale su un vasto spettro di problematiche: dalle valenze simboliche della morte e dell'integrità del cadavere nel contesto delle credenze religiose, alla questione della definizione e dell'accertamento della morte, con la sostituzione, nel corso degli anni Sessanta, della definizione di 'morte cardio-respiratoria' con quella di 'morte cerebrale'. È quindi emerso il problema di aumentare la disponibilità di organi da trapiantare, rispettando comunque il consenso volontario delle persone. Andavano anche stabilite le condizioni di liceità per la donazione da vivente (per gli organi doppi e il fegato, che rigenera), nonché se sia o meno moralmente accettabile la vendita di organi. Infine, sono arrivate le problematiche etiche sollevate dalla prospettiva di trapiantare nell'uomo organi di altre specie animali (xenotrapianti), previa trasformazione genetica dell'animale donatore per ridurre il rischio di rigetto.
Accanto alle promesse e alle aspettative di un continuo miglioramento della salute umana si manifestavano anche i primi conflitti fra i valori che venivano privilegiati dal medico e dal ricercatore, e quelli diffusi nella società. I progressi conoscitivi e applicativi delle scienze biomediche cominciavano a essere percepiti negativamente da parte dell'opinione pubblica e della cultura umanistica. La pretesa delle scienze biologiche di conoscere e manipolare i meccanismi fondamentali della vita e del comportamento umano veniva vista come un rischio per la libertà e la dignità dell'uomo. Gli stessi protagonisti della ricerca biomedica, consapevoli della crisi nella percezione sociale della scienza, svilupparono una serie di riflessioni sull'etica della conoscenza scientifica, sulla responsabilità del ricercatore e sull'esigenza di promuovere nella società 'nuovi' valori, in grado di indirizzare le scelte politiche nel senso di un'utilizzazione del nuovo sapere per un miglioramento del benessere generale.
Così, il termine bioethics veniva coniato nel 1970 dall'oncologo americano Van Ranslasser Potter proprio per definire un'ipotesi di etica di ispirazione naturalistica, basata sulle conoscenze biologiche e volta a integrare tali conoscenze con i valori del sapere umanistico tradizionale allo scopo di sensibilizzare l'umanità verso i rischi della crescita demografica, dell'inquinamento ambientale e dello sfruttamento indiscriminato delle risorse energetiche. L'anno successivo lo stesso termine veniva utilizzato dal ginecologo cattolico André Hellengers, fondatore del Kennedy Institute of Ethics, con il significato di riflessione sulla liceità della ricerca biomedica a partire dai valori affermati dalle dottrine etiche tradizionali. Con questo significato sarà quindi progressivamente adottato nel panorama culturale internazionale. A un certo punto, la comunità scientifica ha erroneamente inteso la responsabilità dello scienziato nei riguardi della società come il farsi carico di riconoscere e anticipare i rischi potenziali associati allo sviluppo applicativo delle nuove tecnologie. Per esempio, nel 1974 i leader della biologia molecolare negli Stati Uniti hanno chiesto una moratoria sull'uso della tecnologia del DNA ricombinante.
Tuttavia, la conferenza organizzata ad Asilomar nel 1975, con la discussione pubblica dei rischi creati dalla nuova tecnologia, ha finito per alimentare le paure della società per le applicazioni delle biotecnologie. Dopo Asilomar sono state rapidamente definite le norme di sicurezza e i sistemi di controllo che hanno ridotto in modo decisivo i rischi legati ai laboratori di ingegneria genetica. Ma, a partire da quel momento, i ricercatori che sviluppavano e utilizzavano le biotecnologie per modificare geneticamente gli organismi, per sequenziare il genoma umano o per clonare animali biologicamente molto prossimi all'uomo si sono trovati ad affrontare, sempre sulla difensiva, risposte culturali caratterizzate da eccessi emotivi e paure sociali spesso scatenate da fraintendimenti e amplificate dai media.
Per quanto riguarda le implicazioni etiche delle biotecnologie, la maggioranza dei bioeticisti si è inizialmente concentrata soprattutto sui rischi dell'uso medico delle tecnologie biomolecolari, con particolare attenzione alla circolazione e all'utilizzo delle informazioni genetiche, e per le possibili derive eugeniche conseguenti ai progressi nel controllo delle scelte riproduttive e della terapia genica. Per quanto riguarda il versante dell'impatto ecologico e sanitario delle biotecnologie applicate all'industria, all'agricoltura e all'ambiente, le questioni morali sono invece rimaste relativamente ai margini, almeno sino all'inizio degli anni Novanta, quando sono iniziate le campagne politiche contro gli OGM. I bioeticisti sono entrati in campo elaborando le dimensioni etiche dell'approccio precauzionale, con una prevalenza di atteggiamenti critici rispetto all'uso di OGM.
Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta la terapia genica è stato uno dei temi centrali del dibattito bioetico, soprattutto relativamente alla controversia se fossero o meno moralmente accettabili interventi a livello della linea germinale che si trasmetterebbero alle prossime generazioni. In realtà le iniziali promesse della terapia genica non si sono realizzate, e una serie di incidenti legati alla terapia stessa ha proposto come questione ancora più rilevante quella di garantire un efficace controllo sull'affidabilità e i rischi delle terapie sperimentali. Di fatto, la risposta sociale e quindi le aspettative nei riguardi della disponibilità delle biotecnologie è stata del tutto asimmetrica rispetto alle preoccupazioni dei bioeticisti, nel senso che i cittadini, soprattutto in Europa, hanno accolto e utilizzato senza troppi problemi le biotecnologie biomediche, come i test genetici e le tecniche di riproduzione assistita, e rifiutato quelle applicate alla produzione degli alimenti.
Oggi molte aspettative riguardano la possibilità di utilizzare l'informazione genetica per fare scelte riproduttive e per la previsione di rischi clinici. L'avvento delle tecnologie biomolecolari ha potenziato, dalla metà degli anni Settanta, la diagnosi prenatale, rendendo possibile identificare non solo le disfunzioni congenite ma anche la presenza di marcatori genetici associati al rischio di sviluppare patologie cronico-degenerative nell'età adulta. Ne è conseguito un costante incremento della domanda di test genetici, che verosimilmente riflette comunque il bisogno di una informazione completa, per poter prendere le decisioni sulla base delle proprie aspettative e dei propri valori, con maggiori assunzioni di responsabilità e consapevolezza nelle scelte che riguardano la salute individuale e la riproduzione.
È vero che i test genetici non sono intrinsecamente dannosi, ma le informazioni che essi forniscono, soprattutto i test predittivi riguardanti le predisposizioni genetiche verso malattie complesse, sono difficili da interpretare e da gestire a livello psicologico. Inoltre, il loro uso in un contesto medico tende ad ampliare lo spettro di condizioni percepite come malattie e la circolazione dei dati genetici raccolti sia durante gli screening sia nell'ambito di ricerche di farmacogenomica possono generare problemi a livello di rapporti parentali. Allo scopo di governare le dimensioni etiche, psicologiche e sociali collegate ai test genetici è essenziale la consulenza specialistica, fornita da genetisti ma anche da clinici e psicologi, per aiutare le persone a prendere la decisione migliore. Per evitare che l'accesso alle informazioni genetiche da parte di terzi produca discriminazioni sono state emanate nella maggior parte dei Paesi democratici normative che impediscono l'accesso alle informazioni senza il consenso della persona o delle persone interessate, garantendo la riservatezza dei dati.
Il progressivo sviluppo delle tecniche diagnostiche, che consentirà di specificare sempre meglio le mutazioni genetiche associate a specifiche malattie, identificando altresì dei gruppi che per motivi demografici o evolutivi manifestano una più elevata frequenza di alcune mutazioni, renderà necessario estendere questo tipo di test a gruppi particolari di individui.
L'espansione della diagnosi molecolare è stata favorita dall'avanzamento delle tecniche di fecondazione artificiale, che accese già alla fine degli anni Sessanta un dibattito tra teologi, filosofi e scienziati. La nascita, nel 1978, della prima bambina concepita mediante la fertilizzazione in vitro con trasferimento dell'embrione (FIVET) venne accolta con il solito misto di meraviglia e paura. La FIVET produceva inoltre embrioni in eccesso, che potevano diventare oggetto di studi sperimentali, e ciò poneva il problema morale e giuridico dello statuto morale e legale dell'embrione, e creava un facile cortocircuito etico con la questione dell'aborto. Un ulteriore problema è posto dalla fecondazione con donatore eterologo, che di fatto non viene ammessa dalle principali confessioni religiose.
Le procedure sempre più efficaci di manipolazione del processo riproduttivo, la cosiddetta 'pratica dell'utero in affitto' (con il prelievo dell'ovocita, la sua fecondazione in vitro e quindi l'impianto in un'altra donna), la criopreservazione degli embrioni in vista di una loro futura utilizzazione, la diagnosi genetica prima dell'impianto, sono tutte situazioni estremamente controverse. Di fronte alle questioni poste da questo tumultuoso sviluppo, la bioetica arranca.
Peraltro, la possibilità di selezionare degli embrioni grazie alla diagnosi genetica preimpianto rende la riproduzione assistita una pratica frequentemente utilizzata anche per evitare la nascita di bambini affetti da malattie genetiche o per mettere al mondo bambini geneticamente in grado di donare le staminali del cordone ombelicale o del midollo osseo a un fratello in pericolo di vita. Dal 1998 è possibile coltivare cellule staminali embrionali e fetali umane, e gli embrioni soprannumerari crioconservati e non più impiantabili sono diventati importanti per la ricerca biomedica, allo scopo di acquisire conoscenze di base e sviluppare terapie rigenerative. Ciò ha collocato il tema dello statuto morale dell'embrione umano al centro del dibattito bioetico più recente.
Gli atteggiamenti morali e le risposte legislative rispetto agli avanzamenti delle tecniche della fecondazione assistita e alle ricerche su embrioni umani dipendono comunque dai contesti religiosi e politici nazionali. In Gran Bretagna, la Chiesa anglicana ha contribuito a istruire una legislazione che dal 1990, sulla base del rapporto del Committee of Enquiry into Human Fertilization and Embryology, consente l'uso della maggior parte delle tecniche di riproduzione assistita, nonché la ricerca su embrioni umani fino al 14° giorno di sviluppo. Dal 2002 in Gran Bretagna è consentita anche la clonazione di embrioni umani per scopi terapeutici. Diversi Paesi, tra cui Svezia, Singapore, Corea del Sud e Cina consentono la clonazione terapeutica.
Mentre anche la Spagna si appresta ad approvare una legislazione analoga a quella britannica, in Italia e negli Stati Uniti esistono pressioni di diversi movimenti religiosi che hanno posto numerosi ostacoli all'accesso alle tecniche di fecondazione assistita o al finanziamento pubblico di ricerche sulle cellule staminali derivate da embrioni. In Italia i divieti si sono spinti fino a proibire l'uso della riproduzione medicalmente assistita alle coppie non sposate, la crioconservazione degli embrioni, la diagnosi genetica preimpianto e la donazione dei gameti.
Le idee all'origine della bioetica maturarono negli Stati Uniti durante gli anni Sessanta principalmente per opera di alcuni teologi, seguiti da medici e filosofi, che svilupparono un crescente interesse per l'applicazione delle dottrine etiche ai diversi campi dell'attività umana, allo scopo di identificare metodi e principî morali adeguati ai numerosi conflitti che caratterizzavano la complessità dei rapporti sociali.
Dopo un'iniziale serie di tentativi di sviluppare nuove concezioni etiche o di applicare l'etica di matrice religiosa ai problemi emergenti, la riflessione teorica ha esplorato la possibilità di utilizzare le teorie etiche prodotte dalla filosofia morale per creare un quadro di riferimento normativo applicabile ai temi più scottanti. Dalla tradizione delle dottrine morali deontologiche ‒ che assumono l'esistenza di doveri morali assoluti e indipendenti da qualsiasi giudizio sulle conseguenze delle azioni, delle dottrine teleologiche (per cui il giudizio morale sulle azioni dipende dalle conseguenze), e dell'etica della virtù, che fa riferimento a disposizioni o tratti caratteriali che un individuo possiede o cerca di possedere ‒ sono stati derivati dalla National Commission for the Protection of Human Subject of Biomedical and Behavioral Research alcuni principî intorno ai quali si è sviluppato il dibattito bioetico nel mondo anglosassone. Tali principî sono: il principio del rispetto per l'autonomia del paziente, che afferma il dovere di rispettare i suoi desideri, volontà e valori morali; il principio di beneficità, che obbliga a lenire le sofferenze e ad agire per il bene del paziente; il principio di giustizia, che impone al medico e al paziente di tenere conto, nell'esercizio dei loro diritti e doveri, dei criteri sociali che regolano la disponibilità e l'accesso ai servizi sanitari. Da questi principî, cui spesso si aggiunge il principio di non maleficità (il primum non nocere dell'etica medica ippocratica), ovvero dalla loro combinazione e articolazione gerarchica in rapporto agli orientamenti e alle situazioni particolari, si ritiene in genere possibile derivare le scelte ottimali e le procedure adeguate a risolvere i conflitti morali in campo biomedico.
L'intento di differenziare la nuova prospettiva morale da quella dell'etica medica tradizionale ha prodotto l'affermarsi in modo definitivo di un significato del termine 'bioetica' diverso da quello proposto da Van R. Potter e coincidente con quello di André Hellegers, che veniva fissato nella prima edizione dell'Encyclopedia of bioethics pubblicata nel 1978. La bioetica vi è definita come lo studio sistematico della condotta umana nell'area delle scienze della vita e della cura della salute, in quanto tale condotta viene esaminata alla luce dei valori e dei principî morali.
Nel corso degli anni Ottanta cominciavano a manifestarsi alcune critiche al primato del principio del rispetto dell'autonomia nel processo decisionale. Da più parti si faceva osservare che l'obbligo primario del medico e dell'operatore sanitario è quello di guarire il malato o di mantenere in salute una persona: dando la precedenza all'autonomia del paziente, i medici erano costretti a violare i loro principî morali. Un altro argomento contro un'interpretazione troppo radicale del principio di autonomia era avanzato nel nome degli interessi collettivi: mentre da un lato il processo di socializzazione condiziona le scelte individuali e quindi l'idea di valori scelti autonomamente è un'illusione, dall'altro i desideri e le scelte individuali devono comunque conformarsi alle convenzioni sociali. Come conseguenza della crisi economica degli anni Settanta, che metteva in discussione nei Paesi anglosassoni i presupposti etici dell'assistenza sanitaria, il dibattito bioetico si apriva alla riflessione sui problemi delle scelte politiche ed economiche più efficaci per far fronte alla scarsità delle risorse e all'aumento dei costi per la sanità. Il problema dell'autonomia del paziente doveva quindi fare i conti con altri concetti morali come la giustizia sociale, l'onestà, l'eguaglianza, l'efficienza economica e il contenimento dei costi.
A partire dalla metà degli anni Ottanta, mentre i temi della riflessione bioetica si diffondevano in tutti i Paesi occidentali e cresceva la domanda di interventi legislativi e di un'attività di formazione e insegnamento della bioetica, veniva registrato che quest'ultima si stava diffondendo negli ospedali e nelle scuole di medicina come un sistema di procedure decisionali astratte. In sostanza le aspettative e le tendenze apparivano orientate verso la produzione di un'etica preconfezionata che doveva dare risposte semplici e soluzioni veloci ai numerosi problemi morali che i medici e i ricercatori si trovavano ad affrontare. I tentativi di applicare le procedure formali, ovvero gli algoritmi decisionali proposti dai manuali di bioetica, si erano tuttavia rivelati alquanto frustranti: i medici si trovavano di fronte a situazioni sempre diverse, in cui ogni paziente dimostrava differenti gradi di interesse, capacità e bisogno di partecipare al processo decisionale. La reazione delle scuole mediche statunitensi fu di rivalutare, anche a livello di analisi dei problemi morali, i metodi decisionali della pratica clinica, esplorando altresì la possibilità di applicare gli strumenti della ricerca empirica, soprattutto quella epidemiologica, alla valutazione dell'efficacia delle procedure adottate nella soluzione dei conflitti morali e di interessi nella ricerca e nella pratica clinica.
La ricerca empirica in relazione alle scelte cliniche ha consentito così di identificare nuovi problemi etici e di focalizzare l'attenzione su questioni teoriche che nella pratica possono avere conseguenze problematiche e a valutare la capacità dei fornitori di cure mediche di rendere operativi i principî etici. L'immagine che la bioetica aveva assunto del paziente come un astratto operatore decisionale, che per caso è anche un malato, è quindi andata incontro a una radicale revisione. Ogni paziente è un individuo unico e complesso, con la sua storia, le credenze personali, i valori e le aspettative, che possono anche essere modificati dalla malattia.
Nel corso degli anni Novanta alcuni degli artefici dell'istituzionalizzazione della bioetica, che ne avevano definito le diversità sia rispetto all'etica medica tradizionale sia rispetto alle radici semantiche, biologistiche ed ecologiche del termine, cominciavano a recuperarne l'originaria ispirazione. L'etica biomedica veniva ricollegata ai problemi più generali dell'etica ambientale, alla ricerca di un orizzonte speculativo più vasto entro cui definire i valori e i principî da assumere come guida nelle scelte bioetiche. In tal senso, nella seconda edizione dell'Encyclopedia of bioethics (1995) si poteva constatare il prevalere di una bioetica che torna a dare importanza a problemi come lo sviluppo demografico, il degrado ecologico e i rapporti fra l'uomo e gli altri viventi. L'ultima edizione di quest'enciclopedia (2004), riconosce, per la prima volta, il ruolo degli scienziati nel promuovere l'emergere delle istanze bioetiche, benché quasi esclusivamente per quella parte in cui gli scienziati sollevano il problema della responsabilità rispetto alle applicazioni della ricerca. Inoltre, sottolinea l'importanza del pluralismo e del dialogo per uno sviluppo della bioetica a livello di discorso pubblico.
La struttura filosofica della riflessione bioetica si è articolata a partire dalle summenzionate dottrine tradizionali dell'etica normativa, vale a dire le teorie deontologiche, teleologiche e delle virtù. Queste tradizioni della filosofia morale hanno alimentato lo sviluppo di tre diversi ambiti bioetici: l'etica delle politiche sanitarie, che analizza i problemi morali connessi alle decisioni politiche ed economiche che condizionano il diritto dei cittadini alle cure; l'etica medica applicata, che esamina le questioni moralmente controverse, ovvero in cui si tratta di stabilire la liceità e i limiti di applicazione di interventi medici come l'aborto, l'eutanasia, la manipolazione genetica, la fecondazione assistita, ecc.; l'etica clinica, che riguarda le decisioni cliniche a livello di casi singolari. Anche se possono essere distinti per comodità, questi tre ambiti sono comunque interconnessi.
Nell'ambito dell'etica delle politiche sanitarie vengono affrontate le strategie attraverso le quali possono essere orientate le decisioni ai vari livelli operativi. Per esempio, mediante specifiche politiche normative o di allocazione delle risorse, è possibile incentivare o disincentivare l'uso di certe prestazioni sanitarie e di conseguenza si possono condizionare le possibilità di scelta dei medici e dei cittadini.
Le teorie dell'etica medica si distinguono oggi fra quelle che si basano su principî e quelle che non si richiamano a principî. I principî in questione (autonomia, beneficità, non maleficità e giustizia) derivano dall'approccio formulato nel Rapporto Belmont e si differenziano al loro interno a seconda di come vengono interpretati. Essi possono essere considerati il risultato di un contratto sociale tra medici e pazienti volto a costruire un'etica medica normativa; l'enfasi può altresì essere posta sul primato dell'autonomia, come nella concezione liberale e libertaria di Tristam Engelhardt, o ancora sulla beneficità, come propone Edmund Pellegrino.
Rispetto alla tradizione anglosassone, la bioetica europea, soprattutto nei Paesi del Sud dell'Europa, si è connotata soprattutto per la prevalenza di un'impostazione influenzata dalla tradizione della filosofia continentale, per quanto riguarda soprattutto l'impostazione razionalistica. Il bioeticista spagnolo Diego Grazia, prosecutore dell'ideale umanistico-cattolico della medicina propugnato dal medico Pedro Laín Entralgo, in un testo molto influente (La relación médico-paciente. Historia y teoría, 1964), avalla l'idea che si sia sviluppato un approccio 'latino' alla bioetica, che sarebbe poi quello che si richiama alla bioetica personalistica di Elio Sgreccia. La bioetica personalistica considera quali principî di riferimento il valore fondamentale della vita, il principio di libertà, il principio di responsabilità (che implica il consenso informato), il principio di totalità o terapeutico (l'esistenza personale integra gerarchicamente e olisticamente le parti che formano il corpo umano), il principio di socialità e di sussidiarietà (ognuno deve attribuire alla propria vita e a quella altrui un valore anche sociale). Un connotato peculiare della tradizione cosiddetta 'latina' è quello di considerare la bioetica un presidio 'difensivo' per l'uomo, contro le minacce della scienza alla dignità umana.
Tra le etiche mediche applicate non fondate su principî spiccano l'etica comunitaria, per cui dai diritti individuali deriva una forte responsabilità ad andare incontro ai bisogni della comunità; l'etica narrativa, che sottolinea l'importanza della storia biografica personale per accedere a un'adeguata valutazione morale; l'etica femminista, che ha prodotto sia un'etica che sottolinea la maggiore sensibilità delle donne rispetto agli uomini riguardo l'esperienza personale della malattia e dei rapporti terapeutici, sia un'etica del prendersi cura che valorizza le dimensioni emozionali dell'analisi morale e riconosce alle donne una superiorità nel modo in cui affrontano le scelte etiche, sia, infine, un'etica femminista radicale che considera tutte le teorie morali esistenti come prodotte da una società dominata dai maschi e mira a sostituirle con un punto di vista esclusivamente femminista.
L'etica clinica, che affronta le basi metodologiche dei giudizi morali in clinica, fa riferimento a teorie metodologiche o a schemi metodologici. Le teorie metodologiche dell'etica clinica sono la casuistica, in cui le scelte sono state condivise da tutti gli interessati e che suggerisce induttivamente un principio guida esemplare; il pluralismo morale, in cui il tipo di analisi morale può variare a seconda del contesto e dei casi; l'approccio ermeneutico, che considera la stessa pratica medica nel contesto clinico come un modello di bilanciamento valoriale; e le regole dell'etica clinica che i medici utilizzano per interpretare e bilanciare il peso dei principî in relazione ai diversi casi clinici. Gli schemi metodologici sono utilizzati dai medici, soprattutto nell'ambito della formazione etica, in alternativa alle teorie etiche, specificando di volta in volta situazione, valori e concezioni morali in gioco, allo scopo di costruire progressivamente la capacità di catturare la dimensione etica della situazione clinica. Vi è comunque l'esigenza di portare la bioetica al di fuori, in senso disciplinare e geografico, delle dimensioni etico-politiche, economico-sociali e giuridiche in cui sembrano ormai racchiudersi, un po' provincialmente, tutti i problemi della bioetica. Per esempio, rivolgendo più attenzione agli sviluppi degli studi evoluzionistici ed ecologici e lavorando sulla base di un'idea di etica più calata nella realtà delle scienze empiriche della vita.
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