Bioetica
1. La disumanizzazione della medicina
La bioetica è spesso concepita come lo strumento con il quale si può riportare sotto il controllo della morale una medicina che a quel controllo è sfuggita. Chi vede le cose in questo modo tiene presenti soprattutto gli ingenti sviluppi tecnologici della medicina contemporanea e quella che viene di solito chiamata la 'medicalizzazione' di settori sempre più ampi della vita individuale e collettiva: con l'assistenza di un medico si nasce, si sceglie l'alimentazione, si muore. Le regole tradizionali (l'etica professionale, i codici deontologici, l'etica medica) non sono più sufficienti per fronteggiare trasformazioni che hanno mutato i modi di esercizio della medicina e i rapporti tra medico e paziente, ma anche tra medicina e società, e occorre uno strumento nuovo per ricavare dalla morale - intesa come un patrimonio di principî comuni a tutti gli uomini - le regole adatte a far sì che il medico eserciti la propria funzione rispettando i fini generali della società e degli individui. Tuttavia, la bioetica non si presenta come un semplice aggiornamento dei codici deontologici e dell'etica professionale, ma muove dall'idea che la medicina contemporanea, via via che si è esteso l'ambito dei suoi interventi, abbia trasformato l'uomo in un campo d'applicazione di tecniche sofisticate - ma non sollecite del suo benessere effettivo - e in un mezzo per la sperimentazione di medicine e procedure: così essa si sarebbe 'disumanizzata' trasformandosi in una pratica socialmente organizzata per ottenere il maggior benessere collettivo o per promuovere il progresso scientifico e tecnologico a scapito delle persone umane. Questa concezione della bioetica colloca di solito la disumanizzazione della medicina in un più generale processo di disumanizzazione della scienza moderna, un processo nel quale la medicina sarebbe stata coinvolta quando anch'essa è diventata un ramo della scienza naturale, meccanizzandosi e rivelandosi come la forma più radicale di industrializzazione applicata direttamente agli stessi esseri umani.
L'idea che la medicina potesse costituire una minaccia rientrava peraltro in un motivo più generale, costituito dalla rivolta contro la scienza. Alla fine della seconda guerra mondiale, dopo che gli Americani avevano lanciato la bomba atomica contro due città giapponesi, un filosofo come Jaspers additò in quell'evento l'inizio dell"era atomica', caratterizzata dal dominio totale della scienza sulle menti, e della tecnica, generata dalla scienza, sulle azioni degli uomini. Jaspers riprendeva motivi propri di movimenti che avevano sempre coltivato l'ostilità nei confronti delle scienze della natura, soprattutto di quelle fisiche e chimiche, strettamente collegate alla tecnica. Non sempre l'alternativa a quelle forme di sapere fu concepita in modo chiaro e uniforme, ma una delle costanti rimase l'opposizione alla società industriale, ossessionata dall'incremento del benessere materiale, e una delle formule più popolari e ripetuta fu il richiamo ai 'valori umani' che la società industriale aveva smarrito o tradito. Sotto quella formula passavano contenuti talvolta disparati, ma essa aveva il sapore di un richiamo morale contro gli interessi egoistici che si ammantavano di ragioni tecniche.
Spesso si credette di trovare un'alternativa all'interpretazione meccanicistica della natura, attribuita alla fisica, nelle cosiddette 'scienze della vita'. La cultura antipositivistica aveva sostenuto che esistono livelli di realtà più complessi di quelli che la scienza matematica della natura poteva pretendere di rappresentare, e le forme di sapere adatte a quei livelli potevano costituire tipi di conoscenza superiore a quella fisico-matematica. Ma la medicina aveva percorso una strada del tutto diversa. Forte della propria tradizione accademica, si era assicurata una posizione all'interno dell'università moderna subendo il 'miraggio epistemologico' delle scienze meccaniche e matematiche e rifiutando il rapporto con le pratiche popolari e tradizionali, che avrebbero potuto rappresentare un cammino alternativo. Per inseguire quel miraggio essa aveva cercato di 'localizzare' le malattie, cioè di associarle a lesioni anatomiche, per 'riclassificarle', senza tener conto della realtà umana del malato, rinchiuso nello spazio preordinato dell'ospedale. In questo modo, assai prima di diventare una forma attendibile di conoscenza delle patologie umane e di intervento utile su di esse, la medicina aveva tentato di inquadrare la realtà umana 'patologica' separandola da quella 'normale', facendo degli ospedali non più luoghi di soccorso e di carità, ma vere e proprie barriere tra l'umanità ammalata e quella considerata normale. Perciò la medicina moderna, nata dall'applicazione diretta dei 'concetti scientifici' ai comportamenti umani, era stata fin dalle origini la forma più esasperata di dominio tecnologico della società. L'anatomia, strumento indispensabile di quel programma, dava al medico un controllo completo sul corpo del malato, fin dopo la morte, quando l'autopsia avrebbe permesso di cercare la lesione che aveva causato la malattia. Alla fine di questo percorso la medicina era diventata una componente importante della vita individuale e collettiva moderna, al servizio degli organi giudiziari e dell'apparato militare, ispiratrice di misure per la lotta contro le malattie endemiche ed epidemiche e di riforme per migliorare l'igiene pubblica: tutte cose che avevano concorso a fare del medico una 'figura pubblica' e a far considerare la medicina una scienza di 'pubblica utilità'.
Eppure, nonostante il successo della propaganda culturale contro gli orrori della scienza e della tecnica contemporanee, nella medicina occidentale, come si veniva sviluppando dopo la seconda guerra mondiale, il modello rappresentato dalla fisica e dalla chimica si stava pienamente affermando, non solo per il prestigio intellettuale del quale quelle discipline godevano e per la sicurezza e precisione dei loro metodi, ma anche per l'importanza dei risultati conseguiti con le diagnosi strumentali, rese possibili dalle tecniche fondate sulla fisica, e per i successi terapeutici resi possibili dalla chimica. Il vitalismo, alternativo all'interpretazione meccanicistica della natura, sembrava del tutto sconfitto. Il suo ricordo fu affidato agli storici, che rivendicarono alle ottocentesche 'filosofie della vita' una funzione fondamentale nella nascita della biologia moderna, anche se poi quell'ispirazione originaria era andata smarrita. Si trattava non solo della rievocazione storica di un momento iniziale nella storia del sapere biologico, destinato a esser abbandonato, ma di fissare il punto in cui la medicina, acquistando una posizione sicura nella classificazione accademica delle scienze e accettando il modello epistemologico delle scienze fisico-matematiche, aveva 'tralignato' e aveva perso la capacità di cogliere quello che la vita ha di proprio.
2. La nascita della bioetica
Questo insieme di motivi costituisce l'ambiente culturale nel quale nacque il nome stesso di 'bioetica'. Lo propose agli inizi degli anni settanta V. R. Potter (v., 1971), che con quel termine intendeva indicare una nuova etica capace di garantire il rispetto dei 'valori umani', riorientando non soltanto la medicina, ma tutta l'attività di uomini che erano diventati una minaccia, "una specie di cancro" per la natura. A questo aveva condotto la rivoluzione scientifica e industriale, giunta al punto di minacciare gli equilibri naturali. Al contrario di molti profeti dell'antindustrialismo, Potter riteneva però che la morale nuova dovesse essere elaborata dalla scienza, perché l'istinto, che era bastato a guidare il comportamento umano e a mantenerlo entro i limiti di compatibilità con la natura, ormai non era più sufficiente. Ma i nuovi compiti etici non toccavano alle scienze fisico-matematiche, che erano state la causa principale dello squilibrio con la natura: era necessaria una 'rivoluzione biologica' che partisse dalla scienza della vita. Una scienza della vita c'era già, ed era la biologia; ma la stessa biologia tradizionale doveva trasformarsi per affrontare il nuovo compito, accordando le proprie conoscenze con i valori umani. Non solo ne sarebbe derivata la conservazione dell'umanità, ma sarebbe migliorata la stessa 'qualità della vita': in questo senso per Potter la bioetica doveva essere un"etica della vita' che avrebbe ricondotto spontaneamente alla morale una medicina non più succube del sapere scientifico tradizionale.Potter esprimeva anche le apprensioni per le sorti della civiltà occidentale industrializzata, che erano riemerse verso la fine del primo periodo del dopoguerra. Nel corso degli anni sessanta si era ripreso a parlare dell'esplosione demografica come di un pericolo incombente, perché sembravano falliti i tentativi di controllare la crescita della popolazione nel Terzo Mondo, cioè proprio là dove il rapporto tra popolazione e risorse era più svantaggioso. Ma si era anche fatta strada la consapevolezza della ineguale distribuzione delle risorse, che vedeva il mondo industrializzato, in cui si registrava la quota minore della popolazione mondiale, assorbirne la maggior parte. Erano il tipo di vita della società occidentale e il livello dei suoi consumi a costituire una minaccia mondiale: bisognava perciò cambiare il modo di vita, soprattutto della popolazione che viveva nei paesi progrediti, più che invertire il rapporto quantitativo tra le risorse - in particolare quelle alimentari - e la popolazione. Ma fin dall'inizio degli anni settanta si manifestò la tendenza a generalizzare il problema. La tecnologia intensiva dell'industria mondiale tendeva non solo a rendere scarse le risorse direttamente rapportabili con la popolazione, ma rischiava di esaurirle e di rendere insostenibile la sopravvivenza delle tecnologie anche soltanto nei paesi industrializzati. Al rapporto tra popolazione e risorse si sostituiva quello tra lo sviluppo scientifico-tecnologico e l'ambiente. Nel 1972 Barbara Ward e René Dubos presentarono una relazione allarmante alla Conferenza per l'ambiente organizzata dalle Nazioni Unite, sostenendo che entro una generazione la civiltà tecnologica avrebbe raggiunto il punto di rottura. Nello stesso anno veniva fondato il Club di Roma che lanciava la formula dello 'sviluppo zero', ritenendo urgente arrestare la crescita dei paesi industrializzati. La crisi petrolifera del 1973-1974 sarebbe apparsa a molti come il primo segno della scarsezza delle risorse energetiche.
Nello stesso anno in cui Potter proponeva la bioetica come una nuova teoria etica, André Hellegers fondava alla Georgetown University il Centro di riproduzione umana e bioetica dell'Istituto Kennedy. Hellegers, che era un ostetrico, condivideva in parte la prospettiva generale di Potter, ma assegnava alla bioetica soprattutto il compito di affrontare i casi concreti posti dalla pratica medica. Inoltre egli riteneva che le questioni bioetiche non potessero essere risolte all'interno di una prospettiva puramente biologica, anche se intesa con larghezza, e che anzi richiedessero l'intervento di molte competenze disciplinari, sociologiche, teologiche, giuridiche e filosofiche. Hellegers poneva al centro della bioetica i 'casi clinici', nei quali sono essenziali i rapporti tra medico e paziente. Emergeva così un'altra linea che aveva determinato la preistoria della bioetica e dava ragione dei contenuti, almeno parzialmente diversi, presenti nei progetti di Potter e di Hellegers.
Come l'avvento dell'era atomica aveva contribuito a sollevare dubbi sulla scienza tradizionale, sulla compatibilità tra il progresso tecnologico e la natura e sulla sostenibilità dello sviluppo demografico, così le rivelazioni emerse nel processo di Norimberga sulle sperimentazioni mediche condotte su prigionieri dei campi di concentramento tedeschi gettò una luce sinistra su un aspetto apparentemente positivo della medicina moderna, cioè sulla sua preoccupazione di andare in cerca di verifiche sperimentali, un tratto che l'avvicinava agli altri campi del sapere scientifico. Questi fatti potevano suscitare sospetti sulle procedure scientifiche in generale, come già era avvenuto con l'esplosione della bomba atomica, e alimentare la cultura antiscientifica; ma si prestavano anche a considerazioni valide in particolare per la medicina.
Nei campi tedeschi gli esperimenti erano stati condotti su soggetti trattati in modo brutale e imprigionati senza garanzie legali, ma poi emerse che anche altrove prigionieri comuni erano stati usati per sperimentazioni o erano stati indotti ad accettarle. Le sperimentazioni rivelate a Norimberga muovevano senza dubbio da ipotesi scientifiche infondate e da progetti distorti da ideologie; ma l'introduzione nella medicina di controlli scientifici più rigorosi rappresentava invece un significativo progresso, perché induceva a mettere alla prova ipotesi scientifiche e farmaci su numeri significativi di persone; e tuttavia l'interesse per i progressi della conoscenza e i benefici che sarebbero potuti derivarne si mescolavano con la competizione tra scuole mediche e la ricerca di profitto delle industrie farmaceutiche. In questa situazione si poteva essere indotti a sacrificare la libertà e l'interesse degli individui utilizzati per una sperimentazione al progresso del sapere e al beneficio collettivo, quando non al profitto industriale. Sembrava, cioè, che la sperimentazione medica non potesse non coinvolgere le persone, anche a costo di strumentalizzarle. Inoltre era chiaro che leggi, vigenti anche in Germania, non erano bastate a garantire le persone dagli abusi della sperimentazione: e la cosa si sarebbe potuta ripetere se si fosse ammessa la possibilità di privare della protezione delle leggi intere classi di cittadini. Ciò mostrava la necessità di ricorrere a strumenti normativi diversi dalle leggi positive, utilizzabili per giudicare gli stessi ordinamenti politici e capaci di ispirare linee di condotta a medici e organizzazioni sanitarie. Così si faceva di nuovo strada l'idea che esistessero diritti anteriori a quelli sanciti dalle leggi positive, che nessun ordinamento positivo avrebbe potuto sospendere e nessuna condizione particolare dei soggetti avrebbe potuto rendere vani.
Dal codice di Norimberga del 1946 alla Dichiarazione di Ginevra del 1948, dal Codice internazionale di etica medica del 1949 alla Dichiarazione di Helsinki del 1964, sino alle Direttive per la ricerca biomedica del Consiglio delle organizzazioni internazionali delle scienze mediche del 1993, sono state poste le premesse per stabilire le condizioni che la sperimentazione medica deve soddisfare: occorre anzitutto il consenso espresso da persone libere, cioè in grado di opporre un rifiuto effettivo, alle quali sia stata data l'informazione sufficiente per decidere; in nessun caso, comunque, si possono proporre sperimentazioni che non procurino un qualche giovamento alle persone coinvolte ed è necessario escludere qualsiasi discriminazione nella scelta delle persone sulle quali condurle, proteggendo quelle appartenenti alle fasce più deboli della popolazione e perciò più esposte al rischio di strumentalizzazione. Da questa impostazione sono derivate alcune conseguenze importanti per la bioetica: da un lato essa ha trovato le proprie regole in norme e direttive contenute in documenti internazionali, alle quali non era associata la capacità coercitiva e sanzionatoria propria delle leggi vigenti, ma che si potevano invocare anche contro gli ordinamenti positivi; dall'altro si trattava di regole che era difficile applicare direttamente, non solo perché potevano sollevare conflitti con le leggi positive, ma anche perché non era semplice riferirle ai casi concreti che la pratica medica presentava. Per affrontare questi problemi le istituzioni sanitarie crearono appositi organi, i 'comitati etici', che avevano il compito di controllare l'applicazione delle norme contenute nei documenti internazionali, non sempre recepite nelle legislazioni nazionali. I comitati etici introducevano una qualche anomalia negli ordinamenti tradizionali, perché erano organi privi di potere legale che intervenivano con consigli ed eventualmente con sanzioni soltanto morali; oppure essi esercitavano un'azione indiretta, per esempio approvando o disapprovando programmi di ricerca, e così condizionandone l'accettazione o il finanziamento da parte delle istituzioni presso le quali potevano essere realizzati. Ma era difficile intendere i comitati etici come istituzioni destinate a riportare la medicina sotto il controllo della morale: essi nascevano dalla constatazione che le istituzioni morali tradizionali (codici deontologici, ordini professionali, etica medica e così via) non erano più sufficienti, e lo stesso contenuto della morale che i comitati etici dovevano 'applicare' era in gran parte nuovo, generato appunto dalle trasformazioni interne della medicina.
3. La rivolta contro il medico
La disciplina della sperimentazione che prendeva corpo nel dopoguerra incideva direttamente sulla figura del medico, come era venuta delineandosi nella tradizione occidentale. Esso veniva in parte privato, almeno quando si trattava di coinvolgere un soggetto in una sperimentazione, della capacità di decidere se un trattamento medico potesse non nuocere a un paziente o addirittura giovare alla sua salute; nella formazione di tale decisione interveniva infatti un organo come il comitato etico, che era costituito non soltanto da medici, ma anche da giuristi, filosofi, sociologi, psicologi, rappresentanti delle comunità religiose, con differenze da paese a paese nel peso assegnato alla componente propriamente medica dell'organo. Ma alla fine si riconosceva che la decisione doveva essere presa dal soggetto stesso, adeguatamente informato. Se nella valutazione di una ricerca sperimentale poteva intervenire un organo con una componente tecnica, quando si trattava di interventi terapeutici il giudizio del paziente doveva avere un peso maggiore: il 'consenso informato' si avviava in tal modo a diventare una condizione minima alla quale doveva soddisfare qualsiasi pratica medica che non fosse insignificante.
Tra il 1969 e il 1974 negli Stati Uniti si delineò un codice dei diritti del malato, promosso da un'associazione privata, ma poi accettato dall'organizzazione degli ospedali e raccomandato dal Dipartimento federale della sanità a tutte le organizzazioni ospedaliere. In questo caso la regolamentazione doveva disciplinare non procedure relativamente rare, come gli esperimenti clinici, ma la pratica medica ordinaria, limitando perciò l'autonomia del medico nella sua prassi quotidiana. Che tale fenomeno sia avvenuto negli Stati Uniti è facilmente comprensibile, giacché in questo paese - diversamente dagli altri paesi industriali progrediti, quali gli Stati europei - la presenza di strutture mediche pubbliche era assai meno estesa e la sicurezza sanitaria era affidata alle assicurazioni private. Questa circostanza metteva gli enti ospedalieri di fronte all'eventualità, che si faceva sempre più frequente, di contestazioni legali da parte delle società assicuratrici, e li spingeva a coinvolgere i pazienti con la richiesta di un consenso esplicito agli esami e alla terapie, che poteva essere utilizzato anche in caso di controversia giudiziaria.
Al di là degli aspetti giudiziari, il movimento per i diritti del malato portava alla luce un cambiamento profondo nel modo di concepire il rapporto tra medico e paziente. Il medico non poteva più rivendicare una superiorità sul malato appellandosi alla propria competenza professionale e alla presunzione di conoscere 'il bene del malato': si cominciò a dire che quella pretesa derivava da un modo particolare di intendere la posizione del medico, una concezione che fu respinta come 'paternalismo medico', al quale si contrappose una interpretazione 'contrattualistica' del rapporto tra medico e paziente. In realtà, dal punto di vista storico, l'idea che tra medico e paziente intercorresse una forma di contratto, eventualmente implicito, era piuttosto un ritorno all'antico, perché proprio nella società antica il medico non era una figura pubblica, protetta dalle istituzioni o alla quale fosse conferita un'autorità: tra malato e medico intercorreva un rapporto fiduciario e un cittadino poteva difendersi dall'incompetenza o dalla frode del medico solo procedendo privatamente contro di lui. Era stata invece la trasformazione della medicina in scienza di pubblica utilità a conferire al medico il potere di tutelare la salute pubblica e a farne l'agente della società, la quale protegge la vita e il benessere dei suoi membri. In questa prospettiva, la cura della malattia non era più una faccenda privata cui il singolo provvedeva da sé, rivolgendosi al medico di propria iniziativa e seguendone le indicazioni a proprio arbitrio; si poteva sostenere che la popolazione avesse doveri da rispettare per evitare malattie endemiche ed epidemiche, e che la cura della salute fosse un compito dello Stato: così il medico non rispondeva più direttamente al malato suo cliente, ma diventava una specie di pubblico ufficiale, responsabile di fronte all'autorità politica.
Il riconoscimento pubblico della medicina aveva sancito una specie di alleanza intrinseca tra medicina e morale, che era alla base dei codici deontologici e dell'etica professionale. Il rifiuto del primato del medico e la rivendicazione del primato del paziente metteva in dubbio quell'alleanza. In questa prospettiva si arrivava a una vera e propria 'rivolta contro il medico', che giungeva a mettere in dubbio l'attendibilità della sperimentazione in generale e la legittimità di sottoporre a esperimenti degli esseri umani. Infatti la presunzione che si potesse sperimentare direttamente sulle persone senza richiedere il loro consenso si basava sulla convinzione che l'istituzione medica fosse capace di scorgere l'interesse generale e potesse perseguirlo indipendentemente dalle scelte e dal benessere dei singoli, i quali venivano in tal modo considerati come strumenti. Sembrò che questa pretesa dipendesse dal fatto che la medicina, come in generale la scienza moderna, aveva smarrito il senso della giusta gerarchia, facendo degli uomini un mezzo per affermare se stessa anziché mettersi al servizio delle loro esigenze e delle loro sofferenze. Si arrivava così agli stessi risultati ai quali, per altre vie, si era giunti nella rivolta contro la scienza, partendo dal rifiuto dell'energia atomica e in generale della società industriale.
La difesa del malato poteva essere presentata come un modo per ricondurre la medicina sotto il controllo della morale; ma questo ritorno poteva essere inteso in modi diversi. Il tradizionalismo religioso aveva visto nella disumanizzazione della medicina uno degli aspetti della modernità e del suo distacco dall'etica cristiana; molti cattolici pensarono perciò che si dovesse prestare ascolto all'insegnamento della Chiesa, che era attivamente intervenuta su temi di etica medica. Ma ci fu anche un'ala del protestantesimo che oppose un rifiuto intransigente alla medicina contemporanea e che per certi versi fu anche più radicale della Chiesa cattolica perché, essendo priva della mediazione ecclesiastica, dava un'interpretazione fondamentalistica delle Sacre Scritture. Reazioni religiose di questo tipo erano comprensibili perché la rivendicazione dei diritti del malato aveva condotto a risultati sorprendenti. Una volta negato che la medicina di per sé tendesse alla realizzazione di fini moralmente buoni, e sollevato anzi il sospetto che le norme implicite incorporate nel suo sapere fossero il prodotto di credenze e pregiudizi, si riconosceva al paziente il diritto di far valere le proprie scelte personali, considerate più importanti delle valutazioni dettate al medico dall'eredità culturale della sua professione; si poteva anzi sperare che le scelte dei pazienti fossero l'espressione di un patrimonio di credenze e regole comuni a tutti gli uomini. Ma proprio la difesa dei diritti del malato doveva mostrare che le cose non stavano così. In nome dei propri diritti il malato poteva pretendere che i medici lo assistessero nella contraccezione, nell'interruzione della gravidanza, nella cura della sterilità, nella pratica dell'eutanasia: tutte cose che la morale cristiana tradizionale, soprattutto quella cattolica, era venuta escludendo. Così erano ora contestati quelli che erano sempre sembrati i limiti etici dell'intervento medico e la stessa funzione del medico risultava assai più complicata.
I problemi connessi al consenso mettevano in luce il fatto che il rapporto tra medico e paziente poteva andare ben al di là dell'ambito della malattia e della sua cura, perché contraccezione, aborto o eutanasia non potevano essere intesi come terapie in senso stretto. Si era spesso rimproverato alla medicina moderna di essere stata complice nel difendere come 'normali' comportamenti e modi d'essere che erano considerati socialmente raccomandabili, confinando nel dominio del 'patologico' tutto ciò che era socialmente inaccettabile: e ora si chiedeva al medico di estendere il proprio intervento oltre il terreno della malattia. Un altro aspetto sorprendente di questa svolta era costituito dal fatto che si chiedeva al medico di intervenire in domini un tempo vietati o abbandonati alla medicina popolare e non dotta nello stesso momento in cui si lamentava che la medicina avesse invaso troppi campi della vita umana e che la società moderna fosse troppo medicalizzata.
4. Autonomia, beneficenza e aborto
Il riconoscimento che tutti gli atti medici dovessero presupporre il consenso informato del paziente condusse a ravvisare nel 'principio di autonomia' uno dei fondamenti della bioetica. In base a esso, al paziente spettano le decisioni importanti sugli atti diagnostici e terapeutici che lo riguardano e sugli aspetti delle indagini mediche o delle sperimentazioni nelle quali è coinvolto. Il rifiuto del paternalismo medico poteva però mettere in ombra le competenze in base alle quali il medico può pur sempre prospettare condotte alternative rilevanti per la salute del paziente e sottoporgli previsioni attendibili: infatti, se l'iniziativa spettasse interamente al paziente, questi potrebbe scegliere procedure tali da essere dannose. Il principio di autonomia andrebbe perciò integrato con il 'principio di beneficenza' (o di 'beneficialità'), secondo il quale si devono praticare condotte sanitarie che possano giovare a chi le subisce. Nella sua forma debole quel principio poteva essere inteso come 'principio di non maleficenza', secondo il quale non si possono adottare procedure mediche che arrechino danno a chi le subisce. Fino a che lo si fosse applicato alla sperimentazione, il principio di beneficenza poteva essere in perfetto accordo con quello di autonomia, perché il giudice ultimo di ciò che avrebbe potuto essere benefico o malefico era pur sempre l'interessato, eventualmente dopo aver ricevuto adeguata informazione. Ma non appena si fosse riconosciuta l'autonomia del paziente, o comunque di chi si rivolge a un medico, potevano sorgere non solo contrasti tra le richieste rivolte a un medico e l'idea di beneficio strettamente sanitario propria del medico, ma anche conflitti più vasti, perché le richieste, andando al di là delle prestazioni mediche tradizionalmente intese, potevano essere incompatibili con la morale tradizionale eventualmente condivisa dal medico.
La questione dell"aborto' mise in luce queste difficoltà. La proibizione dell'aborto faceva parte dei codici deontologici tradizionali: si riteneva che il medico, un 'agente della vita', che combatte contro la malattia e fa di tutto per salvare la vita dei propri pazienti, non potesse praticarlo. La tutela della vita era cioè un contenuto del patto implicito tra medico e malato, per cui il secondo ripone la propria fiducia nel primo. Inoltre in nessun caso il medico poteva mettere la propria competenza al servizio di chi volesse danneggiare qualcun altro, tanto meno sopprimerlo. L'aborto sembrava contravvenire a tutte queste prescrizioni, perché consisteva nella soppressione di una vita nei suoi stadi iniziali e perché, per giunta, era la soppressione della vita di un essere diverso dalla donna che chiedeva l'interruzione della gravidanza. Se la madre avesse richiesto l'aborto per tutelare la propria salute, anche psicologica, si sarebbe profilato un conflitto tra il suo interesse e la tutela della vita di un nascituro; ma anche se essa avesse richiesto l'aborto per tutelare la salute e il benessere del nascituro, evitando la nascita di un bambino affetto da gravi malattie o non desiderato, si sarebbe pur sempre dovuto riconoscere il potere di una persona di decidere della vita di un'altra. Il giudizio sulla beneficenza era dunque, almeno parzialmente, un giudizio implicitamente delegato. In questa situazione la figura del medico recuperava il proprio rilievo, perché a lui spettava prevedere lo stato di salute del nascituro, e a lui le regolamentazioni dell'aborto potevano assegnare la valutazione delle circostanze che inducevano una donna a richiedere l'interruzione della gravidanza. La questione dell'aborto introduceva un'importante novità nell'esercizio della professione medica, perché si riconosceva al medico il diritto di rifiutare una prestazione non per motivi tecnici, ma per motivi morali: formulando l"obiezione di coscienza' un medico poteva dichiararsi non disposto a praticare l'interruzione della gravidanza. La crisi del paternalismo medico aveva così l'effetto di indebolire la certezza delle prestazioni mediche: il principio di autonomia aveva esaltato non soltanto la soggettività del paziente, ma anche quella del medico.
L'introduzione dell'aborto tra gli interventi medici leciti costituiva il caso forse più vistoso dell'estensione della medicina al di là dell'ambito della malattia, in un certo senso di una più ampia medicalizzazione della vita umana. Ora non solo il corso normale della gravidanza e il parto diventavano materia di cura medica ed erano sottratti alle forme superstiti di medicina popolare praticata dalle ostetriche e in modo diffuso nelle famiglie, ma perfino la decisione se accettare o respingere la gravidanza diventava materia di consultazione con un medico. Questa trasformazione era solo in parte dovuta a sviluppi tecnici interni alla medicina: certamente influivano i modi nei quali l'aborto poteva essere praticato, modi che lo rendevano un intervento meno pericoloso e meno traumatico per la donna. Ma non era questo il punto essenziale: contava molto di più il nuovo atteggiamento con il quale le donne affrontavano la sessualità e la procreazione, sulla cui formazione aveva agito la preparazione di anticoncezionali chimici, i quali avevano offerto alle donne la possibilità effettiva di separare la sessualità dalla procreazione e di condurre una vita sessuale più libera e serena, contribuendo così alla loro parità con gli uomini. Ma a mettere l'aborto in una nuova luce aveva contribuito un altro sviluppo tecnico della medicina: la possibilità di diagnosticare precocemente gravi infermità a carico del nascituro. In questo caso l'aborto poteva essere considerato quasi un'indicazione terapeutica, per giunta di tipo preventivo, cioè rispondente a un indirizzo medico che dopo la seconda guerra mondiale era considerato in modo sempre più favorevole, e pertanto lo sviluppo tecnico della medicina, anziché configurarsi come una minaccia per l'uomo, poteva apparire come un aiuto potente a combattere malattie contro le quali non esistevano terapie. Questa considerazione non valeva per chi vedeva nell'aborto un attentato alla vita umana o addirittura a una persona umana, e credeva che andassero accettate anche le sofferenze di un bambino ammalato, perché la vita è comunque un dono divino irrinunciabile. Dopo la guerra molte legislazioni introdussero l'aborto, e la cosa suscitò ampie resistenze da parte dei gruppi religiosi, che vi videro, appunto, una violazione del principio dell'intangibilità della vita. Coloro che ritengono l'aborto lecito a certe condizioni sostengono, invece, che non va tutelata la vita a ogni costo, ma devono essere prese in considerazione le condizioni che la rendono accettabile e soprattutto dignitosa, meritevole di essere vissuta. In questo senso l'aborto può servire a proteggere dignità e benessere della donna in attesa di un bambino, ma anche ad assicurare condizioni iniziali favorevoli al nascituro, e può evitare che nasca un individuo destinato a sofferenze sicure e a un'esistenza non dignitosa. I due modi di risolvere la questione della liceità dell'aborto vengono spesso ricondotti a due principî contrapposti, quello della 'sacralità della vita' e quello della 'qualità della vita': secondo il primo ogni forma di vita umana va salvaguardata, in base al secondo vanno assicurate condizioni di esistenza accettabili.
5. L'eutanasia
La medicina contemporanea ha visto crescere la possibilità di mantenere in vita pazienti per i quali non ci sono prospettive ragionevoli di guarigione o di remissione significativa dello stato di infermità in cui si trovano. In casi come questi, la continuazione delle cure può provocare ai pazienti stessi sofferenze inutili, può privarli di una forma dignitosa di sopravvivenza, può causare dolore ai familiari e sottoporre l'organizzazione sanitaria a spese inutili, sottraendo risorse a malati suscettibili di guarigione o di miglioramenti importanti. Esiti di questo genere hanno mostrato che nella medicina contemporanea si è prodotta una dissociazione tra il semplice prolungamento della vita e la cura vera e propria. Gli interventi adatti a mantenere alcune funzioni vitali minacciate erano stati escogitati per fronteggiare fasi acute di una malattia e aprire la possibilità di applicare procedure capaci di ripristinare lo stato di salute o comunque di indurre miglioramenti notevoli. Ma poteva accadere che al mantenimento della semplice sopravvivenza non seguisse la remissione della malattia.
Le questioni etiche e giuridiche poste da questa evoluzione della medicina furono sollevate negli Stati Uniti con i casi Quinlan, Brophy, Cruzan, Wanglie, in Inghilterra con i casi Bland e 'J', in Canada con il caso Nancy B. In quelle occasioni fu chiesto ai giudici di autorizzare la sospensione o il non avviamento di terapie di puro sostegno alla sopravvivenza. La novità era costituita dal fatto che il giudice doveva intervenire non per controllare che il medico avesse fatto tutto il possibile per salvare una vita, ma per autorizzarlo a non prolungare una vita o addirittura per interromperla. Le decisioni giudiziarie presero per base prevalentemente l'interesse bene inteso del paziente o quella che sarebbe stata la sua scelta se avesse potuto esercitarla. Perciò in seguito a quei casi si delineò un indirizzo che mirava a porre nelle mani del paziente la decisione che si era chiesta al giudice. Poiché il paziente subisce trattamenti che molto spesso lo fanno sopravvivere anche dopo che non è più in grado di decidere, si escogitarono documenti nei quali i cittadini potessero dare, in qualsiasi momento e prima di entrare nella fase terminale della vita, istruzioni sulle terapie alle quali desideravano essere, ma soprattutto 'non' essere, sottoposti: queste iniziative si proponevano di assicurare il diritto di autodeterminazione del cittadino e di rimettere a lui, e non al medico o al giudice, la scelta del modo di morire. Esse ebbero successo soprattutto negli Stati Uniti, e nel 1976 lo Stato della California riconobbe per legge il diritto di rifiutare anticipatamente terapie atte a prolungare la vita in situazioni estreme. Dopo che anche altri Stati della federazione americana ebbero assunto provvedimenti analoghi, nel 1991 una legge federale riconobbe la possibilità di sottoscrivere una 'direttiva anticipata', chiamata anche 'testamento di vita', nella quale una persona può indicare i modi nei quali vuole essere curata se dovesse entrare nella fase terminale di una malattia incurabile e dovesse perdere la capacità di esercitare le proprie scelte. Una misura del genere fu introdotta in Danimarca nel 1992; anche in Inghilterra l'associazione dei medici ha invitato i propri associati a tener conto delle indicazioni dei pazienti.
Una volta rimesso nelle mani del singolo il potere di prendere decisioni sui trattamenti relativi alla fase terminale della vita, la materia sulla quale si poteva esercitare la scelta si allargava, perché si poteva chiedere non soltanto di non essere sottoposti a cure inefficaci, ma anche di non ricevere trattamenti, come l'aiuto alla respirazione, l'idratazione e la nutrizione, che potevano prolungare la vita. Emergeva così la possibilità che le direttive anticipate introducessero l"eutanasia', la cui legittimazione era stata proposta in Inghilterra, senza successo, fin dal 1969. Per questo i movimenti cattolici presentarono modelli propri di direttive anticipate, nei quali si chiedeva che la vita non fosse prolungata in modo innaturale e irragionevole; ma in questi documenti acquistarono un peso sempre maggiore il rifiuto esplicito dell'eutanasia e la menzione di mezzi ordinari di assistenza, come la nutrizione.
Negli Stati Uniti le direttive anticipate si sono diffuse e vengono richieste sempre più spesso dalle istituzioni sanitarie, ma anche nei paesi nei quali esse non hanno avuto riconoscimenti legali si è sviluppata un'ampia letteratura bioetica in proposito; sono stati proposti modelli nei quali si chiede esplicitamente che non solo non vengano applicate misure straordinarie, ma che non si proceda neppure all'idratazione e alla nutrizione, se non nella misura richiesta per evitare sofferenze, che non si curino malattie secondarie e che si proceda anche a interventi palliativi che possano abbreviare la sopravvivenza. È così emersa la componente eutanasica delle direttive anticipate di ispirazione laica: per contrastare questo indirizzo, pur accogliendone alcune istanze, i gruppi religiosi, soprattutto cattolici, hanno insistito sulla nozione di 'accanimento terapeutico', inteso come l'adozione di terapie eccessive, che possono provocare sofferenze o ledere la dignità del paziente, ma che non hanno nessuna possibilità di farlo guarire o di migliorare significativamente la sua condizione. La nozione di accanimento terapeutico ha avuto in bioetica il medesimo successo che incontrò a suo tempo quella di consenso informato, perché tutti gli studiosi ritengono che non si debbano produrre artificialmente condizioni di sofferenza gratuita e che si debba evitare fin dove è possibile l'eventualità di dover interrompere processi vitali mantenuti dal semplice intervento medico. L'assistenza dei sanitari nella scelta di strategie terapeutiche capaci di evitare l'accanimento terapeutico, oltre che nell'applicazione del consenso informato, ha costituito uno dei compiti ai quali sono stati più spesso chiamati i comitati etici.
Al di là dei contenuti delle direttive anticipate e della possibilità di intenderle come semplici modi per evitare l'accanimento terapeutico, ciò che ha suscitato l'opposizione dei gruppi religiosi, particolarmente di quelli cattolici, è stata la pretesa - che esse sembrano presupporre - della completa disponibilità della vita da parte dell'uomo e della conseguente possibilità di abbreviarne la durata 'naturale'. Le etiche religiose, inoltre, introducono nella durata naturale della vita umana anche le eventuali sofferenze della fase terminale, imputando all'egoismo e all'edonismo delle morali secolarizzate il rifiuto del dolore e dell'idea stessa di morte. Sul versante opposto si è osservato che fino a quando il paziente è in grado di prendere decisioni può in qualche modo influire sul modo di morire, dando un assenso controllato alle proposte dei medici e perfino sottraendosi del tutto alle loro cure. Tutto ciò rientra nella sua morale privata, e dal punto di vista bioetico le sue scelte non possono non essere favorite, se si pratica il consenso informato.
Così come nel caso dell'aborto, anche quando il cittadino chiede al medico di agire al suo posto nel momento in cui non è più in grado di decidere, abbreviandogli la vita e risparmiandogli sofferenze con l'omissione di interventi, muta qualcosa nel modo tradizionale di concepire la funzione del medico e la bioetica: anziché riportare la medicina sotto il controllo della morale tradizionale, si prospetta infatti un mutamento nelle regole fondamentali della professione medica e della stessa etica in generale. L'eutanasia per omissione, di solito considerata eutanasia 'passiva', si colloca tra la precauzione di non praticare l'accanimento terapeutico, respinto da tutte le dottrine bioetiche e non imposto dalle leggi positive, e l'omissione di soccorso, che è invece legalmente perseguibile. Riconosciuta nella medicina prescientifica, essa è stata di fatto praticata fino a quando la medicina si è svolta nell'ambito familiare, mentre è diventata più difficile nel momento in cui l'assistenza medica è stata quasi del tutto assorbita dagli ospedali. Da quando poi il medico è diventato una figura pubblica, la discussione esplicita sull'eutanasia si è praticamente interrotta, e solo l'avvento delle tecniche di mantenimento in vita della medicina contemporanea l'ha riproposta. I documenti americani per le direttive anticipate e l'ampia indipendenza delle corti anglosassoni lasciano uno spazio abbastanza largo all'eutanasia passiva, che probabilmente anche nei tribunali continentali europei viene di fatto giudicata con minore severità, nonostante che in molte legislazioni positive essa sia espressamente vietata.
Ma in bioetica la discussione sull'eutanasia è oggi molto vivace e anche organi pubblici come le istituzioni europee l'hanno presa in considerazione, il più delle volte per respingerla, ma talvolta assumendo anche posizioni favorevoli a essa. E ciò è accaduto perfino per l'eutanasia 'attiva', cioè per l'assistenza medica fornita ad un ammalato che voglia non solo semplicemente tralasciare le cure, ma porre termine alla propria vita per non continuare a sopportare sofferenze, oppure che non voglia affrontare una fase terminale della vita prevedibilmente dolorosa o poco dignitosa. Attualmente l'eutanasia ha ricevuto riconoscimento legale soltanto in Olanda e in uno Stato australiano. Nel primo caso è stata non pienamente legalizzata, ma semplicemente dichiarata non punibile entro certi limiti, mentre nel secondo ha ricevuto più ampio riconoscimento.
I problemi bioetici connessi con l'eutanasia riguardano in primo luogo le modalità nelle quali debba essere espressa la decisione di scegliere l'eutanasia e nelle quali essa potrebbe essere eventualmente revocata. In secondo luogo l'eutanasia non deve essere considerata come una politica sanitaria, in qualche modo suggerita alla comunità: perché essa possa essere una scelta effettiva, bisogna che la società offra un'alternativa seria, ossia la possibilità concreta di essere assistiti nella fase terminale della vita. Tanto la cura nell'evitare l'accanimento terapeutico come la possibilità di scegliere l'eutanasia possono rispondere a quello che in bioetica è spesso indicato come 'principio di giustizia', in base al quale le risorse sanitarie devono essere amministrate tenendo anche conto degli impieghi migliori possibili: infatti, per assicurare la sopravvivenza di un malato terminale in condizioni disperate si corre il rischio di sottrarre mezzi a malati che possono guarire o che possono fruire di una migliore qualità di vita. Ma, se associato al principio di autonomia e a quello di beneficialità, il principio di giustizia è subordinato al rispetto rigoroso delle scelte dei pazienti.
6. Le risorse biologiche
Il 'concetto di morte' (secondo alcuni autori il metodo di accertamento della morte) ha subito negli ultimi anni una trasformazione. Tradizionalmente la morte veniva accertata constatando l'arresto delle funzioni nervose, cardiocircolatorie e respiratorie, ma l'avvento delle tecniche di rianimazione ha reso problematico tale criterio, permettendo di ripristinare e mantenere le funzioni cardiaca e respiratoria anche in presenza di lesioni cerebrali irreversibili; nel frattempo è anche diventato possibile rilevare l'attività elettrica cerebrale mediante elettroencefalografia. Perciò si può dichiarare la morte di persone sottoposte a trattamenti rianimatori quando misure elettroencefalografiche, associate all'accertamento dell'impossibilità di respirazione spontanea, dimostrano che tutte le funzioni dell'encefalo sono estinte e che l'individuo non è più in grado di mantenere da sé le proprie funzioni vitali. Si è accolta così in molte legislazioni quella che è stata chiamata 'morte cerebrale'.
Le nuove norme sull'accertamento della morte sono state introdotte non solo perché è divenuto possibile disporre di elettroencefalografia e di più efficaci tecniche di rianimazione, ma anche perché si è affermata la chirurgia dei trapianti. Per poter prelevare dai cadaveri organi adatti a essere trapiantati occorre che essi siano mantenuti in buone condizioni e che, nello stesso tempo, il donatore sia dichiarato morto. Solo la possibilità di accertare la fine dell'attività cerebrale capace di assicurare il mantenimento autonomo delle funzioni vitali permette di considerare morta una persona il cui cuore sia mantenuto in funzione e il cui sangue continui a essere ossigenato con interventi dall'esterno. Le esigenze della chirurgia dei trapianti hanno indotto i legislatori ad aggiornare abbastanza rapidamente le leggi e molte confessioni religiose a mutare la concezione della morte e le forme di rispetto riservate ai cadaveri.
Tutto ciò è stato spesso giustificato invocando la solidarietà, in nome della quale un vivente mette a disposizione di altri uomini ammalati parti del proprio corpo, come se si trattasse di un dono di sé. In realtà la chirurgia dei trapianti ha aperto la strada alla considerazione di tutto il corpo umano come un deposito di 'risorse biologiche' che, come tutte le risorse, soprattutto se molto rare, possono diventare oggetto di commercio. Tutte le legislazioni hanno disciplinato la pratica dei trapianti vietando il commercio degli organi e la vendita di parti del proprio corpo; essendo in tal modo stata abolita la distribuzione affidata al mercato, si è posto il problema di stabilire regolamentazioni alternative, come la compilazione di liste di attesa per gli aspiranti a un trapianto elaborate in base a diversi criteri, quali il rapporto territoriale tra donatori e aspiranti, età e stato di salute degli aspiranti e così via. Si tratta di un altro caso di applicazione del principio di giustizia, che dovrebbe orientare l'allocazione di risorse sanitarie scarse, cercando di conciliare le libere scelte dei cittadini, la tutela del loro benessere, l'efficacia degli interventi e la solidarietà verso gli ammalati e le persone socialmente più deboli.
Il tipo di medicina che affianca agli strumenti chirurgici e chimici tradizionali l'uso di tessuti, organi o prodotti di organismi biologici ha reso possibili non soltanto i trapianti ma anche la cura della sterilità e dell'infertilità attraverso la 'fecondazione assistita'. L'intervento consiste o nell'introdurre spermatozoi direttamente nel corpo della donna, oppure nell'introdurvi un ovocita fecondato o un embrione ottenuto dall'unione, effettuata in laboratorio, di un ovocita con uno spermatozoo. La fecondazione artificiale di una donna sposata con seme del marito, senza la produzione di embrioni, è una semplice cura della sterilità e soddisfa al precetto di alcune etiche religiose che, come quella cattolica, incoraggiano la procreazione. Semmai la pratica consueta di prelevare il seme maschile per masturbazione ha sollevato obiezioni dal punto di vista religioso; ma la masturbazione può essere sostituita con prelievo diretto, non del tutto gradevole, del liquido seminale o con la sua raccolta, un po' macchinosa, in seguito a un rapporto sessuale. Obiezioni etiche più radicali ha sollevato il fatto che nella fecondazione assistita si producano più embrioni di quelli che vengono impiantati, embrioni che non sempre possono essere utilizzati per nuovi impianti e che perciò vanno conservati fino al momento in cui non saranno più adoperabili o dovranno essere soppressi, interrompendo la crioconservazione. Coloro che contestano la liceità della fecondazione assistita in quanto rende necessaria la produzione di embrioni soprannumerari sostengono che l'embrione è inviolabile al pari di un individuo umano dopo la nascita, che la sua soppressione equivale alla soppressione di un essere umano e perciò è equiparabile a un omicidio. Infatti l'embrione ha fin dall'inizio il patrimonio genetico proprio della persona che ne deriverà e si sviluppa in modo continuo e coordinato, indipendentemente dai genitori. Contro queste posizioni è stato osservato che il patrimonio genetico non è condizione sufficiente per parlare di individualità umana o di personalità: infatti nei primi giorni della sua vita l'embrione è un insieme di cellule totipotenti, da ciascuna delle quali si può sviluppare un individuo completo, e fino al quattordicesimo giorno da un unico embrione possono svilupparsi gemelli monozigoti, cioè con il medesimo patrimonio genetico. Se perciò si vuole accordare alla vita dell'embrione la stessa tutela che spetta a un individuo umano dopo la nascita, bisogna considerare 'preembrione' il prodotto del concepimento fino al quattordicesimo giorno, e il pre-embrione va trattato con rispetto, ma non con le stesse garanzie che spettano a un individuo umano in senso proprio. Altri hanno spostato più avanti, alla comparsa della placca neurale o addirittura alla capacità di avere una vita propria indipendente da quella della madre, il termine dopo il quale un embrione può essere considerato un individuo in senso pieno. La considerazione dell'embrione come un'entità diversa da un individuo umano allarga di molto la possibilità di procedere a fecondazioni assistite con impianto di embrione, ma permette anche di utilizzare per la sperimentazione gli embrioni non destinati a impianto.Le discussioni sullo 'statuto dell'embrione' sono state influenzate da quelle sull'aborto perché, se si considera l'embrione inviolabile fin dal primo momento, l'aborto, che può essere praticato anche quando lo sviluppo embrionale è assai progredito, sarà sicuramente illecito. Ma le riserve morali nei confronti della fecondazione assistita non derivano solo dal trattamento dell'embrione che essa implica: la donna che riceve seme o un embrione fecondato con quel seme da un donatore sconosciuto, con il quale non pertanto ha avuto rapporti sessuali né ha legami affettivi, o che accoglie nel proprio utero, anche se in menopausa, un embrione geneticamente non suo né di un suo eventuale partner, può completare la separazione tra sessualità e procreazione già avviata con le pratiche contraccettive. Anche in questo caso, come in quello dell'aborto, l'assistenza medica esce dai limiti della patologia in senso stretto, perché l'intervento del medico sarebbe richiesto non per curare una malattia, ma per realizzare un nuovo modo di procreazione. Molti moralisti vedono perciò nella fecondazione assistita una minaccia per la famiglia monogamica, considerata negli ordinamenti occidentali come l'ambiente più favorevole per l'educazione dei figli. Da questo punto di vista la procreazione da parte di una donna sola priverebbe un figlio della presenza del padre, e la possibilità di inseminare una donna con un seme di donatore diverso dal suo compagno ('fecondazione eterologa', mentre è 'omologa' quella con seme del compagno della donna) creerebbe una distinzione tra padre legale e padre genetico, che potrebbe danneggiare il figlio. In queste circostanze la generazione procede più dalla volontà di avere un figlio che da un interesse autentico per il figlio stesso: perciò per quei moralisti la legge positiva dovrebbe disciplinare in senso restrittivo la fecondazione eterologa per tutelare i diritti dei nascituri.
Altri vedono invece in questi impieghi della medicina nel campo della procreazione l'apertura di nuove prospettive etiche. Già la disciplina dell'aborto introdotta in molte legislazioni e raccomandata da diverse dottrine bioetiche partiva da una nuova concezione della maternità, nella quale emergeva l'importanza del processo di accettazione del nascituro da parte della madre e si riconosceva il rapporto asimmetrico del padre e della madre nei confronti del figlio. La fecondazione assistita, al di là delle percentuali di successo, del numero di casi nei quali è praticata e delle prospettive di perfezionamento, in linea di principio porta alla luce l'ampia libertà di scelta del modo di generare che spetta alla donna e attenua la necessità di coprire con la finzione giuridica della famiglia monogamica la realtà effettiva della procreazione, che già l'equiparazione sotto molti rispetti della famiglia legale con la famiglia di fatto, accolta in molte legislazioni positive, aveva fatto affiorare.
Ma anche per un altro verso la fecondazione assistita, come già l'aborto, mostra quanto la medicina contemporanea possa indurre una revisione delle idee morali. Anche prima della scoperta della struttura molecolare del genoma si sapeva che alcune malattie sono trasmesse geneticamente, cioè dipendono esclusivamente dal patrimonio genetico dei genitori: ciò significa che era possibile sapere, ripercorrendo la loro storia familiare, se determinati individui sani potevano generare figli ammalati e se questa possibilità dipendeva solo da loro o dall'unione con altri individui sani portatori di quella malattia. Sulla base di queste conoscenze si potevano formulare nuove regole di procreazione, per evitare di generare individui affetti da malattie genetiche incurabili. Quelle regole suggerivano di evitare matrimoni tra portatori di una malattia genetica o la procreazione all'interno di coppie di portatori. Da quando è diventato possibile accertare tempestivamente, con esami condotti sull'embrione e sul feto (diagnosi prenatali), se il nascituro sia affetto da qualche malattia genetica, l'aborto può essere considerato come un'indicazione di medicina preventiva, per evitare la nascita di un individuo ammalato o destinato ad ammalarsi. Da quando, nel 1953, è stata scoperta la struttura del DNA, le conoscenze genetiche sono significativamente progredite, tanto che nel 1989 è stato possibile varare il Progetto Genoma Umano, per l'identificazione dei geni che costituiscono il genoma umano. Le conoscenze attuali dei tratti del genoma responsabili di alcune malattie genetiche sono assai più approfondite di un tempo, ed è ragionevole supporre che vi sarà un'accelerazione significativa in questo campo. Diventerà così più facile sapere se si è portatori di malattie genetiche e acquisterà un fondamento più solido l'idea della 'procreazione responsabile'.
Nel frattempo si sono però delineate alternative alla rinuncia alla procreazione per coppie o individui che corrano il rischio di trasmettere malattie genetiche. Da un lato la fecondazione assistita permette di scegliere uno o entrambi i gameti da donatori che non siano portatori, dall'altro si stanno svolgendo ricerche sulla terapia genica, che mira a ripristinare la funzione normale di un gene difettoso agendo su sequenze interne al gene o esterne a esso (che però agiscono sul gene), oppure a stimolare attività biologiche (per esempio le difese cellulari) mediante geni che non hanno relazioni con il gene eventualmente responsabile di una disfunzione. Se già la medicina che si avvale di mezzi meccanici, chirurgici o chimici ha indotto a ripensare molte idee dell'etica tradizionale, riproponendo l'opportunità di aborto ed eutanasia, uno stimolo - forse ancora più forte - in questo senso è venuto dalla medicina che fa leva sulle conoscenze genetiche o che si ripropone addirittura di intervenire nei processi genetici. Ma anche l'avvento della prospettiva genetica ha prodotto contrapposizioni all'interno della bioetica perché, mentre coloro che le affidano il compito di riportare la medicina sotto il controllo della morale tradizionale ritengono illecito ricorrere all'aborto, alla fecondazione eterologa o addirittura alle pratiche contraccettive per evitare la trasmissione di una malattia genetica, altri vedono nella genetica l'occasione per correggere le regole che indirizzano i rapporti tra i sessi e tra genitori e nascituri.
Anche se non manca chi sospetta propositi eugenetici nelle condotte che si propongono di esercitare una scelta sul patrimonio genetico dei nascituri - soprattutto se esse utilizzano metodi considerati moralmente illeciti, come l'aborto o la fecondazione eterologa - non ci sono obiezioni etiche alla terapia genica, se essa si limita a intervenire sulle cellule somatiche di un individuo, cioè su determinati tessuti o organi, a puri scopi terapeutici, lasciando però intatto il patrimonio genetico che quell'individuo può trasmettere ai discendenti. Un giudizio più cauto viene di solito espresso sull'idea di interventi somatici indirizzati non a curare malattie, ma a migliorare prestazioni normali o a dotare individui di caratteri o prestazioni nuove. La terapia genica in senso proprio è del resto appena agli inizi; essa deve ancora affrontare seri problemi scientifici e tecnici e mostrare la sua piena affidabilità dal punto di vista medico. Ancora più remota è la disponibilità di interventi genici somatici di tipo non terapeutico. Comunque, c'è chi di fronte a questa eventualità esprime riserve etiche, perché si tratterebbe di interventi che lederebbero la libertà degli individui o che potrebbero creare forme inaccettabili di disuguaglianza. Ma al di là di queste riserve sarebbe difficile stabilire quali prestazioni potenziare o aggiungere e in quali casi.
La stessa terapia genica in senso proprio è giudicata in modo diverso quando si prende in considerazione l'idea di interventi non sulla linea somatica, ma su quella germinale, cioè sui gameti, sull'uovo fecondato o sulle cellule totipotenti dell'embrione. Rispetto alla prima, che viene considerata una forma di eugenetica 'negativa', questo tipo di terapia genica agirebbe su tutte le cellule dell'individuo e sull'eredità che questo può trasmettere ai propri discendenti. Si tratterebbe pertanto di una forma di eugenetica 'positiva', che potrebbe condurre all'eliminazione di un tratto di patrimonio genetico responsabile di una malattia ereditaria. La differenza tra le due forme di eugenetica è importante, perché la prima produce modificazioni nel solo individuo sul quale si interviene e non nei suoi discendenti, mentre le modificazioni prodotte dalla seconda si ripercuotono sulla discendenza. Gli interventi di eugenetica positiva producono conseguenze a vasto raggio, che agiscono sul patrimonio genetico della specie umana e rischiano di farne scomparire definitivamente alcuni tratti. Finché si tratta di parti del genoma alle quali sono collegate malattie genetiche si potrebbe pensare che la loro cancellazione risulterebbe in un vantaggio per la specie, ma un progetto del genere potrebbe rivelarsi pericoloso, almeno fino a quando non si conosceranno tutte le funzioni di quei tratti nell'adattamento della specie all'ambiente. Inoltre, almeno per il momento, la modificazione del genoma non è perfettamente controllabile, e può avere conseguenze imprevedibili sia sugli individui sui quali è praticata, sia sulla popolazione. Ciò che rende sconsigliabile l'eugenetica positiva è la sproporzione tra le modificazioni irreversibili e di lunga durata che essa può produrre e la conoscenza delle conseguenze che quelle modificazioni possono provocare nei rapporti tra la specie e l'ambiente. Anche le scelte procreative fondate sulla conoscenza del patrimonio genetico possono avere conseguenze sull'evoluzione della specie, come in fondo qualsiasi intervento terapeutico: ma si tratta di processi a tempi lunghi, come sono quelli degli adattamenti evolutivi, sui quali è difficile esercitare un controllo proprio perché i loro tempi sono di un ordine diverso da quello delle previsioni disponibili. Ovviamente, queste considerazioni valgono a maggior ragione per gli interventi germinali che si proponessero di migliorare caratteri fisici o prestazioni o di introdurne di nuove.
Per il momento non sono disponibili metodi di intervento sulle cellule germinali, né sono seriamente allo studio programmi di eugenetica positiva, anche se esistono banche del seme che garantiscono qualità 'positive' dei donatori (statura, tratti somatici, prestazioni, ecc.). In realtà costituisce un problema stabilire quali informazioni su un donatore devono essere disponibili, perché è pur vero che nella scelta di un partner agiscono elementi che di solito sono disapprovati quando si tratta di scegliere un donatore. In questi casi si preferisce attenersi a considerazioni strettamente sanitarie, così come ci si limita ad accertamenti sanitari quando si conducono esami su un embrione o un feto, anche per evitare che essi diventino strumenti per mettere in atto la discriminazione tra i sessi, molto praticata in alcune culture. Ma in generale i problemi posti dalla genetica sono costituiti dalla quantità e profondità delle informazioni che mette, e soprattutto metterà, a disposizione. Esse interagiscono infatti con le strutture di una società che deve ancora imparare a convivere con esse.Un problema di questo tipo è costituito dalla brevettabilità dei prodotti biologici ottenuti con i metodi messi a punto dalla genetica. Gli organi giudiziari statunitensi hanno stabilito che anche le entità viventi possono essere brevettate, purché non esistano già in natura e siano prodotte dall'ingegno. In base a questo criterio sono state brevettate specie vegetali non esistenti in natura, ma anche animali transgenici, cioè ottenuti inserendo nel loro genoma geni appartenenti al genoma di un animale di specie diversa. Negli Stati Uniti sono stati concessi brevetti anche per microrganismi e organismi pluricellulari nei quali sia stato inserito materiale genetico umano. Qualcosa del genere è accaduto anche in Europa, ma qui la questione rimane ancora aperta.
Un altro problema sorge dal diritto alla riservatezza delle informazioni genetiche. Esse potrebbero infatti essere usate in modo discriminatorio, per esempio per rifiutare contratti assicurativi a persone destinate o geneticamente esposte ad ammalarsi, oppure per assegnare posti di lavoro. Ma i dati genetici potrebbero anche essere richiesti alla persona interessata da chi volesse sceglierla come partner nella generazione oppure da altri membri del suo gruppo familiare per avere informazioni utili per la ricostruzione del patrimonio genetico. Infine, la stessa persona interessata potrebbe non voler avere informazioni inquietanti sul proprio patrimonio genetico, per non vivere nella certezza di ammalarsi entro un periodo di tempo prevedibile: si potrebbe così parlare di un diritto all'ignoranza, simmetricamente contrario al diritto a sapere che di solito è uno dei contenuti importanti della cittadinanza. Questi problemi potrebbero dipendere almeno in parte dallo stato attuale della genetica, che presenta e forse continuerà a presentare nel futuro una forte sproporzione tra le conoscenze e le tecniche di intervento che mette a disposizione. Ma anche dove la sproporzione tra conoscenze e mezzi di intervento potrebbe essere temporanea, come nella terapia genica, essa per il momento esiste, e tanto decisioni etiche quanto misure legislative devono tenerne conto. Tuttavia, proprio per il fatto che la genetica non è ancora un campo scientificamente maturo, le prese di posizione morali come i provvedimenti politici o amministrativi dovrebbero avere carattere temporaneo, per non impedire lo sviluppo di una disciplina importante e per poter prontamente adeguare le istituzioni di una società alle nozioni e alle tecniche delle quali può disporre.
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