Bioetica
Premessa
Come è ricordato da Chiara Tripodina, nella voce Bioetica del recente Dizionario alfabetico (Diritti umani. Cultura dei diritti e dignità della persona nell’epoca della globalizzazione, 1° vol., 2007, pp. 87-90) dedicato ai diritti umani, la terminologia bioethics si deve al cancerologo statunitense Van Rensselaer Potter, che la impiegò nel 1970 in due articoli e, l’anno seguente, nella monografia Bioethics, bridge to the future. Nel 1978, l’Encyclopedia of bioethics (ed. S.G. Post) definisce la nuova disciplina come «lo studio sistematico della condotta umana nell’ambito della scienza della vita e della cura della salute, in quanto tale condotta sia esaminata alla luce dei valori e dei principi morali» (ad vocem).
Malgrado la recente nascita, questa area di conoscenze si è rapidamente arricchita di una letteratura sterminata, cui contribuiscono saperi umanistici e scientifici, caratterizzati da profili controversistici.
Uno sguardo al passato
Per intendere le ragioni del carattere problematico delle conoscenze e delle riflessioni che si inscrivono nell’ambito della bioetica, occorre ricordare il contesto dei grandi eventi e processi culturali della metà del Novecento.
La Seconda guerra mondiale si chiudeva con e mercé la scoperta dell’energia atomica. Si entrava così in un’era nuova della civilizzazione fondata sul dominio assoluto della scienza e della tecnica. Il costo del secondo conflitto mondiale, in cui erano periti 52 milioni di esseri umani, aveva posto il problema di una difesa della popolazione del pianeta non più nei termini tradizionali della politica di potenza tra gli Stati, ma in quelli dei diritti individuali. La tradizione di più lunga durata storica della civiltà occidentale conosceva non diritti individuali, ma poteri e azioni giudiziarie dei soli capi degli aggregati familiari. Una lenta evoluzione portò a modellare sul pater familias romano il soggetto giuridico europeo. E tuttavia perché la sua vita, la sua libertà personale, la sua proprietà fossero salvaguardate dinanzi al sovrano politico, fu necessario immaginare il passaggio dallo stato di Natura allo stato di società, in modo che i diritti dell’uomo si armassero delle garanzie dei diritti del cittadino.
La dichiarazione francese del 1789 fa nascere, nell’endiadi homme-citoyen, dei diritti individuali costituzionali, il cui nucleo forte è ancora, come nella tradizione romana, la proprietà. Uno dei padri del Codice Napoleone, Jean-Etienne Portalis (1746-1807), dirà, definendo il nuovo ordine dello Stato liberale, «al Sovrano l’impero, al cittadino la proprietà». Nel Novecento, i cittadini furono discriminati dalle loro stesse patrie, per ragioni di partito e di razza, privati dei loro diritti, imprigionati, deportati, fisicamente annientati. Ecco perché al termine dell’immane eccidio, nel 1948, l’Assemblea dell’ONU approvava la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, laboriosamente preparata da una Commissione presieduta da Eleanor Roosevelt, operante dal giugno 1946 al dicembre 1948. Nel discorso di conclusione, il 9 di quel dicembre, René Cassin (1887-1976) – il giurista francese che accanto alla Roosevelt e insieme al cinese Peng-chun Chang e al libanese Charles Malik fu uno dei coautori del testo – affermò l’impossibilità di una concordia sui principi tra popoli connotati da diverse civiltà e culture. La stessa definizione di human beings, dotati di ragione e di coscienza, poneva il problema di chi fosse all’origine di quella dotazione, se la Natura o Dio. E se si fosse indugiato a discuterne, forse, come opinò Jacques Maritain, la Dichiarazione non avrebbe visto la luce. In verità quei diritti individuali, separati da ogni cittadinanza politica, da ogni appartenenza a popolo o razza, riscoprivano la persona umana e la sua dignità sovrana, ponendola al centro della civiltà del mondo. Non erano che piccole parole, come le definì Giuseppe Capograssi (1889-1956), il nostro maggiore filosofo del diritto, in una nota del 1950, ma tali che nessuno oserà più pronunziare parole opposte. Nella circolazione, anche indipendente, di comuni pensieri all’indomani della fine della guerra, la Costituzione della Germania Federale, del 1949, si apriva con il precetto: «La dignità dell’uomo è intangibile». Era storicamente la risposta del popolo tedesco alla vicenda del nazismo, che aveva calpestato più di ogni altro Stato la persona umana.
I diritti umani, prima ancora di diventare diritto positivo (attraverso patti internazionali, quali quelli economici e sociali del 1961, o convenzioni come quella europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, fino alla Carta di Nizza dei diritti fondamentali dei cittadini europei del 2000, entrata in vigore nel 2003, raccolta nella parte seconda del Trattato costituzionale europeo del 2004, ma non andato in vigore perché bocciato dai referendum francese e olandese), sono dunque una profonda riflessione sulla disumanizzazione della politica nell’intero teatro del mondo. Da essa emergeva la persona umana nella sua essenziale nudità di essere vivente, e dunque la vita umana, colta nell’immediata evidenza sperimentale della scienza biologica, diventava oltre la politica e il diritto, il ponte verso il futuro, come nel suggestivo titolo del libro di Potter. La scienza biologica avrebbe dovuto funzionare in qualità di fondamento di una nuova etica della vita. Il disegno ambizioso di riequilibrare il rapporto dell’uomo con la Natura, compromesso dal dominio della tecnica, come lo avevano preparato e prodotto le scienze fisiche e matematiche, inducendo una sequenza non più discontinua tra uomo, animale e macchina, fu ricondotto, rispetto a quello dell’oncologo Potter, alla valutazione etica dei casi clinici a opera dell’ostetrico olandese André Hellegers (1926-1979), fondatore presso la George University di Washington del Centro di riproduzione umana e bioetica dell’Istituto Kennedy. Cominciarono così a nascere comitati etici costituiti non solo da scienziati, ma da teologi, filosofi, giuristi. La bioetica allo stato nascente si dava come reazione alla disumanizzazione della medicina.
Bioetica versus disumanizzazione della medicina
Due eventi davano conto all’opinione pubblica mondiale del mutamento dell’arte medica fin dall’antichità ippocratica guidata dal principio primum non nocere, o principio di beneficio o di non nocumento. Al processo di Norimberga contro i criminali nazisti risultò la pratica medica di sperimentazione umana a danno di deportati politici e anche di condannati per reati comuni. Nella sentenza del tribunale del 19 agosto 1947 fu introdotto un decalogo cui dovrebbe attenersi ogni sperimentazione sull’uomo, noto come Codice di Norimberga. Nel luglio del 1972 si scoprì che in Alabama 399 cittadini di colore ammalati di sifilide erano da quarant’anni lasciati senza cure per l’osservazione sperimentale del decorso del processo patologico. Questo esperimento fu dichiarato immorale da un apposito comitato. Nel 1974 il Congresso degli Stati Uniti votò il National research act, istitutivo di una commissione nazionale per la protezione del soggetto umano da sperimentazione e trattamenti biomedici, che nel 1979 pubblicò il cosiddetto Rapporto Belmont, considerato il documento di svolta per una nuova etica medica. Il primato, non foss’altro cronologico, degli Stati Uniti nella nascita di iniziative biomediche, trova spiegazione in molteplici fattori. La dominanza della medicina privata, anziché come in Europa di quella pubblica, lo stato avanzato della ricerca biomedica e della biotecnologia, gli interessi di mercato dietro la ricerca e l’applicazione clinica, il contenzioso assicurativo e la giurisprudenza delle Corti, più aderente a singoli episodi, come è proprio di sistemi di case law, e non di diritto legiferato, quale il civil law dell’Europa continentale, il pluralismo di opzioni filosofiche e religiose, sensibile ai rischi di una omologazione tecnoscientifica, sono alcuni dei profili elencabili in argomento.
Il living will e il tema della morte
Significativo, fin dagli anni Settanta del Novecento, il ricorso al living will, una sorta di testamento che non ha disposizioni prevalentemente patrimoniali per il tempo successivo alla morte del testatore, ma direttive circa i trattamenti sanitari di fine vita, quando il disponente non sarà più in piena coscienza.
Una simile pratica sociale si giustifica come atto di sfiducia, se non di rivolta verso i medici, in una fase di tale progresso delle conoscenze e degli strumenti clinici, farmacologici e meccanici, da procrastinare il momento della morte. Con il living will il tema della morte diventa uno dei nodi più aspri della riflessione bioetica. La pratica sociale sarebbe stata impari nella sfida contro le decisioni dei medici che hanno in cura il malato terminale, se non ne fosse stata richiesta la legalizzazione. Questa è avvenuta, negli Stati Uniti, progressivamente, nel 1976 nello Stato di California, poi in altri Stati, e finalmente, nel 1991, con una legge federale. Con i processi di secolarizzazione, il mondo occidentale sembra mutare atteggiamento dinnanzi alla morte; Philippe Ariès (1914-1984) per la mentalità collettiva, Jacques Choron (1904-1972) per la storia del pensiero, ci offrono grandi affreschi del passato remoto e recente sulle diverse rappresentazioni della morte in Occidente. Oggi, dalle disposizioni impartite con il living will, appare non tanto temuta la morte, data la diffusa incredulità nell’aldilà, quanto l’artificiale dilazione della vita mediante provvedimenti farmacologici e meccanici, responsabili di sofferenze o in ogni caso di un’esistenza indegna. Paradossalmente il progresso delle tecniche salvavita e di rianimazione accentua la diffidenza verso le decisioni unilaterali dei medici nei confronti di pazienti non più in condizione di esprimere la propria volontà.
In presenza di una volontà manifestata nel documento del living will, che risale a tempi in cui il disponente non era ancora malato, o quando non erano ancora prevedibili risorse terapeutiche successivamente intervenute, il medico dovrà sentirsi vincolato o del tutto libero nelle sue decisioni? Se nel documento è indicato un fiduciario, che sostituisce il proprio discernimento attuale a quello non più attuale del disponente, le decisioni saranno condivise. In mancanza del fiduciario, potranno essere ascoltati i familiari o comunque chi abbia conoscenza biografica del paziente.
La Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina
Come sempre accade nelle gravi questioni bioetiche, si prospettano soluzioni desiderabili, ma utopiche, come quella della cosiddetta alleanza terapeutica tra medico e paziente, tale da indurre empatia tra le due figure. Ma una tale empatia tra quanti individui può costituirsi, soprattutto nelle moltitudini che non possono permettersi lungo l’itinerario della vita la compagnia di un medico, o quando la medicalizzazione della morte si verifica in quei grandi apparati burocratizzati che sono gli ospedali? Il 4 aprile 1997, a Oviedo, gli Stati membri del Consiglio d’Europa, la più antica organizzazione internazionale del continente da non confondersi con l’Unione Europea, firmavano una Convenzione per la protezione dei diritti dell’uomo e la dignità dell’essere umano riguardo alle applicazioni della biologia e della medicina. Il titolo va ricordato per intero e preferito alla forma brachiloga Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, che tende ad attenuare l’ispirazione di tutela dei diritti dell’essere umano minacciato da improprie pratiche della ricerca e delle applicazioni cliniche che insorgono nel rapido sviluppo della biomedicina. Quella Convenzione formula all’art. 2 il principio rubricato come Primato dell’essere umano con questo tenore: «L’interesse e il bene dell’essere umano debbono prevalere sul solo interesse della società o della scienza». Dunque è qui codificato il rimedio con cui la razionalità occidentale tende a superare la psicosi collettiva dilagata all’indomani della conclusione del secondo conflitto mondiale dinanzi alla sovranità della tecnica. Vi sono ben delineati i tre attori, l’essere umano, la società, la scienza. Nonché la gerarchia dei rispettivi interessi. Il bene dell’essere umano non può mai essere subordinato al solo interesse della società o al solo interesse della scienza.
La situazione internazionale
Ma chi può conoscere e decidere del bene dell’individuo, se non l’individuo stesso? Questa è la domanda capitale della bioetica, variamente declinata lungo l’intera traiettoria della vita, dai suoi inizi alla sua conclusione. La società può avere sue ragioni generali e collettive, ma non può sovrapporle al bene individuale, annientandolo. La scienza ha il suo patrimonio di conoscenze, che l’individuo non può possedere, e quand’anche sa che può realizzare il bene di una persona, non può intervenire sul suo corpo, se non ottenendone il consenso libero e informato. Questa è la regola generale formulata all’art. 5 della Convenzione di Oviedo. Quando le condizioni del malato terminale non consentono che egli possa essere destinatario di informazioni sul suo stato e sugli esiti di trattamenti sanitari disponibili, allora giova conoscere desideri eventualmente espressi in precedenza. La Convenzione di Oviedo, all’art. 9, allude alla pratica del living will con questa formulazione: «I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione». Le due lingue, francese e inglese, in cui è redatto il testo ufficiale della Convenzione, adoperano i termini souhaits e wishes, dunque non più che desideri. Già la loro traduzione in direttive anticipate è una forzatura, che rende incongruo il predicato «saranno tenuti in considerazione». Nulla dunque di vincolante per il medico. E tuttavia, se così fosse, ci troveremmo dinanzi a una patente violazione del principio di autodeterminazione del malato, che soffre eccezione, nella stessa Convenzione, solo all’art. 8, sulle situazioni d’urgenza: «Allorquando in ragione di una situazione d’urgenza, il consenso appropriato non può essere ottenuto, si potrà procedere immediatamente a qualsiasi intervento medico indispensabile per il beneficio della salute della persona interessata».
L’accoglimento tenue dell’istanza del living will da parte della Convenzione di Oviedo ha sollecitato alcuni Stati a interventi più incisivi. Tra il 2005 e il 2006, in Francia con una legge e un decreto è stato novellato il Code de la santé publique, che oggi presenta una disciplina organica dei diritti del malato e alla fine della vita. Gli atti di prevenzione, d’indagine e cura non devono essere perseguiti con ostinazione irragionevole e quando appaiano inutili, sproporzionati o con alcun altro effetto che il mantenimento in vita artificiale del moribondo, debbono essere sospesi o non iniziati, in modo tale che il medico stesso possa salvaguardare la dignità del malato e alleviarne la sofferenza con cure palliative. Il medico potrà ricorrere a un trattamento antidolorifico, anche se questo comporti l’effetto secondario di abbreviare la vita, purché ne sia informato il paziente o il suo fiduciario o la famiglia o un parente. Sono dettate norme per la redazione di direttive anticipate in un documento scritto, con durata triennale rinnovabile, e contenuto modificabile o revocabile, da conservarsi nella scheda del medico curante o nella cartella clinica, che possono contenere rinvio a direttive conservate invece dal paziente o dal fiduciario o da un familiare o parente. Del pari è regolata la procedura collegiale, medico o équipe medica, fiduciario, familiari, per le decisioni conclusive da assumere nella vicenda.
In Germania, malgrado il dibattito nell’opinione pubblica e in Parlamento auspichi un pronto intervento legislativo, il testamento biologico ha ottenuto riconoscimento di atto vincolante per una sentenza della Corte suprema federale del 17 marzo 2003, in base al diritto di autodeterminazione dell’individuo, implicito nell’art. 1, 1° co. del Grundgesetz, il quale dichiara intangibile la dignità dell’uomo. Nei Paesi Bassi la ;l. 12 apr. 2001 regola il controllo di interruzione della vita su richiesta e assistenza al suicidio. Ferme restando le figure criminose dell’incitamento al suicidio, di suicidio assistito e di omicidio del consenziente, non è punibile il medico per aver provocato la morte del malato consenziente, qualora abbia applicato sei criteri di accuratezza, consistenti nella convinzione che si trattava di richiesta spontanea e ben ponderata del malato, in condizioni di sofferenza insopportabile senza prospettive di miglioramento, nell’avere informato il paziente della situazione e degli esiti, nella convinzione che nessun’altra soluzione ragionevole fosse apprezzabile, nell’avere chiesto il parere di almeno un altro medico indipendente, che avesse visitato il paziente e steso un parere scritto, e di avere eseguito con scrupolosi criteri medici l’interruzione della vita o l’assistenza al suicidio.
Nel Regno Unito il living will non è previsto legalmente, ma riconosciuto dalla giurisprudenza, a partire dal caso di Tony Bland, deciso nel 1993, relativo all’interruzione di alimentazione artificiale e della somministrazione di antibiotici a un paziente in stato vegetativo permanente. Tre giudici della Divisional court su cinque riconobbero che il medico ebbe l’intenzione di uccidere, ma l’intero collegio escluse responsabilità penali e civili, dal momento che i medici non sono obbligati a somministrare trattamenti inutili, a seguito di valutazione scientifica della condizione del paziente. Quando il paziente non è in grado di accettare o di rifiutare un trattamento e non abbia predisposto un documento con dichiarazioni anticipate di volontà, i medici decidono dopo averne discusso con i familiari. In base ai codici deontologici i medici inglesi sono tenuti a richiedere una decisione giudiziaria preventiva. È da ricordare la decisione del caso ‘miss B’, dell’High court di Londra del 2002, che riconobbe alla paziente, del tutto cosciente, il diritto a rifiutare la terapia e a far staccare il respiratore meccanico che la teneva in vita (caso simile a quello di Piergiorgio Welby in Italia nel 2006).
In Spagna è entrata in vigore il 16 maggio 2003 una legge del 14 maggio 2002 sui diritti dei pazienti fondata sul consenso informato e sull’autonomia del malato, che può scegliere tra più opzioni cliniche o rifiutare un determinato trattamento. L’autonomia può essere esercitata tramite rappresentante. È vietato l’accanimento terapeutico. Sono previste dichiarazioni anticipate di volontà. In Italia, sono stati vanamente discussi in Parlamento progetti di legge in tema di testamento biologico. Il caso recente di Eluana Englaro, in stato vegetativo permanente da 17 anni, riguardo al quale il padre ha ottenuto dalla Corte d’Appello di Milano la sospensione di alimentazione e idratazione per spegnere la residuale esistenza vegetativa, ha riproposto l’urgenza di una legge sulla fine della vita. In base all’art. 32, 2° co., della Costituzione nessuno può essere sottoposto a trattamento sanitario, se non previsto come obbligatorio dalla legge. Ne consegue il diritto del malato a rifiutare le cure. La sentenza n. 27145/08, che le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno depositato il 13 novembre 2008 e che ha dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione all’impugnazione il ricorso presentato dal pubblico ministero presso la Procura generale della Corte di appello di Milano avverso il decreto del 25 giugno-9 luglio (con il quale la suddetta corte ha autorizzato il distacco del sondino), non fa che confermare tale diritto. Nel febbraio 2009 si è conclusa la vicenda di Eluana Englaro. A seguito dell’applicazione dell’apposito protocollo biomedico, la Englaro è deceduta per arresto cardiaco da blocco renale per disidratazione. Il caso ripropone, in sede di lavori parlamentari per una legge sul testamento biologico, il tema controverso della comprensione o meno del sostegno vitale, quale si configurerebbero idratazione e alimentazione, nel principio di autodeterminazione del paziente. Questo si ammette pacificamente, a norma del divieto costituzionale di sommministrare terapie senza il consenso dell’interessato, solo quando ricorrano trattamenti terapeutici in senso stretto. Sempre nella stessa direzione sembra andare l’autorizzazione ricevuta pochi giorni prima della sentenza sul caso Englaro dalla tredicenne inglese Hannah Jones, gravemente malata di leucemia, a rifiutare di sottoporsi a un trapianto di cuore per affrontare la morte tra le mura di casa accanto ai suoi familiari.
In altri Paesi, con diverse tradizioni culturali e giuridiche, nascerebbe in primo luogo la questione etica. Da noi si è discusso tra costituzionalisti se in simmetria con il diritto alla salute esista il dovere di curarsi. E data la perentorietà costituzionale del diritto al rifiuto delle cure, la risposta sull’assenza del dovere di curarsi non può che essere scontata.
La fine della vita
Il suicidio
Se, poi, il rifiuto determina la morte del malato, il problema si sposta dal campo della salute a quello del suicidio. E qui sillogizzando, se non esiste il dovere di curarsi, non sussiste il dovere di vivere.
Il suicidio è promosso ad atto di libertà, coperto dalla garanzia dell’art. 2 della Costituzione, relativa ai diritti inviolabili dell’uomo. Se una legge lo vietasse, essa sarebbe incostituzionale. Ai giuristi di common law è richiesta wisdom, saggezza. Per quelli di civil law il campo è libero a ogni acrobazia intellettualistica, data l’innocuità pratica della loro letteratura accademica, dinanzi all’onnipotenza del legislatore e all’interpretazione timida dei giudici. Il diritto al suicidio (right to die) implicherebbe una revisione degli artt. 579 e 580 del codice penale, che prevedono l’omicidio del consenziente e l’istigazione e l’assistenza al suicidio.
In realtà il gesto del suicida, quando sia del tutto spontaneo, è un atto tragico di solitudine, estraneo a valutazioni giuridiche. Solo il permanere ideologico del positivismo giuridico può immaginare che ogni fatto umano sia prevedibile e regolabile dall’ordinamento giuridico. Al di là del diritto c’è quella infinità che Immanuel Kant descrive come «il cielo stellato sopra di me e la coscienza morale dentro di me». Mentre, come insegnavano i giuristi romani, il diritto può e deve avere certi confini (cum ius finitum et possit esse et debeat, Nerva 5 membr. D.22.6.2).
Lasciamo dunque il suicidio con le sue tante, diverse individuali motivazioni ai plurimi giudizi dell’etica e delle religioni.
L’eutanasia
Al diritto sale l’istanza della richiesta eutanasica. Nel nostro sistema la distinzione tra eutanasia omissiva e commissiva (la quale seconda si avvicinerebbe a una figura incriminabile, quale l’assistenza o l’agevolazione al suicidio), non esce dal mero dibattito teorico se si tratti di un nuovo diritto umano, mutuato dalla rivolta contro la tecnica, dal terrore dell’agonia, della morte intubata, ispirata dal desiderio di morire con dignità.
A differenza dei Paesi Bassi, in Italia la questione non è matura per una scelta legislativa. Perché quando interviene il diritto, come bene scrive la Tripodina, nella voce Eutanasia del citato Dizionario alfabetico (v. sopra), il legislatore deve schierarsi per una delle due tesi contrapposte, per l’indisponibilità della vita umana da parte di chicchessia o per la sua disponibilità da parte di chi intende viverla senza le sofferenze e le angosce di un’agonia inutilmente prolungata. La mediazione tra valori etici diversi deve compierla la società, non la legge. Se i dissói lógoi etici riusciranno a orientare comportamenti pratici, come l’alleviamento del dolore con terapie palliative, e la compagnia di familiari, amici, medici, infermieri nel processo verso la morte, la questione dell’eutanasia potrebbe sciogliersi in una scelta etica, non legale.
Nel corso del Novecento è mutato anche il criterio di accertamento della morte. Un tempo ci si arrestava all’auscultazione del battito cardiaco che una volta cessato insieme al respiro segnava l’uscita dalla vita. La rilevazione dell’attività elettrica del cervello ha spostato il luogo della ricognizione di un tale evento dal cuore all’encefalo. Dalla morte cardiaca, dunque, alla morte cerebrale. Nel frattempo funzioni vitali possono essere mantenute artificialmente con macchine, in modo che l’evoluta chirurgia dei trapianti possa procedere all’espianto da cadavere di organi e tessuti viventi. Questo è un altro passo del dominio della tecnica sul corpo dell’uomo, che diventa, come è stato scritto da Carlo Augusto Viano «deposito di risorse biologiche» (Bioetica, in Dizionario enciclopedico della salute e della medicina, 2° vol., 2006, ad vocem).
L’estremo confine che le legislazioni tracciano a tutela della persona umana sta nel divieto di commercializzazione del suo corpo, sia vivo sia cadavere.
È consentita la donazione di tessuti e di organi, è vietato il profitto dalla loro utilizzazione. La oblatività benefica per le vite altrui, nella contesa etica tra valori, ha superato il tabù del corpo, che ancora nell’Occidente premoderno aveva, con il divieto della dissezione del cadavere, ritardato le conoscenze di anatomia umana che dovevano giovarsi dell’analogia con quanto osservato negli animali. Anche su questo tratto del progresso della biomedicina occorre vigilare che il corpo deposito di risorse biologiche non sia occasione di nuove schiavitù. Tra i popoli della fame, l’espianto di organi gemelli da vivente potrebbe alimentare un mercato dove il valore del dono maschererebbe un’economia di sopravvivenza. Senza contare le ipotesi criminali di riduzione dell’uomo a una preda.
L’inizio della vita
Sul fronte dell’inizio della vita la biologia molecolare e la genetica tendono a rispondere a richieste sorte nelle società evolute di dare figli a chi naturalmente non riesce ad averne, di eliminare embrioni o feti che darebbero luogo a vite di deformi o disabili o portatori di malattie ereditarie.
La procreazione medicalmente assistita è regolata in Italia con la l. 19 febbr. 2004 n. 40, punto d’arrivo di intere legislature parlamentari invano dedicatesi al tema. Occorre tuttavia ricordare che da circa tre decenni l’opinione pubblica italiana era attraversata dal dibattito intorno al diritto alla procreazione cosciente e responsabile. Quel dibattito si fece via via più acuto attorno all’interruzione volontaria della gravidanza, per la quale si giunse alla l. 22 maggio 1978 n. 194. Questa legge, all’art. 4, prevede che la donna possa rivolgersi a un consultorio pubblico per chiedere l’interruzione della gravidanza entro i primi 90 giorni con la motivazione che la prosecuzione della gravidanza, il parto e la maternità potrebbero comportare serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, anche in relazione a condizioni economiche, sociali o familiari, o a circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito. L’art. 6 consente l’interruzione dopo i 90 giorni solo quando gravidanza o parto comportino grave pericolo di vita per la donna, o quando siano accertati gravi processi patologici, tra cui rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, determinanti grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Il diritto alla salute copre dunque l’aborto così come legalizzato.
La legge n. 40 del 2004 prevede la medicalizzazione della procreazione in caso di sterilità o infertilità della coppia e ha una portata sulle questioni bioetiche da cogliere soprattutto nei suoi divieti. La legge vieta l’inseminazione eterologa con seme di donatore estraneo alla coppia; vieta l’uso a fini procreativi di gameti di soggetti estranei alla coppia; vieta che le tecniche di procreazione medicalmente assistita siano applicate a coppie i cui componenti non siano entrambi viventi o uno di essi sia minorenne o siano soggetti dello stesso sesso o non coniugati o non conviventi; vieta la commercializzazione di gameti o di embrioni nonché la surrogazione di maternità; vieta un processo volto a ottenere un essere umano discendente da un’unica cellula di partenza, eventualmente identico, quanto al patrimonio genetico nucleare, a un altro essere umano in vita o morto; vieta qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano, con la sola eccezione per la ricerca clinica e sperimentale volta a finalità esclusivamente terapeutiche diagnostiche per la tutela della salute e dell’embrione stesso, qualora non siano disponibili metodologie alternative.
Sono vietati ogni forma di selezione a scopo eugenetico di embrioni e gameti e ogni intervento di clonazione mediante trasferimento di nucleo o di scissione precoce di embrione o di ectogenesi sia a fini procreativi sia di ricerca; sono vietate la fecondazione di un gamete umano con un gamete di specie diversa e la produzione di ibridi e chimere. Gli embrioni da trapiantare non possono essere prodotti in numero superiore a tre, e la loro crioconservazione è consentita quando, per causa di forza maggiore relativa allo stato di salute della donna, se ne debba differire l’impianto. È evidente in questa legge la ricerca di equilibrio tra le opportunità offerte dalla scienza e le esigenze di tutela di valori sociali, quali l’organismo familiare, fondato sulla coppia eterosessuale, anche non coniugale, sull’identità biologica e giuridica del nascituro. Il rifiuto della selezione eugenetica e della clonazione protegge il principio di uguaglianza e rispettivamente di unicità individuale dell’essere umano.
La ricerca sugli embrioni
La scienza vorrebbe più libertà per la ricerca sugli embrioni. Recentemente la possibilità che dalle cellule staminali embrionali si ottengano più facilmente che da quelle somatiche e adulte cellule totipotenti idonee all’impiego terapeutico contro patologie che richiedono riparazioni di tessuti e di organi, allo stato non altrimenti ottenibili, ha riacceso la tensione nel dibattito bioetico. La ricerca sperimentale e clinica tende a considerare l’embrione, anche se non proprio come materiale biologico almeno fin quando non se ne accerti la morte come coeso organismo cellulare, certo non come un’identità umana personale. Che la scienza sia ispirata al maggiore beneficio dell’essere umano vivente è fuori discussione. Ma se il costo per questo esito filantropico richieda il sacrificio di potenziali individui nascituri, ci si chiede se la strada indicata sia eticamente percorribile.
In tema di selezione dell’embrione o di aborto terapeutico si è giunti a sostenere che si ha il diritto a nascere sani o in alternativa il diritto a non nascere. La III sezione della Cassazione civile italiana con sentenza 29 luglio 2004 n.14488, ha fatto giustizia di una simile aberrazione. Se dobbiamo restare sotto il cielo dei diritti umani, bisogna stare ben attenti a non crearne di disumani. Del resto, come non esiste un’entità compatta e omogenea che convenzionalmente chiamiamo società, che anzi nulla è più pluralistico delle società multiculturali contemporanee, così non esiste una scienza come omogenea e totalizzante corporazione di ricercatori e di clinici guidati da un pensiero unico. Gli scienziati sono tanti e diversi, non solo per le loro molteplici professionalità e competenze, ma anche per le loro diverse opzioni etiche. Non è auspicabile che nel dibattito bioetico si attui una divisione tra materialisti e spiritualisti, atei e credenti, innovatori e conservatori. Le scienze della Natura non possono restare separate da quelle umanistiche, dal momento che operiamo sull’uomo come un ‘pezzo’ della Natura e abbiamo il dovere di sapere attraverso quali e quante esperienze quel pezzo si è costituito come umano.
In reciprocità la rappresentazione delle tecnoscienze con il pregiudizio del materialismo positivistico va abbandonata per filosofie della scienza più vicine a quel loro oggetto continuamente mutante. Dall’atteggiamento difensivo contro il dominio della tecnica, che ha contrassegnato il Novecento, si sta passando a quello dell’enfatizzazione di un preteso mutamento antropologico indotto dal trionfo delle tecnoscienze. Homo faber diventa creator, l’ingegneria genetica si continua nella robotica, il postmoderno si affaccia sul postumano. Nessuna suggestione interpretativa va rifiutata, soprattutto quando ne nascano argomenti utili a quel dialogo interdisciplinare che è la bioetica. E tuttavia è opportuno dire che quando dalla ricerca e dalla discussione si deve costruire una regola, e questa la si deve chiedere alla legge, allora si deve saper rinunciare a posizioni individualiste e minoritarie, perché nelle grandi società democratiche del nostro tempo le ragioni dell’uomo devono essere condivise dalla maggior parte degli uomini.
Bibliografia
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F. D’Agostino, L. Palazzani, Bioetica. Nozioni fondamentali, Brescia 2007.
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