Biografia
Dopo che lo scientismo positivista, nella seconda metà del 19° sec., aveva aspirato a fare della b. uno strumento ad alta precisione - caratterizzato dal vaglio scrupoloso dei documenti storici e delle testimonianze secondarie, dal reperimento di dettagli di ogni sorta e da una presentazione dei materiali il più possibile obiettiva e precisa -, all'inizio del Novecento il valore scientifico del procedimento biografico fu rimesso in discussione alla luce del generale sommovimento epistemologico verificatosi pressoché in ogni campo delle scienze umane. Se, da una parte, si assistette a una continua proliferazione di opere biografiche - con una crescita progressiva che portò il genere, nella seconda metà del 20° sec., a costituire una porzione sempre più cospicua del mercato editoriale -, dall'altra, si sviluppò, soprattutto per mano di assidui scrittori di b., una parallela indagine sui presupposti teorici di questa categoria letteraria, in un clima di denuncia e diffidenza nei confronti dei limiti e delle ambiguità delle sue strutture narrative.
Rappresentante principale di un simile atteggiamento d'ambivalenza fu S. Freud, che, da un lato, non esitò a equiparare la b., costruita mediante l'aggregazione di documenti storici ed elementi congetturali, a un procedimento romanzesco votato alla menzogna, incapace di svelare l'intimo segreto delle personalità artistiche o di aspirare a uno statuto scientifico; dall'altro, soprattutto con il saggio Eine Kindheitserinnerung des Leonardo da Vinci (1910), inaugurò la cosiddetta b. psicanalitica: una sorta di applicazione degli strumenti offerti dalla psicanalisi alla vita e alle opere degli artisti, che arrivava a rintracciare nei ricordi d'infanzia una serie di sintomi, traumi e complessi, per spiegare, oltre a eventuali nevrosi e perversioni, anche i processi di sublimazione artistica, e che venne ripresa e praticata nel corso del Novecento, con risultati spesso prevedibili e talvolta forzati, dai lavori dedicati da M. Bonaparte a E.A. Poe nel 1933, da J.-P. Sartre a G. Flaubert, Ch. Baudelaire, S. Mallarmé, e da K. Eissler a J.W. Goethe nel 1963.
Sulla scorta della psicanalisi, si cominciò così a riconoscere che la b., più che allo spettro di indagine delle scienze storiche, apparteneva di diritto al campo d'azione della letteratura; anche se poi, a mettere in discussione le potenzialità del genere biografico, intervennero proprio le sospettose e diffidenti critiche degli scrittori impegnati a rivoluzionare le tecniche narrative della letteratura tradizionale. Fu il caso di M. Proust in Contre Sainte-Beuve (1907), di P. Valery in una delle sue Mauvaises pensées (1942), ma anche di J.L. Borges, V. Nabokov, W.H. Auden, e soprattutto di V. Woolf, la quale, dopo aver sperimentato la b. nel romanzo Orlando: a biography (1928) e nelle b. Flush (1933) e Roger Fry (1940), si pronunciò - nei saggi The new biography (1927) e The art of biography (1939) - sulla natura ibrida e anfibia della tecnica biografica, costretta a coordinare due sistemi incommensurabili come la 'verità dei fatti' e la 'verità della finzione', e descrisse il mestiere del biografo come quello di un artigiano (inferiore, a suo dire, all'artista-romanziere) destinato a lasciarsi sfuggire gli inafferrabili moti interiori e le multiple sfaccettature della personalità. Del resto, che la b. non dovesse essere considerata una scienza rigorosa, ma piuttosto un'arte in grado di coniugare, al contempo, storia e invenzione romanzesca, fu un'idea avallata anche da A. Maurois - autore, a sua volta, di b. come Ariel ou La vie de Shelley (1923) - in una serie di conferenze che furono tenute a Cambridge nel 1928 e in seguito raccolte nel libro Aspects de la biographie (1929): secondo Maurois, il biografo, che deve coordinare documenti e testimonianze irrimediabilmente tendenziosi o incompleti, non può arrivare a captare i segreti della vita di un individuo nella sua totalità, ma è giocoforza obbligato a costituire su basi ipotetiche una sorta di prodotto ibrido - la b. romanzata appunto - rischiando peraltro (in particolare se è alle prese con la b. di uno scrittore) di sovrapporre e confondere la storia dell'individuo con quella dei personaggi appartenenti all'universo delle sue opere.
D'altra parte, è stato anche per motivi affini a questo che nell'arco del 20° sec. la diffidenza nei confronti della b. si è manifestata in maniera diffusa, oltre che fra gli scrittori, anche nel campo della critica letteraria. A far passare in secondo piano l'importanza degli studi biografici ci pensarono innanzitutto, nella prima metà del Novecento, i rappresentanti del formalismo russo e, in seguito, dello strutturalismo praghese, che ponevano l'attenzione soprattutto sull'indagine della letterarietà dei testi e delle loro strutture, lasciando a margine o sullo sfondo tutto quanto concerneva la vita dell'individuo loro produttore. Ma l'avversione per l'utilizzo della b. fu caratteristica presente anche in quella sorta di 'dittatura intellettuale' esercitata in Italia, per buona parte del secolo, dal sistema estetico e filosofico di B. Croce, che infatti condusse una battaglia spietata contro il 'peccato' metodologico rappresentato dal biografismo, ingiunse di privilegiare il testo e non esitò a stroncare e proscrivere l'impiego delle notizie inerenti alla vita degli scrittori all'insegna del motto: "La storia sia sempre dell'opera e non mai della persona".
Lo stesso accadde, d'altro canto, all'interno del gruppo americano dei New critics, dove W. Wimsatt e M. Beardsley prospettarono - in un articolo del 1946 riguardante la intencional fallacy (o errore dell'intenzione) - il metodo interpretativo del close reading (o lettura ravvicinata), proclamarono tendenziosa e controproducente qualsiasi interpretazione dei testi basata sulle dichiarazioni fornite dall'autore nel corso della sua vita, e innalzarono una barriera decisiva tra la b. di un artista e le sue opere. Fu poi lo strutturalismo francese a dare, in seguito, il colpo di grazia all'utilizzo della b. nel settore della critica letteraria, con un saggio di R. Barthes intitolato La mort de l'auteur (1968): non ci sarebbe ragione infatti, secondo Barthes, di preoccuparsi della b. di un autore, perché la sua vita, nel momento in cui la scrittura comincia, viene sommersa e inghiottita dalle strutture impersonali del linguaggio. Chi parla, all'interno del circuito di segni rappresentato da un'opera letteraria, non è mai l'autore, ma un "soggetto vuoto", un prestanome, un anonimo rappresentante narrativo: persino il nome dell'autore - come asserì in quegli anni anche M. Foucault nel saggio Qu'est-ce-qu'un auteur? (1969) - si limita a svolgere una funzione coesiva e classificatoria nei confronti dei testi, non rinvia direttamente all'individuo reale che li ha realizzati e, come tale, deve essere allontanato - assieme alla b. - dall'orizzonte di interpretazione della scrittura, intesa come un sistema semiotico di enunciati neutri.
E tuttavia, in un simile clima di diffidenza, vi fu anche chi non rinunciò a reclamare i prestigiosi e peculiari diritti della biografia. Tra i difensori del genere biografico, fu l'americano L. Edel - che scrisse, tra il 1953 e il 1972, una monumentale b. in cinque volumi dedicata a H. James - a riprendere in mano la situazione dichiarando, nel saggio Literary biography (1957), che la conoscenza della vita di uno scrittore risulta fondamentale per la comprensione della sua opera e della sua parabola intellettuale: basandosi sulla propria erudizione, sul proprio intuito e sulla sintonia simpatetica che avverte nei confronti del proprio oggetto di studio, il biografo, secondo Edel, ha il diritto di trascegliere e isolare dati nel complesso mare magnum di una vita realmente vissuta e di comportarsi, nella loro presentazione, come una sorta di narratore onnisciente, in modo tale che la b. riesca a palesare ogni emozione segreta dell'individuo in causa. Ma se è vero che, a questi patti, la b. - fondata sulla conoscenza meticolosa di ogni tipo di materiale documentario - tornava d'un tratto a presentarsi come lo strumento più idoneo per rendere noto ogni nascosto aspetto di una personalità, è vero anche che la produzione di b. d'ogni sorta, nonostante le intimidazioni dello strutturalismo, non aveva nel frattempo subito rallentamenti o eventuali battute d'arresto, dal momento che P.M. Kendall, nel suo libro The art of biography (1965), arrivava a riconoscerne ed elencarne ben otto tipi: romanzo biografico, b. romanzata, b. interpretativa, b. erudita, b. di ricerca, b. epocale, compilazione biografica e, infine, superbiografia. Appare però necessario scagliarsi - dice Kendall - contro quest'ultima tipologia, splendidamente rappresentata dai lavori di Edel: anche se, in ogni caso, i protocolli della b. risultano del tutto affini a quelli del romanzo - perché, proprio come il romanzo, la b. ricrea un intero universo in modo veridico -, il biografo non può comportarsi alla stregua di un narratore onnisciente; sfruttando la propria intuizione e il fascino avvertito nei confronti del proprio oggetto di studio, il biografo ha la possibilità - secondo Kendall - di avvicinarsi all'individuo per comprenderlo in maniera simpatetica, ma ha anche il dovere di mantenersi invisibile dietro le quinte della narrazione, senza permettersi di maneggiare la cronologia o di intervenire in prima persona nel corso del racconto.
In questo modo, nonostante le correnti post-strutturaliste - prima fra tutte il decostruzionismo - abbiano continuato a mettere sotto accusa la categoria del 'soggetto' e a lasciare, così, in secondo piano (o a ignorare) l'utilizzo della b. come strumento ermeneutico, si sono moltiplicati a poco a poco i difensori delle risorse biografiche: nel 1984 è stato W. Empson a scagliarsi contro l'interdetto del New criticism e a dimostrare - con il libro Using biography - come risulti più che legittimo l'utilizzo dei documenti biografici e delle correlative 'intenzioni' dell'autore al fine di interpretare le opere letterarie, laddove quei dati possano arricchire le già molteplici direttrici di lettura e di interpretazione stessa del testo. Lo studio della b., a ogni modo, è stato anche riconosciuto come uno strumento prezioso per ricostruire i codici di comportamento promulgati da una civiltà. Come afferma J. Lotman nel saggio Literaturnaja biografija v istoriko-kul´turnom kontekste (1985; trad. it. Il diritto alla biografia, 1995), all'interno di una società vi sono persone che decidono di essere "uomini con una biografia" e, indossando consapevolmente una sorta di maschera, scelgono di articolare la propria esistenza in base al modello a sua volta fornito da altre biografie o, comunque, in base a un ventaglio di norme stabilite dalle sovrastrutture culturali: ed è proprio l'analisi articolata dal biografo che ci permette di riconoscere gli schemi codificati e di volta in volta offerti dalle strutture culturali alle generazioni successive in qualità di modello di comportamento esemplare.
Così, negli ultimi due decenni del Novecento, si è arrivati ad assistere a un vero e proprio boom editoriale del genere biografico, che si è tramutato - accanto al romanzo - in uno dei generi più richiesti da un pubblico in continua espansione. Ma se da una parte la curiosità dei lettori - fomentata dai nuovi mass media - sembra aver determinato l'aumento esponenziale e irrefrenabile di b. di carattere storico-divulgativo o scandalistico (riguardanti soprattutto il mondo della politica, dell'alta società o alcuni aspetti del mondo dello spettacolo, come il divismo generato dallo star system), dall'altra, la b. è tornata di diritto a far parte del bagaglio metodologico di alcune scienze umane: pur restando assodato il fatto che - come ha affermato anche il filosofo francese P. Ricoeur - la b. trasforma il fenomeno biologico della vita in una finzione narrativa grazie alle strutture del racconto, l'antropologia, stando a quanto asserito dall'americano C. Geertz in Works and lives (1992), non esita a servirsi del resoconto biografico - in grado di fondere il dato scientifico e la testimonianza documentaria con i tropi retorici e le tecniche di narrazione del romanzo - allo scopo di riportare sotto gli occhi del pubblico, in modo veritiero e persuasivo, la vita di individui appartenenti a civiltà lontane, studiate per diretto contatto dall'antropologo.
Contemporaneamente, l'insorgere e il diffondersi dei Cultural Studies, dei Gender Studies, dei Black Studies e degli Etnic Studies, negli ultimi due decenni del 20° sec., hanno provocato una netta revisione e spostamento di prospettiva a livello tematico, oltre che metodologico, nel campo degli studi biografici: a seconda dell'ambito d'interesse e competenza dei nuovi movimenti d'indagine, è stata rimessa in discussione, di volta in volta, la prospettiva strutturale delle tradizionali b., in base all'idea che la razza, il genere e la classe sociale influenzino in maniera determinante il punto di vista e la relazione del biografo con il suo oggetto di studio; è stato inoltre ampliato, in parallelo, lo spettro e la tipologia dell'oggetto di indagine della b., con una conseguente e maggiore attenzione riservata alla vita privata dei comuni individui, o alle realtà di gruppi, classi sociali e civiltà fino a quel momento ghettizzati, considerati marginali e minoritari o comunque ignorati da una visione euro- o americano-centrica.
Sono proseguiti, d'altra parte, i lavori biografici riguardanti personalità della sfera artistica e letteraria, che si sono sforzati di ereditare la riflessione teorica sviluppata nel corso del Novecento: per quanto rimanga indubbio che - come faceva notare E.M. Forster fin dalla prima metà del secolo - il lettore non può conoscere un uomo in carne e ossa con la stessa profondità con cui conosce il personaggio di un romanzo - del quale può arrivare a osservare la vita psichica e i pensieri intimi -, le b. di R. Ellmann - come Oscar Wilde (1984) - aspirano a offrire al pubblico una conoscenza dell'individuo e del suo percorso intellettuale capace di competere con quella dei personaggi di romanzo, e non esita a effettuare, a questo scopo, meticolose ricerche documentarie, per poi presentare la vita degli scrittori in ogni più piccolo e persino imbarazzante dettaglio, senza alcun timore di pregiudicare la loro grandezza.
Tuttavia in fin dei conti, nonostante la grande consapevolezza teorica raggiunta nel corso del 20° sec., il genere biografico continua a costituire un prodotto instabile: incapace di obbedire a una serie di regole fisse, finisce comunque per rivelarsi, a tutti gli effetti, una forma in bilico fra storia e romanzo, soggetta alla contaminazione con generi letterari limitrofi (come il reportage o l'intervista); e perfino un critico come M. Bachtin, avvezzo a seguire l'evoluzione della b. nel corso dei secoli, ammette - nel saggio-intervista O polifonicnosti romanov Dostoevskogo (1975; trad. it. Sulla polifonicità dei romanzi di Dostoevskij, 1986) - l'impossibilità di ricondurla sotto l'egida di un unico metodo e di stabilire una volta per tutte i suoi schemi di composizione. Ciò non toglie, in ogni caso, che un genere così aperto ed enigmatico, proprio in virtù della sua natura problematica, seguiti a suscitare l'attenzione del pubblico e della critica: tant'è vero che, per tenere sotto stretta sorveglianza le sue incessanti trasformazioni, esistono numerose pubblicazioni specializzate, come la rivista Biography: an interdisciplinary quarterly, pubblicata fin dal 1978 dal Biographical Research Center dell'Università delle Hawaii.
bibliografia
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C.N. Parke, Biography: writing lives, New York-London 2002.