biomateriale
s. m. – Materiale concepito per interfacciarsi con un sistema biologico al fine di valutare, supportare o sostituire un tessuto, un organo o una funzione. La definizione di b. include un’ampia gamma di materiali, dai polimeri usati per il rilascio controllato di farmaci agli organi artificiali. Dal punto di vista chimico-fisico i b. possono essere classificati, come i materiali in genere, in metallici, ceramici, polimerici, biologici e compositi. I b. polimerici rappresentano quasi la metà del totale, grazie alla estrema versatilità delle caratteristiche fisico-chimiche e alla relativa facilità di progettare e sintetizzare strutture polimeriche su misura per applicazioni specifiche. I materiali metallici e ceramici sono insostituibili per tutte le applicazioni che necessitano di elevate prestazioni meccaniche, soprattutto in termini di durezza superficiale, rigidità e resistenza all’usura. A seconda del tipo di applicazione cui sono destinati, i b. possono essere classificati in b. strutturali, impalcature per la rigenerazione di tessuti (ingegneria tissutale), componenti di sistemi per il rilascio controllato di farmaci, veicolanti solubili di sostanze biologicamente attive. Inoltre, sono da considerarsi b. anche i materiali, per lo più polimerici, che compongono attrezzature medico-chirurgiche quali tubi, fili di sutura, cateteri per applicazioni temporanee, contenitori per sangue. I b. strutturali sono destinati a riparare o sostituire tessuti, o anche interi organi, la cui funzionalità è compromessa. Per i tessuti molli sono prevalentemente impiegati b. polimerici, per i tessuti duri materiali metallici o ceramici, per organi complessi tutti i tipi di materiali in proporzioni diverse. Ne sono esempi le protesi d’anca, i sostituti sintetici del plasma e del sangue, le protesi cardiovascolari, il cuore artificiale, il rene artificiale (ossia l’apparecchiatura per l’emodialisi). L’ingegneria tissutale si propone di realizzare la ricrescita di un tessuto vivente usando come impalcatura (scaffold) un b., preferibilmente riassorbibile o asportabile dopo che la sua funzione è terminata, allo scopo di ripristinare, mantenere o anche migliorare le funzioni di un tessuto con l’impianto di elementi viventi che diventano parte integrante dell’organismo. Si basa sulla coltivazione in vitro di cellule isolate, preferibilmente appartenenti allo stesso paziente, che sono poi inseminate sopra un’impalcatura naturale o sintetica dove continuano a proliferare; dopo un sufficiente intervallo di tempo il sistema viene impiantato nel paziente. Le impalcature comunemente impiegate possono avere varie forme, quali tessuti e fibre (poliesteri, fibre di carbonio), impianti porosi (usati in ortopedia e in chirurgia ricostruttiva), membrane (utilizzate, per es., per la rigenerazione del derma). I sistemi per il rilascio controllato di farmaci sono costituiti essenzialmente da materiali polimerici e possono essere suddivisi in due categorie: dispositivi non bioeliminabili, che liberano il farmaco per diffusione o con altri meccanismi fisici, e dispositivi bioeliminabili, dai quali il farmaco è rilasciato sia per diffusione sia per progressiva erosione del dispositivo. I dispositivi della prima categoria devono essere successivamente rimossi. I veicolanti polimerici, infine, sono macromolecole solubili che hanno la proprietà di legarsi alle molecole del farmaco e di veicolarle nei tessuti dove esse devono agire. L’ancoraggio di un farmaco a un polimero ne altera profondamente la farmacocinetica, perché le elevate dimensioni molecolari impediscono la diffusione attraverso le membrane cellulari, e l’internalizzazione dei polimeri nelle cellule avviene con un meccanismo diverso, consistente in un’invaginazione della membrana cellulare con creazione di un vacuolo (endosoma) che contiene una porzione del liquido intracellulare con tutte le sostanze in esso disciolte: introducendo nel veicolante gruppi chimici con affinità specifica per i recettori complementari presenti sulla membrana di un certo tipo di cellula, l’addotto polimero-farmaco si concentrerà sulla membrana e quel tipo di cellula lo assumerà specificamente. Un’applicazione importante di questa tecnica sfrutta il fatto che alcuni polimeri naturali e sintetici sono accumulati passivamente nei tessuti tumorali, il che permette di veicolarvi efficacemente il farmaco.
Biocompatibilità. – Il principale fattore limitante l’applicazione pratica dei b. è la biocompatibilità, ossia la capacità del materiale di non provocare da parte del sistema vivente reazioni sfavorevoli tali da pregiudicare la possibilità di utilizzarlo per tutto il tempo previsto. Nel caso di un impianto medico, la biocompatibilità dipende dallo stabilirsi di interazioni favorevoli fra i materiali che lo compongono e i tessuti circostanti. L’esistenza di interazioni è prevista dalla definizione stessa di b.; materiali che non suscitano reazioni di alcun genere da parte dell’organismo ospite sono adatti per applicazioni temporanee (per es., certi tipi di catetere) ma non per applicazioni a lungo termine. Affinché un impianto assicuri prestazioni stabili nel lungo periodo non basta che sia tollerato passivamente dall’organismo, ma deve essere in qualche modo incorporato, agganciato ai tessuti circostanti e comportarsi alla fine come un settore funzionale dell’organismo ospite. Questo presuppone che l’impianto subisca una colonizzazione cellulare e che le cellule colonizzanti vi aderiscano adeguatamente. Nei casi più favorevoli può accadere che l’impianto sia gradualmente ‘invaso’ dalle cellule e contemporaneamente degradi. Si forma così un tessuto autologo al posto del materiale originale del quale vengono mantenute la morfologia e la funzionalità. La biocompatibilità di un materiale impiantato è influenzata, oltre che dalla sua tossicità, da numerosi fattori fra cui la forma dell’impianto, la dinamica dei suoi moti una volta collocato, la resistenza alla degradazione chimica e meccanica e la natura delle reazioni che avvengono all’interfaccia con i tessuti biologici. Una volta interfacciati con l’organismo i b. vanno generalmente incontro a fenomeni di degradazione (alterazione chimica dovuta all’ambiente circostante che ne modifichi in modo sensibile le proprietà) e di erosione (graduale dissoluzione di un materiale originariamente insolubile), dovuti in parte a fattori chimici e chimico-fisici, come temperatura e pH, e in parte ad agenti biologici (per es., enzimi). Nel secondo caso si parla di biodegradazione e bioerosione. In certi contesti, per indicare la scomparsa nel tempo del dispositivo dal sito d’impianto, si parla anche di bioassorbimento. La bioeliminazione, infine, consiste nell’eliminazione del materiale dall’organismo ospite, generalmente dovuta a una degradazione spinta fino al livello di piccole molecole che possono essere espulse attraverso i normali processi d’escrezione. La degradabilità di un materiale in ambiente fisiologico è una caratteristica che può essere sfavorevole o necessaria. Nel caso di dispositivi cui si richiedono prestazioni meccaniche di buon livello senza limiti di tempo (per es., protesi ortopediche, dentarie o cardiovascolari), il materiale deve essere indegradabile e mantenere le sue proprietà. In altri casi è invece auspicabile, o obbligatorio, che il materiale sia non solo degradabile, ma anche bioeliminabile (per es., i fili di sutura riassorbibili, i polimeri bioerodibili usati come matrici per il rilascio controllato di farmaci, i materiali usati come impalcature per la rigenerazione tissutale).