Biondo Flavio
Fra i piu illustri storiografi del Quattrocento, Biondo Flavio impresse una svolta in senso contemporaneo alla ricerca storica, misurandosi con il monumento liviano che tratta dalla fondazione di Roma ad Augusto mediante la narrazione dei tempi moderni, dalla caduta dell’impero romano al papato di Eugenio IV, presso il quale soprattutto svolse la sua carriera di segretario apostolico. Aprì inoltre la strada al rinnovamento del genere corografico, integrando la storiografia con l’antiquaria, che ebbe da quel momento una più specifica applicazione nella cultura umanistica. Il nuovo orizzonte di ricerca lo indusse preliminarmente a rivedere l’interpretazione storica dei rapporti fra le lingue latina e volgare.
Figlio di un notaio della famiglia Biondi al servizio di comunità e corti signorili della Romagna, Biondo (di cui Flavio è una duplicazione latineggiante) nacque a Forlì nel 1392. Dopo gli studi di grammatica, poetica e retorica seguiti nella città natale, continuò la sua formazione giovanile a Piacenza, dove forse conseguì il titolo di notarius, e a Cremona; ma i punti di riferimento più importanti della sua prima formazione furono la scuola padovana, che serbava l’eredità di Francesco Petrarca, e quella di Pier Paolo Vergerio (1370-1444). Erano gli anni in cui la Romagna risentiva dell’egemonia viscontea e veneziana, e il papato s’impegnava a ricondurre all’obbedienza le municipalità in mano dei signori locali.
Lo ritroviamo in patria nel secondo decennio del 15° sec., quando svolse impegni cancellereschi in comunità locali, segnalandosi e divenendo già esperto nella decifrazione di documenti antichi e nella scrittura. L’incontro con Guarino Guarini (1374-1460) nel 1420 lo avviò allo studio di Cicerone e di vari altri autori, fra cui Plutarco, Plinio, Agostino, e del greco, mentre l’abilità scrittoria lo portò a trascrivere, oltre a opere ciceroniane, il recente De militia di Leonardo Bruni (1370 ca.-1444), che segnò per Biondo l’inizio di un’amichevole e duratura relazione con lo storico di Firenze e di un interesse per i costumi e le istituzioni romane. Oscura è la ragione per cui fu bandito da Forlì nel 1423 in seguito alla sommossa contro il governo di Lucrezia Ordelaffi, essendo incerto, e improbabile, un suo schieramento politico, ma la vicenda lo portò a Imola e Ferrara e quindi ad assumere incarichi di segretario nella Repubblica di Venezia, per intercessione di Guarini.
Assunto subito dopo da Francesco Barbaro come segretario e dopo qualche anno da Pietro Loredan, entrò nel 1427 al servizio del governatore ecclesiatico di Forlì Domenico Capranica e, successivamente, di Giovanni Vielleschi, governatore della Marca d’Ancona. Nel 1431 cominciò il suo tirocinio curiale con l’elezione al pontificato di Eugenio IV, veneziano, e con la sua nomina a notaio della Camera apostolica.
Sotto il papato di Eugenio IV (1431-1447) si svolse la maggior parte della maturità dell’umanista, che collaborò con il papa anche nelle faccende politiche. Durante la residenza papale a Firenze scrisse il De verbis romanae locutionis (1435) e, nello stesso anno, avviò la narrazione storica dei suoi tempi, da lui rivista e ampliata fra il 1443 e il 1453 con la narrazione dei secoli precedenti. Ma in quegli anni Biondo aveva cercato i favori di Alfonso d’Aragona, assecondandolo con una solenne esortazione alla crociata, alla presenza dell’imperatore Federico III, e con un discorso De expeditione in Turchos. In effetti, sotto il papato di Niccolò V (1447-1455) Biondo sembra caduto in disgrazia della curia (la dedica al papa dell’Italia illustrata nel 1451 scomparirà in una successiva redazione), né il suo ritorno e l’integrazione nel collegio dei segretari sotto Callisto III e Pio II, che egli pur celebra in alcune addizioni all’Italia illustrata e nella dedica della Roma triumphans, gli riservarono la prestigiosa funzione politica di una volta. Trascorse gli ultimi anni in condizioni economiche difficili. Morì a Roma il 4 giugno 1463, dopo aver dedicato gli ultimi anni al completamento delle Decadi.
A chi, come Biondo, aveva appreso dal magistero di Guarini l’attenzione verso la grammatica e la storiografia, di cui l’umanista ferrarese si era occupato anche a livello teorico e pedagogico, il soggiorno a Firenze, dovuto allo spostamento da Roma della curia di Eugenio IV, riuscì oltremodo stimolante per una riflessione sulla lingua. Nel luogo dove rimontava la grande tradizione volgare inaugurata da Dante Alighieri e dove Bruni nella Vita del poeta aveva riaffermato la dignità del volgare provocando una discussione fra i dotti della cerchia papale sull’interrogativo se la lingua latina fosse peculiare idioma dei Romani, Biondo espresse l’idea, alla fine vincente, che il volgare non fosse altro che la stessa lingua latina parlata dal volgo, ma nobilitata attraverso una regolata e ornata struttura in un ambiente sociale più colto.
Nel De verbis Romanae locutionis, una sorta di resoconto del reale dibattito avvenuto nell’anticamera papale (1435), cui Biondo stesso aveva partecipato, era confutata l’opinione che il latino fosse una lingua grammaticale e il volgare una lingua diversa, come il greco e il latino presso i Romani. Fermo nella sua posizione, Bruni rispondeva irrigidendo la sua considerazione, caduca e pur importante per la legittimazione della letteratura moderna, dell’autonomia dell’attuale volgare fatto risalire all’antichità. Contro questa tesi si sarebbe affermata l’idea di Biondo, il quale aveva invece tenuto presenti nella disputa i livelli effettivi del linguaggio e, pur considerando il volgare, da una parte, come strumento di una cultura inferiore e, dall’altra, come effetto d’imbarbarimento, partendo da un altro punto di vista poneva anche lui le basi per la rivalutazione della nuova letteratura e per la fiducia nella perfezionabilità della lingua attualmente parlata e diffusa come strumento di comunicazione, che era la tesi sostenuta negli stessi anni da Leon Battista Alberti.
Quel che rende particolarmente significativa, nel quadro della riflessione storica, questa prima esperienza di Biondo, è la stretta relazione con la sua successiva carriera di storiografo e di antiquario. In effetti già si manifesta, nella considerazione storica dei livelli linguistici e dell’evoluzione, sia pure intesa come degenerazione, della lingua antica, essenzialmente unitaria, l’interesse per le origini della situazione presente e per lo studio delle tracce dell’antica civiltà, di cui la lingua è un aspetto primario e un indizio indispensabile. La ricerca sulla storia contemporanea, come premessa alla ricerca della storia antica accanto all’antiquaria, è già insita nella direzione che Biondo assume nel dibattito sulla lingua.
Dalla tradizione antica deriva agli umanisti il concetto della narrazione dei tempi presenti e dell’elogio delle azioni e delle figure contemporanee come il modo più efficace di conservare per l’eternità il ricordo degli esempi da imitare e da fuggire (la Storia fiorentina di Bruni ne era un esempio). Guarini raccomandava di consegnare alla storia la memoria dei tempi presenti, come avevano fatto gli antichi, e non invece le età di cui appunto si era smarrito il ricordo, ma dava anche consigli sulla misura con cui compiere questa operazione, evitando l’eccesso di celebrazione e di biasimo, abbandonando la passione di parte e la scarsa attenzione formale, difetto di molta letteratura storiografica del recente passato. Biondo non s’impegnò in una riflessione teorica sulla storia, ma la sua adesione a questo programma balza evidente dai suoi progetti e dalle sue opere, e fu riconosciuta precocemente nell’elogio con cui Lapo di Castiglionchio (1405 ca.-1438) salutò la composizione delle Decadi.biondiane, mostrando l’utilità della narrazione dei fatti attuali, la necessità di far tacere le favole e privilegiare la testimonianza sicura, possibilmente diretta, o indiretta ma ricavata da fonti credibili, anche orali.
Con questo metodo procede infatti Biondo, almeno nelle intenzioni, che spiegano anche l’originario impegno rivolto ai suoi tempi, i primi anni del papato di Eugenio IV (1431-1439), e quindi ai successivi fino a completare quelle che saranno nell’ordinamento complessivo la terza e parte della quarta decade. Solo dopo aver compiuto questa parte (1443), Biondo mise mano a completare il suo disegno, forse originario, di una storia dalla caduta dell’impero romano, che egli identificava con la data del saccheggio di Roma (410 d.C.) da parte dei Goti di Alarico (Historiarum ab inclinatione Romanorum imperii decades).
Lo scompenso fra le prime due Decadi, che narravano i fatti di quasi mille anni, e le altre due risulta evidente, ma va commisurato alla quantità di documentazione di cui lo scrittore poteva disporre, considerando il privilegio da lui concesso alle testimonianze più plausibili, necessariamente scarse per gli anni lontani, nonostante l’uso di fonti quali il Procopio tradotto da Bruni e Paolo Diacono, il ricorso alla consultazione di una tipologia nuova di fonti, quali sillogi di cronache ed epistolari (Gerolamo, Cassiodoro, Gregorio VII, Petrarca), e gli ampliamenti relativi alle descrizioni geografiche e a qualche testimonianza materiale e diretta con cui riesce anche a correggere tradizionali convinzioni. Il rifiuto della tradizione favolosa, che non esime Biondo dall’incorrere a sua volta in errori e confusioni, e il principio, generalmene osservato, di non ricorrere ad amplificazioni retoriche quali i discorsi e le celebrazioni di eventi e di persone, rendono in effetti più asciutto e spesso non elegante il racconto. L’uso di inserire, trascrivendola, certa documentazione, di discutere l’autorevolezza delle testimonianze anche sulla base di valutazioni circa la loro tendenziosità, il modo stesso di lavorare integrando la narrazione a mano a mano che l’informazione (e, talora, la sollecitazione di contemporanei per avere un posto nella storia) gli perveniva, finisce con l’allontanare il testo di Biondo dal modello di racconto fuso ed eloquente promosso da Cicerone e praticato da Livio. Un autore oltre tutto, quest’ultimo, cui Biondo aveva dedicato anche qualche attenzione filologica.
E tuttavia, come la parte che si dilunga su un arco di tempo minore, pur viziata da eccessive minuzie e da qualche partigianeria, ha il merito di aver dato dignità di storia alla narrazione dell’età contemporanea, così la parte più ristretta dedicata al millennio della storia cristiana ha insegnato a far comprendere nell’autentica ricerca storica i secoli dell’età media, superando la diffidenza verso di essa diffusa fra gli umanisti, e in buona parte condivisa dallo stesso Biondo, e inventando la trattazione della storia medievale che porterà i suoi frutti alla crisi della stagione propriamente umanistica. La scelta di far iniziare la trattazione dalla caduta dell’impero, a parte la palese relazione con la prospettiva agostiniana del De civitate Dei, e l’intenzione di attribuire alla nuova romanità rappresentata dalla Chiesa gli auspici derivanti dall’analogia fra i due imperi succedutisi nei secoli, significavano riconoscere la modernità non come decadenza, secondo la stessa parola del titolo (inclinatio), sibbene come una realtà storica destinata a incontrare le medesime difficoltà, ma almeno i medesimi destini dell’antica. L’operazione collimava ovviamente con la politica degli attuali pontefici.
Poco dopo il completamento di questa fatica che continuerà a impegnarlo negli ultimi anni di vita, Biondo ripeteva l’esperienza storiografica, con la medesima suggestione ‘imperiale’, nella narrazione, tuttavia compendiosa, dell’origine e delle imprese di Venezia (De origine et gestis Venetorum, 1454), precorrendo il progetto storiografico, che la Repubblica andava maturando, di promuovere la propria immagine come erede dell’impero romano. L’esortazione alla crociata, che vi era contenuta, riprendeva un argomento già sostenuto negli anni precedenti presso il re di Napoli. E ancora alla fine degli anni Cinquanta, quando i suoi interessi si erano rivolti più decisamente a un altro genere di storiografia, Biondo guardava a Napoli e a Venezia per spendere la perizia acquisita nella composizione delle decadi. Progettava, infatti, di narrare le contemporanee scoperte oltre Atlantico, arrestandosi di fronte all’impossibilità di acquisire i documenti che avrebbe dovuto fornirgli il re di Napoli, e scriveva il primo libro di una storia del popolo veneziano per concorrere, per altro senza esito positivo, all’incarico ufficiale di storiografo di Venezia.
Da un approfondimento, più che ampliamento, della storiografia mediante lo studio dei luoghi, delle popolazioni, dei costumi, delle istituzioni e dei monumenti dell’antichità, delle tracce di vita umana spesso fraintese e perfino scomparse dalla memoria, scaturisce una parte cospicua dell’opera di Biondo, la più famosa per aver egli rifondato un vero e proprio genere quale l’antiquaria, divenuto poi fiorente nei due secoli successivi, e punto di riferimento per la rinascita storiografica del Settecento, proprio attraverso il recupero delle origini, particolarmente quelle medievali (si pensi alle Antiquitates Italicae Medii Aevi di Ludovico Antonio Muratori).
Anche in questo caso l’umanista accoglie lo stimolo di un modello antico quale il De lingua latina e gli Antiquitatum libri XLI di Varrone, pervenuti incompleti, e lo rilancia come indispensabile sussidio della storiografia, ma anche come un modo diverso di fare storia muovendo da un ordine geografico, da un criterio topografico e corografico, piuttosto che cronologico, per descrivere le forme originarie dei siti moderni e dar conto del danno e spesso dello stravolgimento avvenuto attraverso i secoli. Il ritorno a Roma di Eugenio IV, con il connesso rilancio dell’Urbe come centro dell’impero cristiano e della Chiesa come Stato territoriale e pur potenza universale, vede Biondo utilizzare la documentazione raccolta studiando la decadenza romana per ricostruire, a ritroso, nella Roma instaurata, l’originario assetto della città, smarrito nel corso dei secoli successivi finanche nella denominazione dei luoghi, che rimane talora insolubile, e nel riconoscimento dell’autentica funzione dei monumenti. Al fondo, ma in una sommessa, non retorica, intenzione celebrativa, vi è l’ideologia della continuità fra la storia dei Cesari e la storia del papi, che ispirerà la ricostruzione monumentale di Roma da parte dei pontefici; e allo stesso tempo la sua considerazione dello stato in cui è ridotta finanche la conoscenza della città antica comincia ad alimentare l’importante tema delle ‘rovine’ romane. Si può dire che l’operazione si affiancasse, in un certo senso e su un altro versante, a quella condotta in primo luogo da Lorenzo Valla nella restaurazione dell’eleganza della lingua latina.
Pur risalendo alla trasformazione di un progetto fatto per commissione del re di Napoli, quando, lasciata la curia fra il 1448 e il 1449, ritiratosi in un primo tempo a Ferrara, Biondo aveva cercato a Napoli una collocazione assecondando il desiderio del re Alfonso d’Aragona di poter conoscere la varia identità dei territori italiani attraverso una ricognizione geograficamente articolata di biografie (De viris illustribus), l’opera riconosciuta come il capolavoro dell’umanista forlivese, l’Italia illustrata, può considerarsi piuttosto come prosecuzione della Roma instaurata, che aveva accompagnato la seconda fase compositiva delle Decadi. In essa l’orizzonte della ricerca antiquaria si allarga dall’Urbe alle province romane definite dalla mappa delle regioni italiche tracciata da Plinio per rispondere alla strategia egemonica di Augusto (ma le 18 province diventano ora 14), anche se a un certo punto l’impossibilità di raggiungere con l’indagine erudita e il sopralluogo diretto tutto il territorio previsto induce Biondo a tralasciare l’area meridionale, sfiorandola soltanto con la parziale descrizione del Gargano.
Offerta prima a Niccolò V nel 1451, e poi uscita senza più quella dedica, l’Italia illustrata rispecchia la medesima intenzione augustea di organizzare l’Italia come centro politico dell’impero, definendo le sue province e specialmente i suoi confini verso la Francia, la Germania e i Paesi slavi. Biondo eredita dall’antichità l’attenzione verso le regioni di confine, per es., la ligure (su cui ora può disporre anche della Descriptio orae Ligusticae, 1448, di Iacopo Bracelli) o quella di Aquileia (su cui ora può disporre anche di un’epistola De civitate Aquileiae, 1448, di Iacopo Simeoni da Udine). Ma si procura informazioni da vari collaboratori e si vale della sua diretta esperienza, che a proposito della sua regione natale lo fa indugiare più a lungo, creando uno di quegli scompensi, considerati un vizio della trattazione. Discute l’identificazione dei luoghi servendosi di fonti classiche quali Tolomeo, Plinio, Solino, Pomponio Mela, meno Strabone la cui traduzione latina non era forse ancora disponibile, e sarà invece utilizzata da Pio II, il quale per molti versi segue lo stesso metodo di dare alla storia un fondamento geografico, ma allontanandosene per una più spiccata finalità storiografica, una classica cura dello stile per quanto asciutto e ‘cesariano’ piuttosto che ciceroniano, e soprattutto per il concetto diverso che questi ha dell’antiquaria, più interessato com’è a fornire al racconto storiografico una base geografica e un modesto corredo di antichità corografiche, che a ricostruire archeologicamente i siti antichi mediante la ricerca storica. Per la definizione del pensiero storico in questo momento cruciale del riemergere dell’antiquaria è importante il giudizio che Pio II dà nei suoi Commentari dell’opera di Biondo, rilevando l’importanza delle sue ricerche per chi dovesse riscriverle in modo più rispettoso dello stile e della correttezza dell’informazione.
Alla celebrazione del pontificato di Pio II Biondo aveva dedicato delle aggiunte e correzioni all’Italia illustrata, dopo la conclusione del suo lavoro. Ma era in sintonia con la politica di Pio II l’opera più scopertamente ideologica di Biondo, il quale dedicava nel 1454 proprio al pontefice che si era impegnato nel congresso di Mantova a condurre una nuova crociata, la Roma triumphans, una celebrazione della possibile rivincita, pur nella forma di un recupero erudito di antichità, della potenza romana sconfitta. Questa volta lo storico si muove sul fronte delle istituzioni politiche, amministrative e giudiziarie, dell’ordinamento militare, delle consuetudini della vita privata, della pratica del trionfo, che avevano fatta la vera grandezza della civiltà antica, una scelta assolutamente nuova per il suo ampio orizzonte, che andava ben oltre le pagine dedicate ai monumenti della città da Poggio nel De varietate fortunae (1448) e da Alberti nella Descriptio urbis Romae (1447), e proprio alle istituzioni romane da Andrea Fiocchi, circa due decenni prima, in un libro De magistratibus sacerdotiisque Romanorum. Dieci libri di analisi minuziose, quelli di Biondo, che discute e mette a confronto le varie testimonianze, affronta questioni di metodo a proposito di argomenti difficilmente solubili, non rinuncia a dilungarsi su aspetti particolari, non si preoccupa di passare con disinvoltura da una materia a un’altra. Ma soprattutto sono importanti in un discorso che pur comincia e si conclude con l’autorità di Agostino il quale si augurava il completo trionfo cristiano sulla civiltà pagana, le riflessioni che in sostanza rivalutavano riti e costumi della vita romana perché assimilabili a quelli cristiani, o, sulla stessa traccia del De civitate Dei recuperavano, per es., come motivo sufficiente della virtù l’amore della gloria. Nonostante la cornice ideologica in difesa degli ideali religiosi, insomma, l’ultima fatica di Biondo, già impegnatosi, come si è visto, sul tema della crociata, ribadisce la sua estraneità alla storia ecclesiastica e la tendenza a ricondurre al modello laico romano l’etica dei nuovi tempi.
Italia illustrata, 1° vol., Northern Italy, ed. C.J. Castner, New York 2005.
Italy illuminated, 1° vol., books I-IV, ed. J.A. White, Cambridge (Mass.)-London 2005.
De verbis Romanae locutionis, Ed. nazionale delle opere di Biondo Flavio, a cura di F. Delle Donne, Roma 2008.
Borsus, Ed. nazionale delle opere di Biondo Flavio, a cura di M.A. Pincelli, Roma 2009.
Italia illustrata, t. 1, Ed. nazionale delle opere di Biondo Flavio, a cura di P. Pontari, Roma 2011.
Bibliografia
B. Nogara, Scritti inediti e rari di Biondo Flavio, Città del Vaticano 1927.
R. Fubini, Biondo Flavio, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 10° vol., Roma 1968, ad vocem (con una bibl. completa fino agli anni Sessanta, e un discorso critico sulla fortuna).
P. Viti, Umanesimo letterario e primato regionale nell’“Italia illustrata” di Biondo Flavio, in Studi filologici, letterari e storici in memoria di Guido Favati, a cura di G. Varanini, P. Pinagli, 2° vol., Padova 1977, pp. 711-32.
G.M. Anselmi, Città e civiltà in Flavio Biondo, in Id., Umanisti, storici e traduttori, Bologna 1981, pp. 25-47.
I. Nuovo, “De Civitate Dei”-“Roma Triumphans”: teologia della storia e storiografia umanistica, in L’umanesimo di sant’Agostino, Atti del Congresso internazionale, (Bari 28-30 ottobre 1986), a cura di M. Fabris, Bari 1988, pp. 573-87.
O. Clavuot, Biondos “Italia illustrata”. Summa oder Neuschöpfung?, Tübingen 1990.
R. Cappelletto, «Peragrare ac lustrare Italiam coepi». Alcune considerazioni sull’Italia illustrata e sulla sua fortuna, in La storiografia umanistica, Atti del Convegno internazionale di studi, Messina (22-25 ottobre 1987), a cura di A. Di Stefano, G. Faraone, P. Megna, A. Tramontana, 1° vol., Messina 1992, pp. 192-203.
D. Defilippis, La rinascita della corografia tra scienza ed erudizione, Bari 2001.
R. Fubini, Storiografia dell’umanesimo in Italia da Leonardo Bruni ad Annio da Viterbo, Roma 2003.
D. Defilippis, Biondo Flavio, in Centuriae latinae II. Cent une figures humanistes de la Renaissance aux Lumières. À la mémoire de Marie-Madeleine de la Garanderie, éd. C. Nativel, Genève 2006, pp. 97-105.
G. Albanese, Le forme della storiografia letteraria nell’Umanesimo italiano, in La letteratura e la storia, Atti del IX Congresso nazionale dell’Associazione degli italianisti italiani, Bologna-Rimini (21-24 settembre 2005), a cura di E. Menetti, C. Varotti, prefazione di G.M. Anselmi, 1° vol., Bologna 2007, pp. 3-55.
Da Flavio Biondo a Leandro Alberti. Corografia e antiquaria tra Quattro e Cinquecento, Atti del Convegno di studi, Foggia (2 febbraio 2006), a cura di D. Defilippis, Bari 2009 (in partic. I. Mastrorosa, La ‘rinascita’ umanistica dell’Italia augustea: geografia dei confini e storia politica in Biondo Flavio, pp. 181-212; D. Defilippis, L’ultima crociata. Biondo, Piccolomini e l’indagine corografica, pp. 213-80).
Su Pomponio Leto:
Pomponio Leto e la prima Accademia romana, Atti della Giornata di studi, Roma (2 dicembre 2005), a cura di C. Cassiani, M. Chiabò, Roma 2007.
Pomponio Leto tra identità locale e cultura internazionale, Atti del Convegno internazionale, Teggiano (3-5 ottobre 2008), a cura di A. Modigliani, P. Osmond, M. Pade, J. Ramminger, Roma 2011 (in partic. M. Miglio, ‘Homo totus simplex’. Mitografie di un personaggio, pp. 1-15; R. Bianchi, Gli studi su Pomponio Leto dopo Vladimiro Zabughin, pp. 17-25; F. Niutta, Fortune e sfortune del “Romanae historiae compendium” di Pomponio Leto. Con notizie su alcuni codici, pp. 137-63; A. Mazzocco, Biondo e Leto: protagonisti dell’antiquaria quattrocentesca, pp. 165-78).
Più giovane di Biondo, amico di uno dei suoi figli, Giunio Pomponio (Diano, Lucania 1428 ca.-Roma 1497; Leto è probabilmente solo il suo nome accademico) visse quasi sempre a Roma assistendo, oltre ai papati di Niccolò V, di Callisto III, di Pio II, a quelli di Paolo II e di Sisto IV, ma nell’ambiente cittadino, non nell’entourage della curia. Fece scuola animando un circolo di eruditi che sono ricordati come membri dell’Accademia romana, denominata più correttamente sodalitas, un gruppo di colleghi e di giovani allievi legati dagli stessi ideali di recupero culturale dell’antichità romana. E proprio questa tendenza, che assumeva anche forme di vistosa evocazione della città pagana, lo fece incorrere, insieme ad alcuni amici, fra cui Bartolomeo Sacchi detto il Platina, nell’accusa di eterodossia e di complotto ai danni del papa Paolo II, e lo costrinse a fuggire a Venezia. Accusato anche di sodomia, fu estradato a Roma (1468), perché nella Repubblica veneta rischiava ugualmente la condanna, e quindi carcerato e trattato con esemplare durezza.
Il medesimo amore di Biondo per la storia e per l’illustrazione dei luoghi, dei costumi e delle istituzioni come complemento fondamentale della storia, ma una tempra diversa di filologo, di ricercatore e diffusore delle conoscenze erudite, fanno di Pomponio un fortunato autore almeno fino a tutto il Cinquecento. Da un approccio schiettamente erudito alle conoscenze storiche deriva il privilegio da lui accordato agli aspetti formali, caratteristici e perfino curiosi dell’antichità e l’esclusivo interesse, un vero e proprio gusto estetico elitario, per l’evocazione dei tempi antichi, con una sorta di disprezzo del moderno. Questa adesione appassionata agli antichi poté apparire un ritorno al paganesimo e una considerazione della grandezza e centralità di Roma non quale centro della cristianità, ma dell’impero romano. Contribuirono a questa fama l’eccentricità della sua vita e del suo abbigliamento, che imitava i costumi antichi, nonché l’impegno di collezionista, cominciato negli anni Settanta, di iscrizioni e di oggetti antichi con cui adornò la sua casa. Ovviamente la passione e la competenza di antiquario in quanto collezionista possono considerarsi all’origine, pur non essendo mancati illustri esempi fra gli umanisti e i signori del Quattrocento, di un fenomeno di lunga durata, nel quale il valore di testimonianza erudita degli oggetti antichi sopravanza quello della loro validità artistica.
Ispirandosi anche lui alla tradizione varroniana del De lingua latina e delle Antiquitates, che riguardavano sia le res humanae sia quelle divinae, la ricerca di Pomponio investe sia i monumenti sia le istituzioni, il sacerdozio e le leggi. Il gran numero di notizie, excerpta, scelta piuttosto frammentaria di argomenti diversi suggeriti dalle testimonianze antiche, dipende dal modo stesso di lavorare di Pomponio e costituisce anche il suo pregio, perché riguarda molteplici questioni, linguistiche e cronologiche, di ricostruzione e di illustrazione delle antichità. Una specie di guida per il piacere del pubblico e per l’utilità dei dotti – e infatti spesso si tratta di appunti raccolti dai discepoli nei percorsi dedicati ai visitatori – sono dunque le due opere De vetustate Romae e De Romanorum magistratibus, sacerdotiis, legibus (1474), frutto di un’accumulazione continua di materiale, pur sempre dovuto all’occasionalità del rinvenimento ed esposto con criterio sintetico. Opere difficilmente recuperabili per una edizione critica in una loro redazione definitiva, dove alla dovizia di informazioni e all’apertura verso fantasiose amplificazioni non corrisponde sempre l’esattezza critica e filologica, e dove si cercherebbe invano l’organicità con la quale Biondo aveva concepito le trattazioni complementari della Roma instaurata e della Roma triumphans. La dimensione scarna della trattazione, che cade spesso nel catalogo, non esclude tuttavia un contributo al pensiero storico da parte di Pomponio; al quale, oltre che un fortunato Romanae historiae compendium (postumo 1499), prontuario di storia tardoantica che abbraccia quattro secoli, si deve la dignità di una consapevole, e non comune, definizione della storia come imitatio vivendi, imitazione della vita.