Biopolitica
Per b. s'intende, soprattutto a partire dalla elaborazione che ne ha proposto M. Foucault, un'implicazione diretta e immediata tra la dimensione della politica e quella della vita intesa nella sua caratterizzazione strettamente biologica. In senso generale e mediato, l'agire politico si è sempre rapportato alla vita e, reciprocamente, la vita ha sempre costituito il quadro di riferimento delle dinamiche socio-politiche. Ma, mentre per una lunga fase tale rapporto è apparso indiretto, perché filtrato da mediazioni ordinative di tipo giuridico-istituzionale, a partire da un certo momento, situabile, per Foucault, nella seconda metà del 18° sec., esso ha assunto la forma di una connessione sempre più stretta e vincolante.
Già in Th. Hobbes, che pure è all'origine della filosofia politica moderna fondata sul binomio classico tra sovranità statale e diritti individuali, la posta in gioco prioritaria della politica è costituita dall'esigenza di conservazione della vita rispetto ai rischi di morte violenta che sono inerenti alle interrelazioni umane. Ma soprattutto dopo di lui il paradigma giuridico di sovranità viene affiancato, e a volte contraddetto, da un altro regime di discorso, e dalle pratiche a esso corrispondenti, orientato piuttosto al governo dei corpi individuali e del corpo collettivo della popolazione. Se il dominio sovrano si esercitava prevalentemente nel prelievo delle risorse, ma anche di sangue, di sudditi sottoposti al diritto di vita e di morte, il biopotere si rivolge piuttosto a quei processi - di riproduzione, risanamento, profilassi - i quali attengono al prolungamento e al miglioramento delle condizioni di vita. Da qui - oltre al ruolo sempre più centrale che viene assunto dal sapere medico - la nascita e lo sviluppo di quelle scienze della vita che sono la statistica demografica, l'igiene e anche l'economia intesa come tecnica per incrementare le ricchezze della popolazione.
Tuttavia la questione della b. - la complessità del suo concetto e la problematicità del suo significato - non è riducibile a questa traiettoria apparentemente virtuosa. Essa, già nel dispositivo teorico foucaultiano, implica un'antinomia costitutiva destinata a evidenziarsi sempre più nel corso dei due secoli successivi. Il processo generale di custodia e potenziamento della vita, infatti, non è separabile da un effetto contrapposto che sembra restaurare, a livello di massa, la pratica sovrana di decisione di morte.
Non a caso il rapporto Social insurance and allied services, noto come Piano Beveridge (1942) - vale a dire il più vasto intervento internazionale a favore della salute - si colloca nel pieno della Seconda guerra mondiale, cioè del più grande massacro della storia moderna. Secondo Foucault, responsabile di questo intreccio paradossale di protezione e negazione della vita - portato al culmine dal nazismo - è stato l'incontro della b. con il razzismo, esso stesso declinato in termini sempre più rigidamente biologistici: quando la salute e la pretesa purezza razziale di un popolo diventano l'obiettivo politico supremo, a esso può ben essere sacrificata una porzione di vita che viene considerata non altrettanto valida e dunque, come fu detto da alcuni, non degna di essere vissuta.
Pur avendolo portato al punto di massima elaborazione, non è stato Foucault a coniare il concetto di biopolitica. Già in qualche modo profilato nella cultura positivistica francese - A. Comte nel suo Système de politique positive (1851-1854) usa il neologismo biocrazia - e poi implicito in tutto il darwinismo sociale di impronta spenceriana, il nodo tra politica e vita è al centro della filosofia di F.W. Nietzsche. Assumere, come egli fa, la volontà di potenza come il fondamentale impulso umano non significa affermare soltanto che scopo ultimo della politica è l'espansione vitale degli individui e delle collettività, ma anche che i conflitti più significativi del nostro tempo avranno come oggetto e come campo di battaglia il corpo vivente dell'uomo. Rispetto alla radicalità, e anche all'articolazione, della concezione nietzschiana, la ripresa novecentesca del tema non ha lo stesso spessore concettuale e semantico. Sia la sua formulazione organicistica registrata negli anni Venti in Germania (per es., a opera di J. von Uexküll), sia la trascrizione etico-umanistica che ne fu effettuata in Francia negli anni Sessanta (da A. Starobinski ed E. Morin), sia, infine, quella sociobiologica, ancora attiva in alcuni settori della scienza politica americana (si veda la serie dei volumi collettanei Research in biopolitics, 1991-2001), appaiono appiattite su un calco naturalistico che perde gran parte della profondità della categoria.
Rispetto a tali declinazioni del concetto, non c'è dubbio che la prospettiva di Foucault risulti l'unica in grado di sostenere il confronto con quella di Nietzsche, di cui riprende più di un motivo, ma in un quadro ermeneutico che ne muta radicalmente i termini in senso critico e problematico. La sovrapposizione tra politica e vita, intuita drammaticamente da Nietzsche - e poi praticata in forma tanatopolitica dal nazismo - viene da Foucault interrogata e smontata in tutte le sue pieghe interne e i suoi effetti di senso. Essa, più che una costante naturale, è, per il pensatore francese, frutto di una storia complessa che vede alla sua origine il governo delle anime da parte dell'attività pastorale cristiana per poi pervenire, attraverso quelle che Foucault definisce tecnologie sei- e settecentesche della 'ragion di Stato' e dei 'saperi di polizia', al suo esito più intenso e contraddittorio nella tarda modernità. Neanche l'interpretazione di Foucault riesce a dissipare tutte le opacità di una categoria ambivalente e aporetica come quella in questione.
La stessa articolazione storica richiamata presenta alcune lacune e incongruenze relative soprattutto al rapporto tra la modernità e i suoi antecedenti, ma anche alla sua deriva totalitaria. Il potere sovrano è l'origine o lo sfondo di contrasto su cui si ritaglia la biopolitica? E ancora, il processo biopolitico va inteso in senso prevalentemente affermativo, come potenza produttiva di vita o nei termini negativi della sua chiusura impositiva e violenta?
Probabilmente assillato da simili interrogativi, ai quali non seppe dare una risposta definitiva, già alla fine degli anni Settanta del Novecento Foucault abbandonava il terreno scivoloso della b. a favore di temi meno inquietanti e controversi. Bisogna aspettare gli anni Novanta perché l'enigma della b. torni a interessare la filosofia contemporanea. I motivi di questa ripresa d'interesse - registrata soprattutto in Italia con i lavori di G. Agamben, di A. Negri e di R. Esposito - sono, prima ancora che di tipo teoretico, di carattere oggettivo. Mai come in questi anni a cavallo del nuovo millennio tutti gli elementi topici del regime biopolitico sono venuti prepotentemente alla ribalta. Dal carattere etnico dei conflitti internazionali alla indistinzione crescente tra politica e polizia nella gestione dei problemi sociali, dalla migrazione di un numero sempre crescente di uomini e di donne sprovvisti di qualsiasi statuto giuridico e spesso ridotti allo stato informe di nuda vita alla proliferazione corrispondente della ingerenza umanitaria, anch'essa esterna alla sfera regolata dei diritti, dalla diffusione ossessiva della sindrome della sicurezza (sociale, ambientale, biologica) alla ribadita centralità della politica sanitaria in tutti i programmi di governo, la questione della vita sembra accamparsi al centro dell'esperienza contemporanea come l'unica fonte di legittimazione indiscussa. La stessa penetrazione della scienza nel corpo umano attraverso l'inarrestabile incremento delle biotecnologie - con tutti i problemi etici, sociali, antropologici che comporta - determina una mobilitazione di interesse proporzionale al deperimento delle forme tradizionali di partecipazione politica sul piano delle istituzioni rappresentative. Dappertutto, in politica interna e in politica internazionale, i paradigmi universalisti della sovranità e della legge uguale per tutti sembrano cedere di fronte al proliferare incontenibile delle differenze storiche, sessuali, nonché religiose.
In questa situazione in continuo mutamento, un atteggiamento di difesa attardata della semantica politica moderna appare sempre meno praticabile. Ma ciò non vuol dire che si riproducano le condizioni primonovecentesche di un biopotere totalitario. Al contrario, pare determinarsi una sorta di socializzazione, o di 'immanentizzazione', della fenomenologia biopolitica che vede crescere, almeno in Occidente, una richiesta di gestione individuale sul proprio corpo da parte di soggetti sempre meno inclini a farsi rappresentare dalle tradizionali istituzioni statali, partitiche e sindacali. Tale trasformazione, legata alle dinamiche di globalizzazione tecnologica nella parte ricca del mondo - con il relativo arretramento di quella povera a uno stadio di mera sussistenza, quando non di costante esposizione alla morte - non si presta certo a una valutazione compatta e indifferenziata. Di essa si possono mettere in evidenza i caratteri negativi, addirittura catastrofici o anche quelli, almeno potenzialmente, positivi e innovativi. Ciò che appare indifferibile è la decostruzione, già anticipata dalla realtà, del lessico politico-giuridico moderno a favore di una nuova idea, e pratica, politica che, comunque la si definisca, sarà situata nell'orizzonte di senso di una vita irriducibile ad astratti modelli normativi.
bibliografia
G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino 1995.
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