Bioterrorismo
Nella maggior parte dei Paesi, la difesa contro le armi biologiche ha ricevuto scarsa attenzione a causa dell’improbabilità del loro utilizzo e, soprattutto, dell’intrinseca difficoltà di stabilire contromisure efficaci. Dai primi anni Ottanta del 20° sec., una serie di attacchi terroristici, il più celebre dei quali (pur se dovuto, sembra, a motivazioni puramente individuali) è stato quello del settembre-ottobre 2001 negli Stati Uniti, consistente nell’invio di lettere contaminate con spore di antrace (v. oltre), ha dimostrato che in questo settore la minaccia è rappresentata principalmente dal bioterrorismo, fenomeno anche più difficile da prevenire ed eradicare della guerra biologica. Lo scopo di questo saggio sarà quindi quello di analizzare tale nuovo tipo di terrore e le possibili soluzioni per prevenirlo, alla luce dei progressi in campo biotecnologico.
Il bioterrorismo si può definire come il rilascio intenzionale di microrganismi patogeni o parti di essi, per provocare panico, terrore, morte o malattie nella popolazione, al fine di rivendicazioni politiche, religiose o economiche. Dal punto di vista strettamente accademico, questo tipo di terrorismo appare un derivato della guerra biologica vera e propria: entrambi utilizzano le stesse armi, ma con finalità, modalità di diffusione e mezzi diversi. La maggior parte degli agenti patogeni utilizzati sono di semplice reperimento e di facile produzione in laboratori diagnostici o di ricerca. Questa caratteristica distingue nettamente tali armi dalle altre non convenzionali, come l’arma nucleare e quella chimica, nelle quali il reperimento e la manipolazione delle materie prime, nonché la preparazione dei prodotti finali, implicano non solo l’impiego di ingenti risorse finanziarie ma anche, e soprattutto, un’elevatissima tecnologia. Un’altra distinzione è quella basata sui mezzi usati per annullare o quanto meno ridurre le capacità operative dell’avversario. Le armi convenzionali usano mezzi fisici, quali proietti, schegge o altri oggetti perforanti in grado di provocare lesioni sul corpo umano o danni sui mezzi o sui materiali. Tra le armi non convenzionali, quella nucleare sfrutta mezzi fisici di altro tipo, come l’onda d’urto, il calore e le radiazioni ionizzanti, mentre l’arma chimica utilizza sostanze chimiche tossiche per l’organismo. L’arma biologica si basa sull’impiego di aggressivi biologici, cioè i microrganismi e le sostanze chimiche da questi prodotte (tossine), capaci di indurre uno stato di malattia nell’uomo, negli animali o nelle piante e/o provocare il deterioramento dei materiali, utilizzabili a scopo bellico per le loro caratteristiche biologiche e tecniche.
In generale, le ragioni che rendono crescente l’interesse per il possibile (e deprecabile) utilizzo delle armi biologiche sono molteplici. La prima consiste nell’economicità della produzione e dell’impiego: qualsiasi laboratorio di microbiologia attrezzato in modo anche approssimativo sarebbe in grado di produrre grandi quantità di agenti patogeni; per l’impiego, possono essere utilizzati sistemi estremamente economici quanto efficaci, che vanno dalla semplice frantumazione di un involucro all’uso di più sofisticati mezzi di lancio o di ordigni ad apertura predeterminata. Altre motivazioni sono la notevole complessità e difficoltà nelle procedure di rivelazione e identificazione, circostanza che rende l’arma biologica particolarmente pericolosa e facilmente utilizzabile in azioni di sabotaggio; l’opportunità di effettuare un’azione distruttiva che colpisce essenzialmente gli esseri viventi, lasciando intatte le infrastrutture e i materiali; l’elasticità di impiego, con la possibilità di contaminare vaste aree se si utilizzano aggressivi biologici contagiosi, o di colpire specifici obiettivi se si utilizzano aggressivi biologici non contagiosi disseminati su specifici substrati; il fatto di scegliere o di creare (mediante le tecniche innovative dell’ingegneria genetica) malattie con requisiti biologici e tecnici adatti alla specifica finalità di impiego; la possibilità di convertire facilmente alla produzione di aggressivi biologici impianti farmaceutici, laboratori biologici di ricerca e sviluppo o impianti industriali connessi al settore biologico.
Fortunatamente, sul piano pratico numerose difficoltà hanno limitato, al di là delle dichiarazioni e degli accordi internazionali, l’uso dell’arma biologica. Fra queste possono essere menzionate: l’influenza delle condizioni meteoclimatiche sull’efficacia dell’aggressivo biologico; l’evoluzione relativamente lenta della maggior parte delle infezioni dovute a microrganismi (le tossine, invece, generalmente agiscono con estrema rapidità); la necessità, infine, da parte dell’aggressore, di disporre di un’adeguata terapia e profilassi per la malattia utilizzata, allo scopo di evitare un possibile ‘effetto boomerang’.
Cenni storici
L’evoluzione delle moderne armi biologiche, e insieme della capacità di identificare e coltivare gli agenti eziologici, prende l’avvio dalle attività svolte tra il 1932 e il 1945 in Cina (allora in parte occupata dal Giappone) da un’unità dell’esercito giapponese che ebbe diverse sedi (tutte però in località vicine alla capitale della Manciuria, Harbin) e varie denominazioni, l’ultima delle quali (e quella con cui è oggi comunemente nota) fu Unità 731. Nel suo ambito si svolsero le più sofisticate ricerche sulle armi biologiche offensive sviluppate nel mondo durante la Seconda guerra mondiale: furono prodotti molti ceppi di batteri patogeni (tra cui Bacillus anthracis, Neisseria meningitidis, Shigella spp., Vibrio cholerae e Yersinia pestis), e la deliberata infezione di ampie aree di diverse province cinesi mediante tali batteri causò centinaia di migliaia di morti. Nell’Unità 731 furono inoltre eseguiti esperimenti su prigionieri civili e militari di diverse nazionalità (cinesi, coreani, statunitensi, britannici, australiani e neozelandesi) che provocarono migliaia di decessi.
Un altro caso di guerra biologica (l’unico in Europa nel corso del 20° sec.) avvenne nel 1943-44 in Italia, precisamente nell’Agro Pontino (area paludosa e malarica bonificata nel corso del decennio precedente), nella zona del Paese allora sotto l’occupazione tedesca; il caso è stato recentemente ricostruito dallo storico inglese Frank M. Snowden (2006) sulla base di documenti tratti da diversi archivi. Su consiglio del celebre malariologo tedesco Erich Martini, il quale sapeva che l’Anopheles labranchiae (il migliore vettore del Plasmodium falciparum, il più dannoso dei batteri che provocano la malaria) è l’unica varietà locale di zanzara le cui larve sopravvivono anche in acque salmastre, i reparti tedeschi del genio invertirono il funzionamento delle pompe idrauliche che convogliavano le acque in eccesso verso i canali di drenaggio e poi verso il mare, e in tal modo fecero sì che l’acqua di mare penetrasse nella terraferma. Si ripristinarono così le condizioni per far acquisire all’Anopheles un vantaggio selettivo nei confronti di altre specie di zanzara e, di conseguenza, nell’area venne reintrodotta la malaria; nelle intenzioni dei tedeschi, la malattia si sarebbe dovuta diffondere tra i reparti alleati che dovevano attraversare l’Agro Pontino nel corso dell’avanzata verso Roma, che si presumeva difficile e molto lenta. Per ostacolare le cure, inoltre, vennero confiscate tutte le riserve di chinino (il più potente presidio antimalarico dell’epoca) presenti nei magazzini del Ministero della Sanità a Roma. L’obiettivo, però, non fu raggiunto, in quanto le truppe alleate attraversarono l’Agro Pontino con grande rapidità, disponendo inoltre di proprie scorte di medicinali antimalarici. Gli unici a essere danneggiati furono gli abitanti della zona, rientrati nelle loro case a partire dal giugno 1944, dopo il ritiro delle truppe tedesche: tra di essi (secondo i rapporti del locale Comitato provinciale antimalarico) i casi di malaria, che nel 1942 e 1943 erano stati in totale 3010, nel 1944 e 1945 furono 97.641 (su circa 250.000 ab.): un aumento di oltre 32 volte.
Negli anni Settanta, in Unione Sovietica avvennero due gravi incidenti provocati dalle armi biologiche, entrambi dovuti a fuoriuscite accidentali di agenti patogeni da installazioni militari in cui si svolgevano ricerche in tale settore. Tra l’agosto e l’ottobre del 1971, presso Aral´sk (oggi in Kazakistan), ci furono 10 casi di vaiolo, di cui 3 mortali. Nell’aprile del 1979, a Sverdlovsk (oggi Ekaterinburg, nella Federazione Russa), un’epidemia di antrace fu responsabile della morte di almeno 68 persone (ma probabilmente circa 100); la vera causa dell’incidente venne ammessa ufficialmente solo nel febbraio del 1992 (a opera dell’allora presidente russo Boris El´cin).
Negli Stati Uniti, rispettivamente nel 1984 e nel 1995, avvennero due episodi di contaminazione deliberata di cibo: nel primo caso (a The Dalles, Oregon), 751 persone vennero contaminate con Salmonella typhimurium, nel secondo (a Island Park, Idaho), almeno 15 persone (ma probabilmente 82) vennero contaminate con Shigella dysenteriae.
Drammaticamente famoso l’episodio del 2001, cui si è accennato in apertura del saggio, avvenuto sempre negli Stati Uniti e relativo all’epidemia di antrace cutaneo e polmonare causata dalla spedizione di lettere contenenti spore di antrace in Florida e a Washington («Emerging infectious diseases», 2002, n. monografico). Secondo le cifre ufficiali dell’epoca, 22 persone (ma 68 secondo studi recenti) furono colpite dalle spore contenute nelle lettere, e 5 di queste morirono. Il ceppo di antrace Ames, responsabile delle forme morbose, era lo stesso utilizzato in vari laboratori militari e siti di produzione di armi biologiche degli Stati Uniti prima della loro dismissione, avvenuta unilateralmente alla fine degli anni Sessanta. Il probabile autore delle lettere, Bruce E. Ivins (suicidatosi nel luglio 2008, quando stava per essere incriminato), aveva infatti lavorato per anni come microbiologo proprio nel più importante di questi laboratori militari, l’USAMRIID (United States Army Medical Research Institute of Infectious Diseases) di Fort Detrick, a Frederick nel Maryland.
Gli agenti biologici
I microrganismi patogeni o le tossine perché possano essere definiti aggressivi e, quindi, essere utilizzati quali agenti di guerra biologica devono rispondere almeno alla maggior parte dei seguenti requisiti: 1) virulenza adeguata alla finalità di impiego; 2) bassa carica microbica minima; 3) bassa dose letale media; 4) periodo di incubazione noto e adeguato alle finalità di impiego; 5) elevata stabilità alla conservazione; 6) persistenza adeguata alle finalità di impiego; 7) difficoltà di rivelazione/identificazione; 8) facilità di produzione in quantità significative dal punto di vista militare; 9) facilità di disseminazione; 10) controllabilità, da parte dell’attaccante, della diffusione della malattia; 11) scarsa o nulla sensibilità ai presidi farmacologici e immunitari di cura e profilassi conosciuti.
Metodologia di impiego degli aggressivi biologici
L’impiego intenzionale dell’arma biologica avviene per disseminazione degli aggressivi biologici sotto forma di sospensioni liquide o di polveri secche finemente suddivise. I metodi di disseminazione si basano sull’esistenza di tre primarie vie di penetrazione attraverso cui i patogeni possono introdursi nell’organismo per stabilire l’infezione o l’intossicazione. Tali vie di penetrazione sono l’apparato respiratorio, la pelle e l’apparato digerente, cui corrispondono rispettivamente l’aerosolizzazione, la disseminazione per mezzo di vettori e il sabotaggio. Affinché l’aerosolizzazione sia efficace, è necessario che le particelle di aerosol penetrino adeguatamente all’interno di un organismo ospite per stabilirvi un determinato stato di malattia. Tale possibilità è subordinata alle dimensioni delle particelle dell’aerosol, che deve, in prima istanza, penetrare nell’albero respiratorio ed esservi trattenuto a livello delle sue porzioni più profonde (alveoli polmonari). Le particelle di aerosol hanno dimensioni comprese fra 1 e 5 μm di diametro.
L’aerosol biologico può essere solido o liquido. La forma liquida si riferisce soprattutto alle sospensioni di microrganismi patogeni, i quali traggono da esse gli elementi necessari alla propria sopravvivenza nell’ambiente (fattori nutritivi, umidità ecc.); gli aerosol batterici in forma liquida appaiono più sensibili alle radiazioni di quelli in forma di polveri secche. L’aerosol biologico è soggetto all’azione di una serie di fattori meteoclimatici, che contribuiscono in modo decisivo alla formazione della nube e al suo movimento lungo una determinata direzione.
Una seconda importante via di penetrazione è quella cutanea. Generalmente, la penetrazione dei patogeni attraverso la pelle è resa possibile dalla puntura di alcune specie di artropodi, che possono svolgere il ruolo di vettori per determinate malattie. Essi, di solito, appartengono alla classe degli Insetti e possono definirsi come vettori obbligati (zanzare) e facoltativi (mosche).
L’impiego dei vettori quali mezzi di disseminazione è reso possibile da due elementi caratteristici: capacità di penetrazione della barriera cutanea, che rende sostanzialmente inefficace l’uso della maschera finalizzata alla protezione delle vie respiratorie; ciclo vitale del vettore, che offre la possibilità di ottenere un notevole grado di persistenza dell’agente su un determinato obiettivo.
Per sabotaggio, in generale, si intende il rilascio del contaminante su un determinato substrato, realizzato subdolamente e senza una sostanziale possibilità di controllo. Gli aggressivi biologici possiedono caratteristiche che li rendono idonei alle azioni di sabotaggio e, soprattutto, a operazioni che non richiedono un supporto logistico elevato. Tale possibilità deriva dalla notevole varietà di agenti utilizzabili, dalla difficoltà di identificarli, dalle molteplici modalità di impiego, ma soprattutto dalle minime quantità (per alcuni agenti, in particolare le tossine) necessarie per causare determinate infezioni o intossicazioni.
Classificazione ed elenchi degli agenti biologici
Oltre ai criteri di riferimento rispondenti ai canoni classici della microbiologia sistematica (miceti, batteri, ricketsie, virus, tossine), è possibile anche una classificazione che faccia riferimento all’oggetto di un eventuale impiego di agenti biologici per fini bellici o terroristici: si può così parlare di aggressivi biologici antiuomo, antianimale, antipianta. Tale suddivisione possiede però una validità relativa, poiché alcuni patogeni potrebbero essere compresi in una o più di tali categorie. Infatti, i più classici agenti biologici finora studiati sono in grado di provocare contemporaneamente malattie nell’uomo e negli animali (per es., antrace, brucella, febbri emorragiche).
In base al loro utilizzo, gli aggressivi biologici si distinguono in quelli di impiego probabile e quelli di impiego possibile. Anche tale suddivisione non risponde pienamente alle esigenze, in quanto la maggiore o minore probabilità di impiego per un agente dipende da molti fattori, intrinseci o di contorno, che non sono facilmente ponderabili. Generalmente si ritiene che la maggiore probabilità di impiego sia posseduta da quegli aggressivi che possono essere disseminati in forma di aerosol biologico (per es., il Bacillus anthracis).
È opportuno ricordare che, in aggiunta agli aggressivi biologici sopra citati, altri, caratterizzati da nuove e insospettabili proprietà, possono essere prodotti grazie alle possibilità offerte dall’uso delle tecniche del DNA ricombinante, note anche come tecniche di ingegneria genetica. Si ritiene, comunque, che un aggressore potrebbe far ricorso a queste tecniche non solo per ottenere nuovi agenti di guerra biologica, ma anche per rendere più agevole la produzione e la conservazione di quelli già esistenti, per aumentarne la resistenza agli antibiotici e ai chemioterapici, per modificarne la struttura antigenica al fine di opporsi in maniera efficace alle difese immunitarie dell’organismo ospite, e per renderne più difficile la rivelazione o l’identificazione con metodi immunologici.
Ogni organizzazione nazionale e internazionale, civile o militare, ha individuato una propria lista di agenti biologici, basata su approcci parametrici diversi in quanto originati da differenti punti di vista. La più nota è quella dei Centers for disease control and prevention (CDC) di Atlanta, in cui gli agenti biologici di possibile utilizzo come armi sono stati classificati in tre categorie, A, B oppure C, sulla base di quattro criteri: l’impatto sulla salute pubblica e il tasso di mortalità; la facilità di disseminazione e di trasmissione da persona a persona; la possibilità di causare panico e disgregazione sociale; il livello richiesto di preparazione e di azione per la difesa della salute pubblica (http://www.cdc. gov./agent/agentlist-category.asp, 31 marzo 2010).
Principali agenti
Nella classificazione dei CDC, gli agenti di categoria A sono: Variola major (virus che produce il vaiolo), Bacillus anthracis (antrace), Yersinia pestis (peste), Clostridium botulinum (botulismo), Francisella tularensis (tularemia), filovirus e arenavirus (febbri emorragiche virali). Di seguito se ne illustrano le principali caratteristiche, in base al manuale del citato USAMRIID (USAMRIID’s medical management of biological casualties handbook, ed. J.B. Woods, 20056).
La Variola major, il principale tra i virus del vaiolo, viene considerata un agente biologico molto pericoloso, in quanto, non essendo più stata praticata la vaccinazione specifica dal 1985, la maggioranza della popolazione mondiale non è attualmente protetta. Non esiste, inoltre, alcuna terapia efficace, e la malattia è estremamente contagiosa, come dimostrato drammaticamente dalle due epidemie sviluppatesi in Europa negli anni Settanta. Attualmente il virus è ufficialmente conservato solamente negli Stati Uniti (nella sede di Atlanta dei CDC) e nella Federazione Russa (a Koltsovo, presso Novosibirsk, nel Centro statale per la ricerca sulla virologia e le biotecnologie). Le dosi di vaccino disponibili sono decisamente insufficienti per proteggere la popolazione in caso di attacco terroristico, anche se uno studio ha dimostrato che le attuali scorte potrebbero essere diluite da 5 a 10 volte senza perdita di efficacia (Frey, Couch, Tacket et al. 2002). Inoltre, il Dipartimento della difesa degli Stati Uniti sta sviluppando un nuovo vaccino, derivato da colture cellulari.
Il Bacillus anthracis è considerato uno degli agenti biologici utilizzabili con maggiore probabilità, a causa di alcune sue caratteristiche: la facilità di manipolazione e di produzione, l’alta resistenza agli agenti atmosferici, la possibilità di disseminazione per mezzo di bombe, la semplicità di conservazione, la severità delle manifestazioni cliniche, la difficoltà nella diagnosi (a causa del quadro clinico aspecifico all’esordio della forma inalatoria, che può essere erroneamente diagnosticata come influenza). I drammatici episodi di antrace polmonare avvenuti negli Stati Uniti nel 2001 hanno dimostrato che alcune informazioni sulla malattia, basate finora su casi aneddotici, possono essere ormai considerate inaccurate. Durante questi episodi, infatti, l’assunzione immediata di antibiotici specifici, come la ciprofloxacina, ha ridotto la mortalità a meno del 50%, rispetto a quella fino ad allora stimata, intorno al 90%. Un vaccino specifico (anthrax vaccine adsorbed, AVA) è stato autorizzato nel 1970 dalla Food and drug administration (FDA); il complesso protocollo di vaccinazione, insieme a una quantità non trascurabile di effetti collaterali, ne rende però poco diffuso l’utilizzo, e lo sviluppo di un nuovo vaccino ricombinante rappresenta una priorità per molti Paesi.
Il batterio Yersinia pestis, che provoca la peste, solitamente è trasmesso all’uomo dalla puntura della pulce dei ratti. L’infezione può indurre due tipi di sindromi, la peste polmonare e la peste bubbonica, a seconda dei siti di ingresso dei batteri. La forma polmonare, la più virulenta, è trasmessa direttamente da uomo a uomo per mezzo di microgoccioline di saliva. La peste bubbonica non trattata ha un tasso di mortalità del 25-50%, mentre la peste polmonare è solitamente fatale. La trasmissibilità interumana è molto elevata. Nella terapia e nella prevenzione, hanno dimostrato una certa efficacia alcuni antibiotici (ciprofloxacina, doxiciclina, streptomicina, gentamicina). Non esiste invece alcun vaccino.
Il Clostridium botulinum è un bacillo gram-positivo sporigeno, in grado di produrre sette forme antigenicamente differenti di neurotossine botuliniche; queste sono i più potenti fattori letali naturali tra le sostanze tossiche, e possono penetrare nell’ospite attraverso inalazione o ingestione, inducendo in entrambi i casi lo stesso quadro clinico. Non c’è trasmissibilità interumana. Il tasso di mortalità è alto (se non si interviene con supporto respiratorio), ma la somministrazione precoce di un’antitossina trivalente specifica risulta efficace. Nel 1970 è stato introdotto un vaccino pentavalente tossoide, ma recenti prove cliniche hanno dimostrato che la sua efficacia è limitata.
La Francisella tularensis provoca la tularemia, rara infezione naturale trasmessa generalmente attraverso i conigli domestici. Ci sono due tipi di microrganismi (tipo A e tipo B), diversi per distribuzione geografica e livello di gravità della malattia che inducono. La tularemia può essere scambiata per polmonite o per una patologia ulceroghiandolare, a seconda della via di ingresso dei batteri. La somministrazione di antibiotici (streptomicina, gentamicina) risulta efficace. Un vaccino specifico è in corso di sperimentazione presso la FDA.
I filovirus (come Ebola e Marburg) e gli arenavirus (come Lassa) si trasmettono attraverso alcuni animali (principalmente topi, ratti, artropodi, zanzare). Producono le febbri emorragiche virali, termine generico con il quale si indicano sindromi diverse ma tutte caratterizzate da forti febbri, mialgie, cefalee e sintomi gastrointestinali, seguiti da eruzioni maculopapulari con evoluzione in manifestazioni emorragiche di vario tipo. La contagiosità interpersonale è moderata, e la mortalità risulta da moderata ad alta a seconda del tipo di virus. Non esistono vaccini; non esiste nemmeno una terapia generale, ma la ribavirina ha dimostrato una certa efficacia nel trattamento di alcune febbri prodotte dagli arenavirus.
La categoria B degli agenti biologici comprende: Coxiella burnetii (febbre Q), Brucella spp. (brucellosi), Burkholderia mallei (morva), Burkholderia pseudomallei (melioidosi), Alphavirus (encefaliti virali), Rickettsia prowazekii (tifo esantematico), tossine (ricina, tossina epsilon, enterotossina B stafilococcica), Chlamydia psittaci (psittacosi), batteri che rappresentano minacce per la sicurezza alimentare (Salmonella spp., Shigella dysenteriae, Escherichia coli O157:H7) o per la sicurezza dell’acqua (Vibrio cholerae, Cryptosporidium parvum). La categoria C comprende agenti emergenti come il Nipah virus o l’Hantavirus.
Epidemiologia delle infezioni deliberate
Le curve epidemiche, basate sul numero di casi identificati durante un determinato periodo di tempo, hanno caratteristiche completamente diverse a seconda della provenienza (naturale o deliberata) delle epidemie. Nelle epidemie naturali, il numero dei casi aumenta gradualmente con l’incremento del numero di persone che entra in contatto con altri pazienti o vettori capaci di trasmettere e diffondere la malattia. Dopo un certo periodo di tempo, variabile a seconda del tipo di organismo infettante, l’intera popolazione è immune e l’epidemia cessa. Al contrario, nelle forme deliberate, cioè dovute al rilascio intenzionale di patogeni, la curva epidemica è compressa per il contemporaneo contagio da una singola fonte. Se l’agente biologico utilizzato è anche contagioso, è possibile osservare un secondo picco epidemico, coincidente con la diffusione secondaria del microrganismo.
Possibili segni suggestivi di epidemie di malattie infettive inusuali potenzialmente associate al rilascio intenzionale di agenti di categoria A sono: a) associazione numerica temporale o geografica di un’epidemia causata da una forma morbosa infettiva, come una febbre inusuale associata a sintomi polmonari o arrossamenti cutanei; b) una distribuzione inusuale, per età di insorgenza o sesso, in malattie apparentemente comuni; c) un numero elevato e inatteso di casi di paralisi flaccida acuta, che suggerisce un rilascio di tossina botulinica; d) comparsa di un focolaio epidemico di una malattia trasmessa da vettori in un’area priva di vettori naturali; e) dati indicativi di un’epidemia riferibile a una sorgente di infezione comune.
Biotecnologie
All’interno della comunità scientifica biomedica appare sempre più verosimile la possibilità che la continua rivoluzione nella biologia, con le innovazioni nella ricerca e nello sviluppo della genomica, della biologia cellulare e della microbiologia, venga impropriamente utilizzata nella progettazione di nuove armi biologiche (v. oltre Criteri di identificazione della ricerca duale).
Applicando la tecnologia attualmente disponibile alle armi biologiche offensive, sarebbe già ora possibile, tra le altre cose, incrementarne la resistenza agli antibiotici, modificarne le proprietà antigeniche o trasferirne determinate proprietà patogene. Un tale ‘confezionamento’ degli agenti biologici bellici classici potrebbe renderli più difficili da individuare, da diagnosticare e da trattare. Potrebbe, in pratica, renderli maggiormente utili ai fini militari e terroristici e, quindi, aumentare la tentazione di utilizzarli.
In un rapporto sulla proliferazione delle armi non convenzionali (Proliferation. Threat and response), pubblicato nel 1996 e riattualizzato nel 1997 e nel 2001, il Dipartimento della difesa degli Stati Uniti ha identificato tra l’altro alcuni elementi significativi ai fini dello sviluppo delle armi biologiche del futuro, per es. l’uso crescente di vettori geneticamente manipolati, o la crescente comprensione dei meccanismi delle malattie infettive e del sistema di difesa immunitario.
La continua comparsa di cloni resistenti agli antibiotici negli agenti patogeni umani più comuni, suggerisce che prima o poi il nostro arsenale di composti antimicrobici potrà non essere più efficace. Allo stesso tempo, la rapida disponibilità dei dati di sequenza di proteine e DNA provenienti dagli agenti patogeni naturali, insieme agli avanzamenti nelle tecnologie di trasformazione e transgeniche, potrebbe facilitare lo sviluppo di armi bioingegnerizzate. Gli sforzi continui nello studio delle funzioni del genoma, usando gli allineamenti del DNA e l’analisi del proteoma, hanno cominciato a rivelare, al suo interno, quali geni sono richiesti per l’infezione e qual è il loro coinvolgimento nella virulenza e nella resistenza agli antibiotici. Questo potrebbe accelerare ulteriormente il potenziale uso improprio dei dati del genoma.
Dual benefit
Le innovazioni derivate dalla rivoluzione genomica possono però essere usate anche per migliorare la rilevazione, la protezione e il trattamento, in maniera tale che gli agenti biologici bellici non vengano mai impiegati. Le ricerche sul genoma compiute nei laboratori di tutto il mondo potranno diffondere, nell’immediato futuro, la sequenza completa di centinaia fra i maggiori agenti patogeni batterici, fungini e parassiti dell’uomo, degli animali e delle piante. Questa enorme massa di dati di sequenza del DNA costituisce un vantaggio enorme nella ricerca sulle malattie contagiose e nella genetica comparativa. Ha già permesso di comprendere meglio la biologia degli agenti che provocano malattie, ed è utilizzata per la messa a punto di sistemi diagnostici, composti antimicrobici e nuovi vaccini.
Fortunatamente, gli stessi progressi nel genoma microbico che possono essere usati per produrre armi biologiche si possono utilizzare per realizzare contromisure. Uno dei contributi più importanti può venire dall’elaborazione di metodi più veloci per la rivelazione degli agenti biologici, indipendentemente dal fatto che essi siano stati ingegnerizzati o meno. Come primo passo nello sviluppo di nuove tecnologie, non è affatto irragionevole ipotizzare la costruzione di un ‘chip DNA’, contenente tutte le sequenze codificanti dei più importanti agenti patogeni isolati nell’uomo, negli animali e nelle piante. La lettura di un tale rivelatore potrebbe fornire informazioni su un agente da guerra biologica, anche se questo contenesse i geni o i plasmidi di altre specie, avesse proprietà insolite di antibiotico-resistenza o di virulenza, o fosse un organismo sintetico costruito con più geni. La capacità di identificare e caratterizzare rapidamente un potenziale agente da guerra biologica in una singola analisi ridurrà notevolmente i ritardi insiti nei metodi di rivelazione correnti. Se la verifica di un attacco e l’identificazione di un agente contagioso potranno essere compiuti rapidamente, permettendo così una risposta veloce e altamente efficace, questo potrà rappresentare un possibile fattore dissuasivo all’utilizzo degli agenti da guerra biologica.
Lo sviluppo di nuovi vaccini rappresenta un altro campo che già ha cominciato a trarre beneficio dalla disponibilità delle informazioni sulla sequenza genomica degli agenti patogeni. Questo approccio, partendo da uno studio in silico di tutte le possibili varianti antigeniche, permette di individuare nuovi possibili vaccini capaci di conferire immunità protettiva verso gli agenti patogeni (Capecchi, Serruto, Adu-Bobie et al. 2004).
Un terzo settore in cui i progressi nella genomica microbica offrono grandi prospettive è la progettazione di nuovi composti antimicrobici. Gli attuali antibiotici possono agire sulla sintesi del DNA, delle proteine e della parete cellulare. Il motivo per cui queste tre vie rappresentano gli obiettivi eccellenti per i composti antimicrobici è che esse costituiscono funzioni cellulari essenziali. Di conseguenza, ogni altra proteina essenziale per la sopravvivenza delle cellule rappresenta un obiettivo possibile per una nuova categoria di antibiotici. Metodi quali la mutagenesi mediante trasposoni e la tecnologia di espressione genica in vivo, per es., hanno consentito uno screening su larga scala per le proteine essenziali in vitro e in vivo, anche nei casi in cui la funzione biologica di una proteina non è conosciuta. I nuovi bersagli identificati con tali programmi di screening possono essere confrontati con i dati contenuti nelle biblioteche combinatorie di chimica, per identificare potenziali piccole molecole inibitrici della funzione proteica. Questo genere di approccio utilizza pienamente le informazioni dei data-base genomici, permettendo al sistema di rivelazione di guidare l’identificazione di nuovi bersagli.
Il completamento della sequenza genomica umana fornisce inoltre un nuovo punto di partenza per una migliore comprensione dei processi infettivi patologici, e questo, potenzialmente, risulta di enorme utilità nella lotta contro le tecniche di guerra biologica. Usando la sequenza di DNA e l’approccio al proteoma, dovrebbe diventare possibile analizzare la cascata degli eventi che si presentano in una cellula umana in seguito all’infezione da parte di un agente patogeno (o l’assorbimento di un farmaco o di una molecola modulatrice dell’immunità), così come gli eventi che si verificano nell’agente patogeno stesso. Poiché le funzioni di circa la metà di tutti i geni (sia negli agenti patogeni sia nell’uomo) sono attualmente sconosciute, i dati derivanti dagli studi funzionali sul genoma dovrebbero rivelare nel corso dei prossimi anni proteine completamente nuove e le vie coinvolte nei processi patogeni. Queste informazioni potranno essere utilizzate nel continuo lavoro di progettazione di nuovi vaccini e di composti antimicrobici, in modi che in questa fase non possiamo neppure immaginare.
Criteri di identificazione della ricerca duale
In questi ultimi anni al termine ricerca duale, o dual use, sono stati attribuiti significati diversi. Alcune istituzioni pubbliche identificano la ricerca duale sulla base della selezione di alcuni microrganismi patogeni. Un altro approccio, piuttosto che concentrarsi su una specifica lista di agenti biologici, prende in considerazione l’identificazione di alcuni fattori esterni che possono facilitare l’immediato sviluppo di un’arma biologica. Altri ancora considerano il tipo di esperimenti coinvolti nella ricerca. Negli Stati Uniti, al fine di razionalizzare tali definizioni e soprattutto per dare raccomandazioni sulle varie implicazioni della ricerca duale e i suoi possibili utilizzi malevoli, nel marzo del 2004 è stato creato il National science advisory board for biosecurity (NSABB). Tale organismo, che raccoglie competenze tecnico-scientifiche, politiche e industriali, fra i suoi vari compiti ha quelli di definire i criteri di riconoscimento della ricerca duale, di sviluppare linee guida per la supervisione dei progetti di tale ricerca (soprattutto se finanziati con denaro pubblico) attraverso analisi costo/beneficio, di fornire raccomandazioni sulla stesura di appositi codici di condotta per i ricercatori coinvolti, di fornire alle autorità nazionali indicazioni sulla conduzione di questi progetti e, aspetto cruciale, suggerimenti sulla corretta gestione dell’informazione scientifica in tali ricerche.
Tra i diversi compiti dell’NSABB, il più importante appare proprio la definizione di ricerca duale; questa viene intesa come «ricerca che, sulla base delle conoscenze attuali, si può ragionevolmente prevedere produca conoscenze, prodotti o tecnologie che potrebbero essere direttamente applicati in modo malevolo da altri al fine di porre una minaccia per la salute pubblica, l’agricoltura, le piante, gli animali, l’ambiente o i materiali» (NSABB, Proposed framework for the oversight of dual use life sciences research, 2007, p. 17). I criteri per identificare la ricerca duale in campo biologico consistono nella possibilità di ottenere i seguenti effetti: «a) Accrescere le conseguenze nocive di un agente biologico o tossina, [ovvero] la capacità di alterare le normali funzioni biologiche o di provocare danno alla salute pubblica. [Questo] può incrementare la possibilità di malattie [...] e rendere inefficaci trattamenti fino a quel momento validi. [...] Trasformare un microbo da non patogeno a patogeno [...]. b) Abolire l’immunità o l’efficacia di un’immunizzazione senza giustificazioni cliniche o agricole. [...] c) Conferire a un agente biologico o tossina resistenza verso presidi profilattici o terapeutici contro tali agenti o facilitarne la possibilità di sfuggire alle tecnologie identificative. [...] d) Aumentare la stabilità, la trasmissibilità o la capacità di disseminazione di un agente biologico o tossina. [...] e) Alterare il tropismo o lo spettro d’ospite di un agente biologico o tossina. [...] f) Aumentare la suscettibilità di una data popolazione [per un agente biologico o tossina]. g) Generare un nuovo agente biologico o tossina, o ricostituire un agente biologico eradicato o estinto» (pp. 18-21).
Biosicurezza
Il termine biosicurezza si riferisce alle procedure e misure operative capaci di prevenire un deliberato utilizzo di microrganismi e tossine per scopi criminali o malvagi (Tucker 2003). Dal punto di vista strettamente terminologico, la parola deriva dall’inglese biosecurity, da non confondere con biosafety, intesa invece come prevenzione da un rilascio accidentale di patogeni in una struttura di ricerca che può mettere a repentaglio la salute dei ricercatori stessi o l’ambiente della comunità circostante. Le due espressioni sono a volte intercambiabili, ma si riferiscono comunque a realtà diverse. Infatti, adeguati livelli di biosafety vengono raggiunti attraverso vari tipi di biocontenimento, costituiti da barriere fisiche impermeabili o filtri per purificare l’aria degli ambienti di laboratorio. Queste strutture impediscono il contatto fra il ricercatore e l’agente biologico, e fra il laboratorio e l’ambiente circostante. Il biocontenimento include pratiche e tecniche di laboratorio ottimali, cappe biologiche con diversi tipi di filtro dell’aria, e speciali ambienti equipaggiati con sistemi di circolazione forzata dell’aria e pressione interna negativa, in grado quindi di impedire fisicamente la fuoriuscita dell’aria all’esterno dell’impianto.
Esistono quattro livelli di biocontenimento (BSL, BioSafety Level), a seconda delle differenti caratteristiche di patogenicità, virulenza, disponibilità a trattamenti terapeutici o profilattici, quantità totale dell’agente biologico e sua capacità di diffusione. Il livello più alto, BSL-4, è richiesto per la manipolazione, il mantenimento e lo studio di virus emorragici come Ebola e Congo Crimea, che hanno un’elevatissima mortalità e per i quali non esistono presidi terapeutici, e del virus del vaiolo che, seppure meno mortale dei precedenti e contrastabile con un vaccino, rientra in tale classe per l’altissima capacità infettante e la contagiosità elevata. In BSL-3 troviamo invece alcuni batteri, classificati come agenti biologici di classe A secondo i CDC, responsabili di antrace e peste. Tuttavia, le misure utilizzate per raggiungere il massimo grado di biosafety non necessariamente sono le stesse utilizzate per la biosecurity. Per quest’ultima, bisogna considerare misure di sicurezza fisica (come accessi e sbarramenti per le strutture di laboratorio) e di sicurezza riguardo al personale impiegato, alle modalità di trasporto e alla tracciabilità degli agenti biologici (all’interno e soprattutto all’esterno), al rilascio di informazioni sulle attività di laboratorio concernenti ricerche sensibili. Come si vede, tutte queste attività comportano lo sviluppo di regolamentazioni e restrizioni che coinvolgono controlli e provvedimenti a livello non solo locale ma anche nazionale e internazionale. Appare quindi evidente che il massimo grado di biosicurezza, intesa come biosecurity, può essere raggiunto solo attraverso l’esatta conoscenza di quali agenti di possibile impiego bioterroristico esistano nei vari laboratori e di quali siano la loro quantità, la loro esatta localizzazione, i loro spostamenti e il loro corretto utilizzo per finalità positive.
Data-base genetici
Negli ultimi anni, a vari livelli (civili e militari, nazionali e internazionali), sono stati costituiti data-base di agenti biologici, per raccogliere non solo informazioni ma anche, e soprattutto, tutti i possibili ceppi costituenti un dato genere batterico o una specie virale. In questo modo, oltre a memorizzare l’intera sequenza genomica degli organismi, in maniera tale da permettere una facile ricerca e una comparazione delle singole sequenze genomiche, dalle impronte genetiche di specifici siti di microrganismi si possono distinguere geneticamente le strutture molecolari ingegnerizzate di tutte le forme che si trovano generalmente nell’ambiente (Keim 2003). Un’ulteriore ragione per la creazione di questi data-base è costituita dallo sviluppo e dalla validazione dei metodi per determinare la struttura biologica e genetica dei vari agenti, al fine di attribuire specifici atti criminali a determinati soggetti, ovvero a stabilire la compatibilità geografica degli agenti isolati nelle indagini epidemiologiche.
Reti di laboratori e livelli di identificazione
In un evento bioterroristico o in un attacco con agenti biologici sono fondamentali, per l’adozione di contromisure mediche tempestive e commisurate all’entità dell’impatto sulla salute pubblica, una rapida raccolta di dati, un’analisi e una conferma non ambigua dell’aggressione biologica. Poiché è impensabile predisporre sistematicamente capacità di laboratorio periferiche capillari in grado di effettuare ogni fase diagnostica per tutti i possibili agenti biologici, si impone lo sviluppo di una rete di laboratori che assicuri l’integrazione rapida di queste fasi e il sostegno necessario all’investigazione epidemiologica nei casi di attacco. I laboratori vengono distinti per la capacità di effettuare specifiche tecniche di identificazione. Queste si fondano su metodi molecolari, in grado di rivelare costituenti genetici come il DNA o l’RNA; metodi immunomediati, che si basano sull’individuazione di costituenti proteici attraverso specifiche reazioni immunitarie; metodi colturali, che comportano la manipolazione degli agenti vivi per rivelarne la crescita su specifici substrati o terreni; prove biologiche, che attraverso la reintroduzione dell’agente biologico confermano la presenza della forma morbosa. La combinazione di queste diverse tecnologie determina tre distinti livelli, come suggerito dai criteri NATO nei casi di guerra biologica conclamata. Il primo livello, provvisorio, si basa su una sola tecnologia identificativa, molecolare, immunomediata o colturale; il secondo livello, di conferma, si basa su due tecniche abbinate, molecolare e immunomediata, molecolare e colturale, immunomediata e colturale; infine, il terzo livello è quello definitivo, con tutte le tecniche precedenti e con la prova biologica.
Durante l’allarme suscitato dalle lettere all’antrace del 2001, negli Stati Uniti è stata istituita una rete di laboratori di risposta che, dalle strutture sanitarie più periferiche fino a quelle più complesse, provvedeva alla diagnostica di qualsiasi campione sospetto. Questa rete aveva quattro gradi di capacità, in base alle possibilità diagnostiche dei laboratori partecipanti. Il primo grado, definito come A, poteva solo provvedere a escludere la presenza del Bacillus anthracis nei campioni; il secondo grado, B, possedeva solo limitate capacità identificative; il terzo, C, poteva spingersi sino all’impiego di tecniche di diagnosi molecolare; l’ultimo infine, D, si distingueva per il massimo grado di caratterizzazione diagnostica e di studio per eventuali accertamenti di microbiologia forense e attribuzione di colpa.
Prospettive future
L’invio di lettere con spore di antrace ha sancito che la minaccia bioterroristica, fino a quel momento considerata nulla più che un’ipotesi accademica, è tragicamente reale. Esercitazioni che simulano un attacco negli Stati Uniti con la Variola major o con laYersinia pestis, hanno messo in evidenza la scarsa preparazione ad affrontare emergenze con un elevato numero di persone infette. È diventato perciò prioritario preparare piani di emergenza per il pericolo bioterrorismo, in modo da essere pronti a fronteggiare eventuali attacchi (World health organization 20042). Questi piani prevedono il rafforzamento di una rete di laboratori in grado di diagnosticare malattie infettive inusuali, e l’istituzione di dipartimenti per lo studio delle malattie infettive dotati di camere di isolamento, di strumenti di controllo delle infezioni, di scorte di vaccini e antibiotici. Le università dovrebbero approfondire l’insegnamento delle malattie infettive rare, in modo che gli operatori sanitari siano in grado di sospettare e di diagnosticare malattie come il vaiolo, l’antrace, la peste polmonare, anche se mai incontrate prima. La ricerca di base dovrebbe essere incoraggiata a sviluppare nuovi farmaci e vaccini. Attraverso i programmi di tutela della salute pubblica si dovranno istituire o rafforzare reti di sorveglianza rappresentate da medici sentinella, come medici generici o specialisti in malattie infettive, che possano riconoscere l’aumento insolito di una sindrome imputabile all’eventuale utilizzo di un agente bioterroristico. Poiché il possibile utilizzo delle armi biologiche è strettamente associato a effetti psicologici (come la paura, la confusione, l’incertezza nella vita di ogni giorno) che ne peggiorano ulteriormente i terribili effetti naturali, appare fondamentale, nella fase della preparazione, indirizzare l’attenzione verso la popolazione locale, in modo che anch’essa sia a conoscenza delle procedure e dei comportamenti da adottare, e non solo le squadre di risposta all’emergenza e gli esperti (Wessely, Hyams, Bartholomew 2001). La conoscenza preventiva dell’evento e l’attribuzione della responsabilità del collegamento con i mezzi di informazione a una sola persona autorevole in grado di gestire correttamente le informazioni durante l’evento contribuiranno a ridurre il livello di ansia tra la popolazione e a fronteggiare il terrore, impedendo in tal modo eventuali psicosi di massa.
Bibliografia
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