Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel periodo che corrisponde al nostro Medioevo, i popoli dell’estremo Oriente si trovano al proprio apice per quel che riguarda lo sviluppo tecnico, e da questa area arrivano in Europa moltissime nuove conoscenze; il crocevia di questo trasferimento di sapere è la città di Bisanzio, per via della propria posizione geografica. Centro politico e economico di fondamentale importanza, Bisanzio combina la tradizione ellenistica con lo spirito orientale. Non manca, infine, la produzione di opere originali, soprattutto nei settori dell’architettura e della guerra.
Le vicende della tecnologia non hanno un andamento lineare. È difficile attribuire una cronologia esatta a tecniche, pratiche e saperi che, comparsi in una regione in un determinato momento, erano spesso già acquisiti da tempo presso altre civiltà. Durante la maggior parte del periodo che corrisponde al nostro Medioevo, i popoli dell’estremo Oriente erano all’apice della loro cultura e da qui entrarono in Europa molte importanti conoscenze di carattere tecnologico. Nel processo di trasferimento dei saperi tecnici dall’estremo Oriente all’Europa occidentale, Bisanzio e la civiltà islamica hanno un ruolo importante.
L’impero cristiano di Costantino vuole una nuova capitale e la scelta cade su Bisanzio, situata in posizione strategica nel punto di passaggio tra l’Europa e l’Asia. Intorno all’antica città sorge così, nel 330, Costantinopoli, che nei piani dell’imperatore deve diventare una seconda Roma. Mentre in Occidente il cristianesimo diffonde i testi e le tradizioni della latinità, in Oriente Bisanzio, continuatrice dei Cesari e della loro grandezza, rivendica davanti ai barbari e alla Chiesa cattolica la successione dell’impero romano. Centro politico, militare ed economico di fondamentale importanza, Bisanzio combina le tradizioni dell’ellenismo con lo spirito orientale. Mentre nelle biblioteche si conserva e trasmette la conoscenza delle opere della grande stagione della tecnica alessandrina, un’arte e un’architettura originali cominciano ad abbellire la capitale.
Un particolare genere di letteratura architettonico-artistica ha la sua fioritura all’epoca di Giustiniano, l’ekphrasis, letteralmente “la descrizione” di edifici, nata per raccontare gli ambiziosi progetti architettonici della nuova capitale. Procopio di Cesarea, attivo nel corso del VI secolo, compone verso la fine del regno di Giustiniano un’opera dedicata agli impegnativi progetti dell’imperatore, il De aedificibus, in cui mira ad assicurare fama eterna a Giustiniano. Nella descrizione della chiesa di Santa Sofia, Procopio non mette in evidenza solo la proporzione delle forme e la geometria alla base del progetto, ma anche il fondamentale ruolo della luce che passa attraverso le ampie vetrate creando un effetto decisamente nuovo per l’architettura del tempo. La stessa luce, del resto, eserciterà un notevole fascino anche su Paolo Silenziario, autore di una Descrizione della chiesa di santa Sofia letta in pubblico nel 563, pochi giorni dopo la nuova consacrazione. Se queste descrizioni possono apparire legate alla tradizione della letteratura tecnico architettonica antica, in esse vi è comunque una nuova sensibilità verso forme, strutture e decori che segnano l’inizio dell’architettura del Medioevo.
Un tema particolarmente ricco di spunti, anche a livello letterario è quello dell’arte della guerra. Nella tarda antichità, sin dall’epoca della loro stesura avevano avuto buona diffusione in Occidente i testi di Vegezio e dell’anonimo De rebus bellicis, che suggerivano di fronteggiare l’indebolimento dei confini e il pericolo delle invasioni ricorrendo a una forte meccanizzazione dell’esercito. Composta tra IV e V secolo, l’Epitome rei militaris di Vegezio affronta tutti gli aspetti dell’arte militare che avevano permesso ai Romani di costruire il loro immenso impero. La meticolosa e completa esposizione dei temi, dall’arruolamento alla disciplina interna, dalle tattiche di guerra all’addestramento nel buon uso delle armi fino alla fortificazione degli accampamenti, ne hanno fatto il più importante testo di riferimento nel mondo occidentale fino al Rinascimento.
Le straordinarie macchine da guerra descritte dall’anonimo autore del De rebus bellicis, composto nella seconda metà del IV secolo, non mettono solo a frutto le conoscenze del passato, ma presentano anche particolari tecnici che sembrano annunciare grandi trasformazioni nella meccanizzazione dell’esercito: dalla liburna, un’imbarcazione mossa dalle pale di una ruota azionata da un argano messo in funzione da quattro buoi, all’ascogefyrus, un ponte di otri trasportabile, varianti della testuggine e, soprattutto, la ballista fulminalis, efficacissima arma da lancio che poteva essere azionata da pochi uomini. Se è lecito immaginare che questi trattati non abbiano influenzato le popolazioni barbare del nord, diverso è il discorso per quanto riguarda la parte orientale dell’impero.
All’epoca di Giustiniano risalgono due trattati anonimi, uno di strategia e uno di poliorcetica, mentre nel X secolo Leone VI il Saggio e Costantino VII Porfirogenito sono autori di compilazioni che mettono in luce una dipendenza diretta dalla tradizione alessandrina, con l’aggiunta di alcune novità relative alla guerra navale. La continuità con l’antico appare soprattutto nell’opera di Erone di Bisanzio. Il nome attribuito a questo ignoto personaggio, autore di un’opera sulla geodesia e di un trattato sull’arte della guerra risalenti alla metà del 900, indica la volontà di legarsi a uno dei massimi protagonisti della stagione della tecnica antica, Erone di Alessandria, autore di numerosi trattati e insegnante negli ambienti del Museo della città egizia nella seconda metà del I secolo.
Nel Trattato sull’arte della guerra, dopo aver dichiarato il debito anche nei confronti del grandissimo Apollodoro di Damasco, Erone di Bisanzio riassume in un linguaggio semplice le complesse norme dei trattati ellenistici sulla costruzione di macchine. Inoltre, ricorre con frequenza al disegno tecnico: conscio dell’importanza comunicativa delle immagini, cerca di trasmettere con maggiore efficacia i complessi dettagli delle macchine che descrive. Rispetto alla Poliorcetica di Apollodoro di Damasco, in cui i disegni erano bidimensionali, Erone di Bisanzio presenta immagini tridimensionali inserendo accanto a ogni macchina una figura umana che funge da scala. Il suo lettore ideale è il capo militare, che seguendo meticolosamente le sue istruzioni sarà in grado di prendere con facilità le città nemiche.
Particolare risalto viene dato alle testuggini, che Erone progetta di varie forme e dimensioni, munite di ruote e schermate per portare gli uomini fino sotto le mura nemiche. Secondo Erone di Bisanzio gli assedianti, giunti sotto le mura nemiche con la testuggine, dovranno scavare una galleria per penetrare nella città, ciò che dimostra una certa sfiducia nella vecchia artiglieria. La fortuna di questo testo nel Medioevo trova conferma nella presenza di un manoscritto relativo ai trattati sull’arte della guerra e alla geodesia che facevano parte della biblioteca dei re normanni in Sicilia e che successivamente Carlo d’Angiò offrirà in dono al papa Clemente IV. Assai apprezzato e ricercato, questo codice venne sottratto alla Biblioteca Vaticana, dove rientrò solo all’inizio del XVII secolo.
Al 950 risale il De obsidione toleranda, un anonimo trattato sulla guerra vista dalla parte dell’assediato in cui si mescolano spunti recenti e raccomandazioni tratte da autori antichi come Arriano, Polibio, Giuseppe Flavio. I suggerimenti per gli assediati vanno dal radunare le vettovaglie in un luogo sicuro e tali da essere sufficienti anche per un lunghissimo periodo, all’evacuazione di malati, anziani e bambini per ridurre il numero delle persone da sfamare; dalla devastazione delle aree attorno alla città perché il nemico non ne tragga alcun beneficio, all’immagazzinare i materiali da lavoro per fabbri e muratori fino al censimento di architetti e tecnici da cooptare per accrescere lo spessore delle mura e ripararle velocemente nel caso di crolli e danneggiamenti. La preoccupazione maggiore, in sintonia con l’opera di Erone di Bisanzio, è che il nemico non raggiunga la base delle mura e che, protetto da adeguate schermature, non cominci a danneggiarle scavando gallerie. Il quadro dei trattati di poliorcetica composti a Bisanzio prima del Mille deve tenere conto anche dell’opera di Niceforo Ouranos, la Taktika, scritta presumibilmente quando ottiene l’incarico di governatore di Antiochia nel 999. Autore di campagne militari in Siria, raccoglie i precetti per l’assedio e descrive con attenzione le macchine da guerra raccomandando l’uso di materiali leggeri e facilmente trasportabili. Nell’attenersi alla tradizione che raccomanda di arrivare fin sotto le mura protetti per poi cominciare a scavare una galleria, Niceforo introduce un importante elemento di novità. Suggerisce infatti che la galleria sia puntellata con robuste travi cui, una volta giunti sotto le mura nemiche, sia dato fuoco venendosi così a creare una vera e propria “bomba incendiaria” capace di arrecare notevoli danni alle strutture soprastanti.
La conoscenza dei testi del passato, la stesura di nuovi trattati riepilogativi arricchiti con un importante repertorio iconografico costituiscono le linee guida per la trattazione sull’arte della guerra bizantina nella quale, però, l’astuzia umana sembra ancora prevalere sulla tecnologia meccanica.
Il ritrovato che in campo bellico dovette maggiormente impressionare i nemici di Bisanzio è il “fuoco greco”. All’interno di un armamentario sostanzialmente ereditato dalle battaglie navali del passato, il fuoco greco ha costituito per lungo tempo una notevole eccezione. La possibilità di scagliare proiettili incendiari era già nota: Erodoto aveva descritto in occasione dell’assedio di Atene da parte dei Persiani nel 480 a.C. l’utilizzo di frecce la cui sommità era coperta con una stoppa che veniva accesa al momento del lancio; Tucidide, per le battaglie di Platea del 479 a.C. e Delo del 424 a.C., aveva ricordato l’impiego di mantici per alimentare il fuoco al quale il bitume forniva la necessaria miscela incendiaria. L’uso del bitume e di altre sostanze capaci di alimentare una fiamma che restasse accesa una volta scagliati i proiettili era dunque noto tanto in area persiana che nel mondo greco, ma doveva trattarsi di applicazioni sporadiche. La prima menzione letteraria del “fuoco greco” risale al 673, attribuita all’architetto Callinico. Non conosciamo gli ingredienti di base, ma è certo che in questo momento sta prendendo piede la ricerca di miscele combustibili basate su liquidi infiammabili oppure su polveri. È possibile che tra gli ingredienti vi fossero il petrolio, ampiamente disponibile nelle regioni del Medio Oriente, arricchito con salnitro, zolfo e carbone a creare una palla di catrame impregnata che veniva compressa e incendiata immediatamente prima di essere lanciata sul nemico, capace di restare accesa anche sulla superficie dell’acqua. Il lancio avveniva utilizzando tubi di rame, talvolta mimetizzati con elementi di sculture aventi le fattezze di esseri mitologici comunque legati al fuoco come chimere e draghi. Un’illustrazione in un manoscritto della Biblioteca Vaticana mostra un’imbarcazione che sembra corrispondere a quella che Leone VI il Saggio definisce “nave sifonaria”: sulla prua è montato un tubo mobile, inclinato in modo da attingere il liquido infiammabile sottostante con l’aiuto di una pompa aspirante premente.