BISMARCK-SCHÖNHAUSEN, Otto, principe di
Statista tedesco, nato a Schönhausen il 1° aprile 1815 da antica famiglia di nobiltà della marca di Brandeburgo. Quartogenito di Alessandro, fu avviato in gioventù alla carriera burocratica. Viveva sulle sue terre avite, quando fu delegato dall'ordine equestre a rappresentarlo nella dieta di Pomerania e nel 1847 nella cosiddetta dieta unita. Sceso subito in campo contro il liberalismo in tali assemblee, il B. combatté il conferimento del potere costituente alla dieta unita, non rifuggendo dallo stimolare il re di Prussia, esitante di fronte alla marea rivoluzionaria del 1848, e valendosi dei mezzi moderni di resistenza forniti dalla libertà di stampa e di associazione. Dopo aver contribuito efficacemente a provocare lo scioglimento dell'assemblea sostituita alla dieta unita, il B. capitanò la Destra nella nuova Camera di revisione. Egli si giovò anche della dolorosa esperienza fatta dal re Carlo Alberto di Sardegna per esortare il re Federico-Guglielmo IV a rifiutare la corona imperiale di Germania offertagli dall'assemblea rivoluzionaria di Francoforte. Quando nel 1849 la nuova Camera a suffragio ristretto cominciò a funzionare regolarmente, il B. vi svolse con una serie di vigorosi discorsi il suo programma di rivendicazione dell'antico regime, facendo l'apologia dei privilegi della nobiltà e delle corporazioni. All'epoca di un nuovo tentativo di parlamento federale germanico, adunato a Erfurt, il B. si palesò tenace oppositore dell'unione federale, proposta dal Radowitz, ed ebbe grande efficacia sull'animo del re per indurlo ad abbandonare la politica del Radowitz stesso, capitolando di fronte all'Austria con la convenzione di Olmu̇tz (novembre 1850). Sebbene nel suo intimo il B. fosse già risoluto a contrapporre la Prussia all'Austria nella lotta per la supremazia in Germania, egli era altrettanto fermo nel ricusare ogni collaborazione col partito liberale ideatore della costituzione di Francoforte, e non esitò pertanto, in un discorso pronunciato il 3 dicembre 1850, a plaudire alla convenzione di Olmütz. Ormai il governo prussiano non poteva più far altro che riprendere il suo posto in seno alla dieta di Francoforte ricostituita sulle basi dei trattati di Vienna e sotto la presidenza del plenipotenziario austriaco. Il generale von Rochow fu nominato plenipotenziario prussiano, e l'8 maggio 1831 il B. fu designato suo coadiutore col titolo di consigliere di legazione di Prussia presso la dieta, mezzo termine che cessò ben presto con la sostituzione del B. stesso al Rochow. I rappresentanti austriaci Thun e Prokesch-Osten trovarono sempre più aspra l'ostilità del B. ai loro sforzi per ampliare la sfera d'azione della dieta, segnatamente nel campo economico e doganale. Il B. infatti, valendosi di tutte le schermaglie di procedura, tendeva a cristallizzare la dieta nelle sue antiche attribuzioni, riducendo al minimo i vantaggi che l'Austria potesse trarre dalla sua situazione privilegiata. Pertanto, nel conflitto scoppiato fra la Russia e le potenze occidentali, il B. riuscì a trattenere la dieta dal seguire l'Austria in quella parziale mobilitazione militare che fu considerata a Pietroburgo come una sfida. Mentre così egli rendeva un servizio indimenticabile alla Russia, iniziava, in occasione del congresso di Parigi che pose termine alla guerra d'Oriente, quell'opera di avvicinamento all'imperatore dei Francesi Napoleone III, che doveva poi rendergli possibile di combattere apertamente l'Austria. Per il momento, il B., per creare impacci alla potenza rivale, sfruttava abilmente l'intricata questione della successione ai ducati dell'Elba. Il gabinetto di Vienna aveva ormai fondati motivi di considerarlo un temibile avversario; e il conte Buol, ministro degli Affari esteri dell'Impero d'Austria, giunse a lagnarsi dell'attività del B. col presidente del Ministero prussiano conte di Manteuffel, che ne informò il suo collaboratore ma non cessò del resto dal sostenerlo. Nel 1857 il re Federico Guglielmo, colpito da alienazione mentale, dovette cedere il posto al fratello Guglielmo, che rimase ben quattro anni reggente. Questi fece una leale esperienza dell'applicazione delle libertà costituzionali, finché le tendenze antimilitari della Sinistra della Camera prussiana non posero a repentaglio la riorganizzazione dell'esercito, intrapresa dal re con la collaborazione dei generali Moltke e Roon. Il reggente e il suo primo ministro principe Antonio di Hohenzollern continuarono al B. la fiducia che gli aveva sempre mantenuta il Manteuffel. Il 29 gennaio 1859 il B. fu nominato ambasciatore alla corte di Pietroburgo, e il 6 marzo egli lasciò il posto di combattimento, che aveva occupato per otto anni a Francoforte, per raggiungere la sua nuova sede, in un momento in cui l'atteggiamento della Russia poteva essere decisivo nel conflitto imminente tra Francia ed Austria. L'imperatore Napoleone III si era assicurato per lo meno la benevola neutralità dello zar mediante le missioni del principe Gerolamo Napoleone e del barone de la Roncière, ma non era riuscito a ottenere che il governo russo si impegnasse a trattenere quello di Berlino dallo schierarsi accanto all'Austria nella prossima guerra. L'armistizio di Villafranca prevenne ogni possibilità che il reggente di Prussia fosse trascinato in tale direzione dal partito austriaco di Berlino. Dal canto suo, il B. fu un interprete tanto più efficace quanto più convinto dei moniti che la corte di Berlino ricevette da quella di Pietroburgo contro una nuova dedizione all'Austria.
Nel maggio del 1862 il B. fu trasferito da Pietroburgo a Parigi, dove riuscì graditissimo a Napoleone III, di cui divideva l'ostilità al parlamentarismo e l'entusiasmo per il principio di nazionalità. L'ambasceria del B. in Francia non poté prolungarsi oltre il settembre dello stesso anno, perché il re di Prussia, non riuscendo a imporre alla Camera dei deputati il voto delle spese militari, affidò al B. la presidenza del Ministero. L'opposizione liberale cominciò col respingere i tentativi di conciliazione del B., che perciò fu spinto ad applicare il bilancio approvato dalla sola Camera dei signori. L'appoggio che il governo prussiano non lesinò a quello russo durante l'insurrezione polacca del 1863 contribuì a inasprire il conflitto fra la maggioranza della Camera prussiana e il Bismarck. Questi contava di riscattare di fronte all'opinione pubblica del paese una politica autoritaria, così impopolare, coi successi di un atteggiamento energico di fronte alle pretese egemoniche dell'Austria in Germania. Fu egli che indusse il re Guglielmo I a respingere le proposte austriache di riforma federale. Resistette alla pressione della corrente, fortissimȧ in tutta la Germania, che sosteneva i diritti del duca Federico di Augustenburg alla successione dei ducati dello Schleswig-Holstein.
Al tempo stesso il Bismarck prometteva la sua adesione ai trattati di Londra per l'integrità del territorio danese, a patto che il re di Danimarca rinunciasse ad applicare allo Schleswig le leggi costituzionali danesi. Così egli poté indurre l'Austria a invadere anch'essa la Danimarca; e quando nell'agosto del 1865 il re Guglielmo lo costrinse ad accettare la convenzione di Gastein, che consacrava la spartizione fra Austria e Prussia dei ducati conquistati, egli si preparò alla rivincita, assicurandosi il favore di Napoleone III, e negoziando sotto i di lui auspici un'alleanza con l'Italia. Il B. trattò all'uopo col suo antico collega di Francoforte, il conte di Barral, che era stato trasferito a Berlino, ed ebbe l'assistenza tecnica del generale Govone, inviatogli da Firenze nell'inverno del 1866. L'8 aprile di quell'anno il generale Alfonso La Marmora, capo del Ministero italiano, si assunse la responsabilità di legare per tre mesi le sorti della politica italiana al successo degli audaci progetti del Bismarck. Infatti, a tenore del trattato, l'Italia doveva dichiarare la guerra all'Austria, se prima dell'8 luglio questa si fosse trovata in istato di guerra con la Prussia. Per tener fede a quest'impegno, il La Marmora rifiutò l'offerta dell'Austria di cedere il Veneto senza colpo ferire, trasmessagli da Napoleone III; ma, dopo i rovesci di Custoza e di Lissa, l'Italia fu tenuta all'oscuro dei negoziati che condussero ai preliminari di Nikolsburg, accettati dall'Austria dopo la grande scofitta di Sadowa. Napoleone III era intervenuto come mediatore a richiesta di Francesco Giuseppe, e fu il capolavoro dell'abilità diplomatica del B. l'essere riuscito a eludere le domande di compensi alla Francia per l'annessione alla Prussia dei territorî tolti agli alleati dell'Austria, quali il Hannover e Francoforte.
Nell'estate del 1866 il B. riuscì a venire a capo della resistenza della Camera dei deputati di Prussia, in seno alla quale i suoi grandi successi ebbero una profonda ripercussione, inducendo buona parte degli oppositori di sinistra a separarsi dagl'irriducibili, costituendo il nuovo partito "nazionale liberale" che concesse al Ministero una sanatoria per i bilanci non regolarmente approvati nei quattro anni precedenti. Un altro effetto della vittoria fu l'adesione degli stati minori ottenuta dal B. alla sostituzione della disciolta dieta di Francoforte con una Confederazione della Germania del nord, di cui egli divenne il cancelliere federale. Il grande ministro però si trattenne dal promuovere l'inclusione dei quattro stati meridionali (Baviera, Württemberg, Baden e Assia granducale) nella nuova confederazione, anche per non accentuare il malcontento suscitato in Francia dagli avvenimenti del 1866. Si contentò di estendere agli stati meridionali la lega doganale (Zollverein).
Nel 1867 il B. seppe ancora una volta rendere vani gli sforzi di Napoleone III per ristabilire l'equilibrio rotto dalla schiacciante vittoria della Prussia sull'Austria. Dopo aver compromesso l'imperatore dei Francesi in uno scambio d'idee per l'annessione del Belgio alla Francia, il cancelliere tedesco eccitò l'opinione pubblica germanica contro la stessa incorporazione nella Francia del minuscolo granducato del Lussemburgo, sicché Napoleone III dovette contentarsi della neutralizzazione di quella fortezza. Ormai la diplomazia francese doveva considerare il B. come il più temibile degli avversarî, e per fronteggiarlo diveniva indispensabile per Napoleone III l'organizzazione di un sistema di alleanza come la triplice franco-italo-austriaca, di cui si fece paladino presso il gabinetto di Firenze l'addetto militare italiano a Parigi, conte Ottaviano Vimercati. La riluttanza insuperabile di Napoleone III a consentire l'occupazione italiana di Roma protrasse a tale punto i negoziati, che, quando il B. credette giunto il momento di misurarsi con la Francia, proponendo la candidatura del principe Leopoldo di Hohenzollern al trono di Spagna, nessun impegno preciso assicurava a Napoleone III l'appoggio dei governi d'Italia e d'Austria. L'acciecamento dei circoli di corte di Parigi, che non si contentarono della rinuncia del principe, ma costrinsero il ministro dirigente francese Émile Ollivier ad esigere dal re di Prussia assicurazioni per il futuro, facilitò l'opera del Bismarck, desideroso di precipitare la rottura. Mentre l'ambasciatore francese, conte Benedetti, proseguiva le trattative col re Guglielmo I ai bagni di Ems ed era sul punto di trovare una via d'uscita nella pubblicazione del plauso di Guglielmo I alla rinuncia del cugino, il B. di proposito rivelò da Berlino al mondo intiero un dispaccio giuntogli da Ems, lumeggiante le pretese della Francia, e sfruttò l'agitazione prodotta da tale notizia per rendere fatale la guerra. Il governo francese cadde nel tranello e prese la responsabilità della rottura, prodromo di una lotta cruenta durata più di sei mesi, per la quale il Secondo Impero rovinò ben presto e la Francia perdette l'Alsazia e la Lorena. Se il B. aveva calcolato i suoi atti in modo da provocare la Francia alla guerra, senza esitazioni né scrupoli, il suo atteggiamento fu invece assai conciliante nei rapporti con gli stati della Germania meridionale. Così ottenne che la stessa Baviera, più riluttante degli altri governi del sud a un assorbimento nella compagine prussiana, prendesse l'iniziativa di riporre sul capo del re Guglielmo la corona dell'Impero germanico. Questi ardui negoziati furono conclusi a Versailles, ove il B. trascorse buona parte dell'inverno 1870-71, stringendo in pugno le fila delle trattative tendenti a una sospensione delle ostilità con la Francia. Infatti, sebbene il B. affettasse di lasciare mano libera per la condotta della guerra al Moltke e agli altri capi militari, non permise mai che le grandi linee della politica estera fossero additate al re Guglielmo da altri che da lui.
Egli aveva abbandonato ben presto la primitiva idea di concludere la pace con l'imperatore Napoleone III. Caduto questi prigioniero, il B. non volle offrire condizioni più miti al nuovo governo repubblicano, che si era illuso di poter profittare di migliori disposizioni del governo prussiano a suo riguardo. Jules Favre, ministro degli Esteri del governo della difesa nazionale, e il Thiers, assunto al supremo potere esecutivo dall'assemblea costituente di Bordeaux, dovettero sostenere un'impari lotta col cancelliere tedesco quando cercarono di limitare le esigenze del vincitore, culminanti nella cessione dell'Alsazia-Lorena e in una indennità di guerra di cinque miliardi. Il B. poté imporre queste condizioni draconiane alla Francia estenuata; ma gettò il seme di future contestazioni e, si può dire, della guerra mondiale scoppiata quarantacinque anni più tardi. Per il momento, i prodigiosi successi consacrati dalla pace di Versailles agevolarono il compito del B. sul terreno della politica interna. Egli aveva voluto che il Reichstag fosse eletto col suffragio universale, e aveva saputo emanciparsi dalle grette preoccupazioni dei suoi antichi sostenitori dell'estrema Destra, promovendo ardite riforme sociali. Per effettuare queste e per consolidare i crediti per le spese militari, il B. seppe assicurarsi il voto dei nazionali liberali. Tale partito lo incoraggiò anche nella pericolosa campagna contro la chiesa cattolica, alla quale si volle tendenziosamente dare il titolo di Kulturkampf. L'abolizione delle garanzie di una certa libertà religiosa offerte dalla costituzione prussiana e le rappresaglie contro la proclamazione del dogma dell'infallibilità pontificia non valsero a spezzare la resistenza del clero e del laicato, rimasti fedeli alle direttive emanate dal Vaticano, sicché toccò al B. stesso di prendere l'iniziativa di approcci con la Santa Sede e di una revisione delle cosiddette "leggi di maggio", promulgate in odio ai cattolici romani. Il B. si doleva che la legge delle guarentigie gl'impedisse di colpire il papa tutelato dalla stessa sua reclusione volontaria; ma d'altra parte la lotta, pur condotta così alla cieca contro la chiesa di Roma, indusse il gabinetto di Berlino ad appoggiare il governo italiano nel suo atteggiamento verso il Vaticano e nel regime degli ordini religiosi e delle fondazioni ecclesiastiche. Questa coincidenza di obiettivi, nonostante la diversità dei metodi e delle circostanze, spianò la via alla conclusione della triplice alleanza.
Prima però di giungere a fare della triplice alleanza la base della sua politica estera, il B. aveva vagheggiato la ricostituzione di una alleanza dei tre imperatori; ed effettivamente nel 1872 gli riuscì di riunire presso l'imperatore Guglielmo, lo zar Alessandro II e l'imperatore Francesco Giuseppe. La minaccia, che non a torto lo zar ravvisava per l'equilibrio europeo nell'atteggiamento d'intimidazione ripetutamente assunto verso la Francia dalle sfere dirigenti tedesche, costituiva un pericolo troppo grave per non dominare ogni altra preoccupazione della cancelleria di Pietroburgo. In quello stesso 1872 e poi di nuovo nel 1873 e nel 1875, lo zar e il principe di Galles dovettero intervenire presso il B. perché moderasse le manifestazioni pressoché ricattatorie della stampa e dei circoli militari verso la Francia. Ipnotizzato dal desiderio di mantenere debole e isolata la Francia, il B., per solito così chiaroveggente, non seppe misurare la gravità della collaborazione a cui costringeva Russia e Inghilterra, pur divise da tante questioni aperte, quando si trattava di difendere l'Europa da una ripetizione delle vittorie tedesche del 1870. Il B. si alienò inoltre larghi strati dell'opinione conservatrice, ostacolando con tutte le sue forze la restaurazione della monarchia in Francia.
Le dichiarazioni del conte di Chambord in favore della restaurazione del potere temporale spingevano invece Marco Minghetti, presidente del consiglio italiano, a riavvicinarsi in quel punto al gabinetto di Berlino, usando quasi violenza al re Vittorio Emanuele II per indurlo alla visita all'imperatore Guglielmo fatta nell'autunno del 1873, penosa al principe sabaudo, sempre memore della fraternità d'armi del 1859 con la Francia. Venuta al potere in Italia la Sinistra, il Crispi volle allacciare nel 1877, visitandolo a Gastein, rapporti diretti col B.; ma soltanto dopo il suo ritorno al governo nel 1887 il Crispi seppe farsi ascoltare dall'onnipotente cancelliere germanico; il quale nell'intervallo improntò la sua politica verso l'Italia a una persistente diffidensa, che si manifestò al congresso di Berlino, e soprattutto nel favorire l'occ. ipazione francese di Tunisi, e fu palese perfino nel 1882, quando egli impose al Mancini l'adesione al trattato d'alleanza austro-tedesco del 1879.
Col completamento della triplice il B. non riteneva incompatibile la ripresa di più cordiali rapporti con la Russia e nel 1884 seppe concludere con quell'impero patti segreti, che furono rinnovati finché egli rimase arbitro della politica germanica, e che sono conosciuti sotto il nome espressivo di trattato di riassicurazione. In quell'ultimo decennio del suo cancellierato il B. mutò le sue vedute, sia nel campo della politica economica, che orientò ormai verso il protezionismo, sia in quello dell'espansione coloniale, che si decise a favorire come sbocco del commercio germanico, sia infine per ciò che concerne le riforme sociali, che promosse attivamente con l'aiuto dei cosiddetti socialisti della cattedra e in aperto contrasto coi social-democratici, da lui piuttosto favoriti un tempo, quando erano capitanati dal Lassalle.
Il periodo dal 1882 al 1887 fu contrassegnato nella vita del B. da continue lotte con la maggioranza del Reichstag, non agevolate, quanto egli aveva dapprima sperato, dal mutato atteggiamento del cancelliere di fronte alla curia romana. La sua politica di combattimehto contro i Polacchi e i tentativi replicati e vani di separare la Santa Sede dal partito tedesco del centro ne furono elementi preponderanti. Soltanto nel 1887 il cancelliere riuscì a far adottare dal nuovo parlamento i progetti costituenti il settennato di crediti militari. In quello stesso anno la crisi bulgara, nella quale il Robilant e il Crispi assicurarono alla Germania un'attiva collaborazione dell'Italia, rese molto precario l'accordo con la Russia, che pure stava tanto a cuore al Bismarck.
Nel marzo 1888 venne a morte, novantenne, l'imperatore Guglielmo I, e gli succedette per pochi mesi Federico, che si sarebbe manifestato più spesso dissenziente dalla politica del suo cancelliere, se non fosse già stato sull'orlo della tomba al momento della sua assunzione al trono. Guglielmo II, succeduto a Federico, si mostrò dapprima ossequente al B., ma ben presto si trovò in contrasto con lui, sia nella politica interna, che il giovane monarca avrebbe voluta improntata a meno rigido conservatorismo, sia nell'estera, ch'egli riteneva poco leale verso l'Austria in conseguenza dei segreti accordi con la Russia. Il 18 marzo 1890 il vecchio cancelliere si decise a presentare le sue dimissioni, non supponendo verosimilmente che potessero venire accettate. Quando si vide senz'altro sostituito dal generale Caprivi, si ritrasse corrucciato nel suo podere di Friedrichsruh, dove visse sino al 30 luglio 1898, biasimando senza ritegno l'opera dei suceessori e divenendo il centro di una forte corrente d'opposizione. Sebbene quest'ultima fase della sua vita possa essere apparsa, in qualche momento, offuscata da rancori, il B. è a ragione considerato dal suo popolo come il principale autore della grandezza della Germania, e, alla luce delle dolorose esperienze compiute dopo la sua morte, è ammirato anche come il conservatore oculato e prudente dell'edificio eretto nel 1870, che doveva crollare dopo che all'impulsivo imperatore era mancato il freno di consiglieri pari alla vastità del compito.
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