bisticci di parole
Il bisticcio è la figura formata dall’accostamento (immediato o a breve distanza, nello stesso verso o nello stesso periodo) di due o più parole fortemente rassomiglianti dal punto di vista fonico.
Bisticcio è un termine solo italiano, di etimologia controversa e probabilmente spuria. Tra le sue varianti registrate, beschizzo, bischizzo, bisquizzo e bisticcico. All’origine pare si debba porre un longobardo biskizzan, che poteva tenere assieme i significati di «lodare» e di «ingannare», fino ad «adirarsi», con diramazioni che arrivano sino a «bisca» e «biscazzare» e significati oscillanti fra la battaglia e il mescolare le carte (lo stesso termine bisticcio si usa pure come nome di dispute e querelle, di non grande importanza). Un’etimologia con ogni probabilità falsa, ma ben trovata, lo vorrebbe derivare da bis-dicere «dire due volte».
Anche a prescindere dall’accezione derivata di «alterco», per bisticcio possono essere intesi fenomeni anche molto diversi fra loro. Una prima accezione è specifica dell’analisi retorica, dove a volte il termine bisticcio viene evocato ma subito escluso per la sua connotazione lievemente spregiativa o comunque frivola (Valesio 1967). Questa è l’accezione a cui corrisponde la definizione qui data preliminarmente. Alcuni autori restringono il caso del bisticcio alla somiglianza lessicale in cui i termini del bisticcio differiscono solo per le vocali (come ne «una ricca rocca» di Cino da Pistoia: Menichetti, 1993), ma questa restrizione non viene accolta unanimemente.
Una seconda accezione di bisticcio attiene invece al discorso comune ed è più generica: qui viene usato come equivalente di gioco di parole, freddura e calembour. Cade il criterio per cui non si dà bisticcio fra termini uguali, e si conferisce forza a due elementi accessori: il possibile effetto comico e il possibile disturbo arrecato all’ascoltatore. È in quest’ultima accezione che va inteso l’uso del termine con cui Vincenzo Cardarelli sottolinea una figura etimologica: «Infatti, mi sapreste dire perché Piazza del Popolo è sempre, scusate il bisticcio, così spopolata» (Cardarelli, Il cielo sulle città, ed. orig. 1939; ora in Opere complete, Mondadori, Milano 1962). Il tipico inciso di scusa pare voler garantire l’involontarietà della figura e confermare così la serietà del proprio discorso, in cui il gioco di parole, frivolo e fuorviante, entra solo per accidente.
A volte alla definizione di bisticcio viene aggiunta una condizione ulteriore: che i significati delle parole coinvolte siano differenti o che siano addirittura opposti. Il primo caso è in realtà da ritenersi tautologico: due parole diverse hanno per definizione significati distinti. Il secondo non pare sempre corroborato dagli esempi, se non nel senso che il meccanismo del bisticcio (come accade anche alla rima) con il solo fatto di accostare parole somiglianti produce un effetto di contrasto fra esse. Il bisticcio piuttosto che dipendere dal contrasto semantico pare causarlo. Nel più topico esempio di bisticcio della letteratura italiana, quello che accosta amore e amaro (con i rispettivi derivati), l’aggettivo contraddice certamente l’altrettanto topica appartenenza del sostantivo al dominio del dolce, ma non è semplice stabilire quanto il contrasto delle cose non sia rafforzato proprio dall’accostamento dei loro nomi simili.
Le epoche e i luoghi di maggiore frequenza italiana del bisticcio sono:
(a) la poesia dei primi secoli: «Laudato si’, mi’ Signore, per sor’Aqua / la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta» (San Francesco d’Assisi, Laude creaturarum, 1224);
(b) la tradizione poetica burlesca: «e sbuffan beffe con ischerno e scorno» (doppio bisticcio; Luigi Pulci, Morgante, 1460-1462);
(c) la poesia di epoca manieristica: «Mi sferza, e sforza ogn’hor l’amaro Amore» (doppio bisticcio; Luigi Groto, Rime 1541-1585);
(d) la poesia di epoca barocca: «Ben tu puzzi di pazzo da un pezzo / disse Pluton, bestiaccia, per bisticcio» (bisticcio trimembre e bisticcio bimembre; Lorenzo Lippi, Il Malmantile racquistato, dopo il 1644);
(e) il Novecento delle neo-avanguardie: «la nostra prole, i nostri polli molli, che ti ballano e ti bollono, al sole soli» (triplo bisticcio; Edoardo Sanguineti, L’ultima passeggiata, 1982);
(f) proverbi e modi di dire: «Chi dice donna, dice danno»;
(g) filastrocche e ninna nanne: «Rinoceronte / che passa sul ponte, / che salta, che balla / che gioca alla palla» (catena di bisticci); «Fai la ninna, fai la nanna / fai la nanna tesoro di mamma» (triplo bisticcio);
(h) testi umoristici: «Non pomi sol, pur peri Pier potò / (patì, perì, però al Perù parò)» (catena di bisticci; Achille Campanile, Manuale di conversazione, 1973);
(i) testi giornalistici, soprattutto titoli: «Straordinari Stradivari» («La Repubblica» 20 agosto 1987);
(l) testi pubblicitari, commerciali o politici: «Brodo ottimo in un attimo»; «Decidi Dicì».
Appartenendo il bisticcio alla vasta e frastagliata categoria delle somiglianze fra le parole, la sua definizione è soggetta a oscillazioni, differenze da autore ad autore, incertezze nella delimitazione con concetti confinanti come allitterazione o paronomasia. La stessa categoria di identità / somiglianza fra le parole in realtà non è del tutto univoca. Anche in italiano due sequenze possono essere omofone e non omografe (per esempio, l’aura e Laura); una parola solo omografa può essere avvertita come omografa e omofona da una maggioranza di parlanti (è il caso di vòlta e vólta); la differenza fra polisemia (diversità di accezioni per un unico lessema) e omonimia (identità di significante per due lessemi diversi) può essere intesa in modi diversi, a seconda che si considerino come parole distinte quelle che hanno etimi indipendenti o piuttosto quelle di etimo comune il cui uso è però divenuto indipendente col tempo.
La categoria identità / somiglianza fra le parole dovrebbe fissare, nell’analisi del motto di spirito condotta da Sigmund Freud (Freud 1905), la differenza fra Witz e calembour, dove il motto di spirito avviene fra espressioni formate con «lo stesso materiale linguistico» mentre il calembour avviene tra parole somiglianti fra loro. Definizione inficiata dalla clausola per cui anche il Witz ammette una «lieve modificazione» delle parole: esiste dunque una non perfetta identità fra parole che non è più identità ma non è ancora semplice somiglianza; la conseguenza è che non è più possibile un’analisi rigorosa.
Pur tralasciando i casi di frontiera tra identità e rassomiglianza delle parole, occupandosi solo di quest’ultima non si va certo incontro a un sistema terminologico più stabile e condiviso. Un punto fermo è che il bisticcio richiede sempre la compresenza dei due termini fra cui occorre. La paronomasia ‒ la figura di rassomiglianza fra le parole con cui è più facile confonderlo ‒ può essere invece impiegata anche per i casi in cui uno dei due termini viene solo alluso: per esempio la serie di termini con la quale, nel verso «L’aura che ’l verde lauro e l’aureo crine», Francesco Petrarca allude al nome, taciuto, di Laura. L’aura, lauro e l’aureo formano un bisticcio a tre membri; se si aggiunge l’evocazione di Laura si deve parlare di paronomasia.
Il bisticcio, inoltre, copre di massima l’estensione totale delle parole, mentre fenomeni come l’allitterazione (in senso stretto) e la ➔ rima interessano rispettivamente il solo inizio e la sola fine della parola. Va segnalato però che possono esistere allitterazioni che interessano altre zone delle parole; studiosi come Valesio allargano i termini dell’allitterazione sino ai confini della paronomasia. Anche l’assonanza (identità della sequenza vocalica) e la consonanza (identità della sequenza consonantica) possono intervenire anche solo su parti della parola, come si nota nella catena di consonanze «abbaglia ... meraviglia ... travaglio» (Eugenio Montale, “Meriggiare pallido e assorto”).
Nella sua Letteratura italiana delle origini, Gianfranco Contini adotta una triade di denominazioni, da cui si può dedurre un criterio rigoroso, ancorché implicito:
(a) l’etichetta di allitterazione viene riservata ai casi che coinvolgono la lettera o le lettere iniziali, come nel verso di Giovanni Boccaccio «e par che per pregar tu facci peggio» (Ninfale fiesolano 106, 4);
(b) il bisticcio è un’allitterazione ricca, che investe tutta l’estensione di due parole che hanno un solo suono o gruppo differente. Questa è la definizione che si può estrapolare dal fatto che la coppia eterni / interno è dichiarata «quasi bisticcio» mentre per pena / pensa Contini parla di «allitterazione e anzi bisticcio». I casi di bisticcio registrati da Contini sono: humile / utile; campagna / compagna; fama / afuma («riempie di fumo, offusca»); pena / pensa; capo / cano; sola /sol (sole); eterni / interno («quasi bisticcio»); officiat / inficiat; segno / sogno;
(c) non come bisticcio ma come «gioco» è invece rubricato il caso petrarchesco parte / parto. Assieme ad altri casi, come i frequenti giochi su fiore / Fiorenza o su amaro / amore (per es.: «La Morte m’è amara, che l’amore / mutòmi in amarore»; Pier della Vigna, «Amando con fin core ...»), ci lascia concludere che per Contini il confine tra bisticcio e «gioco», o altrove «gioco di parola», viene attraversato quando un bisticcio prende particolari complicazioni semantiche, in particolare quando ai suoi termini viene attribuita una parentela etimologica di fantasia, come nel papa da cui viene derivato paperi nella «Storia di Fra Michele Minorita».
Quando l’allitterazione investe gli interi corpi delle parole (pena / pensa: «allitterazione, anzi bisticcio») diventa bisticcio; quando i due termini di un bisticcio vengono posti in una particolare relazione semantica, quando se ne suggerisce una parentela etimologica, quando cioè la loro somiglianza è riportata a una somiglianza dei rispettivi significati, allora dal bisticcio si entra nel «gioco di parola». Rovesciando la prospettiva, si può dunque dire che il bisticcio è un gioco di parola che resta sul piano dell’espressione. Può avere (ed è inevitabile che abbia) conseguenze semantiche, ma il testo non le sottolinea e non le tematizza.
Su questo piano, al bisticcio viene affiancato l’asticcio, termine rarissimo, per i casi di «equivocità contraffatta» (Menichetti 1993), come in «Monte, che ’n alto sali, eo vegio mo’ n te / [...] / Ponte di gran valenza, il mi’ cor pon te / [...] Conte, le tue parole voria con te [...]» (Maestro Rinuccino, fine del XIII secolo) o, dello stesso autore: «Nave, di cui lo mar sospetto n’ave». Qui muta il senso ma non il suono delle espressioni, per omonimia, polisemia o più frequentemente per una scomposizione simile a una sciarada enigmistica (che il più delle volte l’orecchio non può avvertire). Esempi contemporanei ricorrono nei testi del gruppo musicale Elio e le Storie Tese: «Su di ciò la critica è concorde / nel ritenermi sudicio».
Nessun corso ha avuto la bizzarra proposta avanzata da Americo Scarlatti di introdurre la categoria del punticcio (dall’inglese pun), compresa nel perimetro dell’asticcio o coincidente con esso.
Come forma di folklore verbale il bisticcio interviene soprattutto nei proverbi:
(1) chi dice donna dice danno
(2) chi non risica non rosica
(3) porta aperta per chi porta e chi non porta parta
(4) parenti serpenti
(5) traduttore traditore
(6) occhio non vede, cuore non duole
Interviene anche in qualche modo di dire, come fare la fame o sesto senso.
Nel linguaggio comune e non letterario il bisticcio viene spesso avvertito come cacofonia: l’incontro involontario di sequenze foniche simili rischia di distrarre l’ascoltatore e dunque si usa scusarsene con l’uditorio. Come già detto, in questo genere di contesti le espressioni bisticcio e gioco di parole diventano intercambiabili, al bisticcio non è più richiesto di evitare l’identità perfetta dell’espressione. Succede allora di sentir chiamare bisticci diverse forme di ripetizione:
(7) Il problema è molto semplice e non si capisce perché non venga capito (scusate il bisticcio) (Eugenio Scalfari, L’albergo delle quattro stagioni, «La Repubblica» 7 luglio 1996)
Accade specialmente quando un’espressione torna con senso mutato, come nel racconto umoristico di Achille Campanile sul «tasso della quercia del Tasso»; proprio di Torquato Tasso è invece l’esempio «apre la porta e porta / inaspettata guerra» (nei due casi si tratta di esempi ovviamente volontari); ortograficamente forzato, invece, l’esempio:
(8) Contribuendo a nutrire così il brodo di cultura della cultura della illegalità (scusate il bisticcio di parole) (Guido Trombetti, Ecco l’unico esercito di cui abbiamo bisogno, «La Repubblica», edizione di Napoli, 2 novembre 2006)
Quando è usata nel linguaggio comune, l’etichetta di bisticcio è meno circostanziata e più generica; si usa quasi soltanto per scusarsi di un incontro di parole e per dichiararlo involontario. Questo succede anche quando il bisticcio è evidentemente volontario, tanto più negli scritti dove al posto di scusarsi lo scrivente potrebbe limitarsi a emendarne il testo prima di darlo alle stampe. È il caso della frase di Scalfari citata sopra e con anche maggiore eloquenza di un’altra frase dello stesso autore, ripresa anche nel titolo dell’articolo:
(9) Per federare occorre che i federati vogliano federarsi. Scusate il bisticcio, ma esso descrive lo stato dei fatti (Eugenio Scalfari, Se i federati non vogliono federarsi, «La Repubblica» 27 dicembre 2004)
L’uso consapevole di una figura viene dunque attenuato da una richiesta di indulgenza, come se si temesse che l’effetto della figura vada oltre il desiderabile. Il bisticcio (in questa accezione allargata) potenzia il discorso con la sua forza espressiva, che in entrambi gli esempi scalfariani mira a far considerare il proprio argomento non solo valido ma anche ovvio. Di contro, però, le figure di ripetizione (si pensi anche alla rima) possono avere di per sé anche un effetto collaterale di frivolezza, tanto più sgradito a seconda dei contesti e delle circostanze. Questo effetto può dipendere da un’eventuale torsione semantica che si teme confonda l’ascoltatore (come in Cardarelli, Piazza del Popolo / spopolata); ma è sempre insito nella struttura stessa del bisticcio, che spostando l’attenzione verso una parola precedente rompe l’andamento lineare, progressivo e, in ultima analisi, razionale del discorso. Il discorso stesso, per riprende il suo filo, deve chiudere il bisticcio fra parentesi, ciò che dà al bisticcio la sua vocazione di figura denegata.
I motivi per cui il bisticcio viene evitato o al più denegato in prosa sono gli stessi per cui è ricercato con insistenza in quelle forme di poesia giocosa che si sono susseguite, in posizione minoritaria e appartata, nella letteratura italiana.
(10) Amor io moro e mira el mero amaro
e pur te porto in parte aperta fede
ahi cruda crido crodo e tu no ‘l credi
ne ‘l cor te curi a te ch’era sì caro
(Anonimo Bolognese; dal ms. Univ. Bolognese 284; in Durante, 1988)
Lorenzo Lippi, nel Malmantile racquistato, mette in scene il personaggio di un diavolo chiamato Tiritera, che si esprime così:
(11) Io, che sono un insano e ignaro ognora
perché saper supir non voglio, o vaglio,
dico, ch’al Duca, perché a’ muri è mora,
tosto in testa si dia pel meglio un maglio,
finché lo spirto sporti al foro fora,
dond’ei fa peti e pute d’oglio e d’aglio
acciò l’accia sull’aspo doppo addoppi
la Parca, e il porco colla stoppa stoppi
Altri personaggi sono stati battezzati dai loro autori con nomi che alludono alle loro attitudini linguistiche, come il bisticcio della Villana di Lamporecchio di Luigi Del Buono, che dice:
(12) Sono sano sino a segno
che d’un pugno dentro al grugno,
non è sogno, ammazzo un pazzo
o d’un cozzo io lo schizzo
dentro un pozzo in mezzo al guazzo
o pel gozzo, se lo strizzo,
te lo strozzo come un struzzo
Pur se concentrata soprattutto sulla rima, l’opera sconcertante di Ludovico Leporeo finisce per essere anche un repertorio di bisticci quanto meno perché le rime dei suoi sonetti variano solo nella vocale tonica:
(13) Mando in bando urne eburne, e conche, e cocchi,
botte rotte, aste guaste, e peltri, e stucchi,
butto il tutto adri quadri, e terghe, e stocchi
(Ludovico Leporeo, “Subhastatione di beni stabili, e mobili”; in Durante, 1988)
Oltre alle cinque parole-rima comprese in ogni verso, si trovano bisticci più occasionali (conche / cocchi) e bisticci più sistematici, fra le parole appartenenti a rime diverse: stucchi / stocchi).
Il bisticcio virtuosistico è impiegato anche in forme francamente comiche, dove la sorpresa consiste nell’appurare la persistenza di un senso, per quanto precario, in un dettato che pare dipendere solo dalla variazione continua degli stessi suoni:
(14) Lascio l’uscio, liscio l’uscio, lascio liscio l’uscio. Lascio liscia l’ascia all’uscio
(Achille Campanile, Trattato delle barzellette)
Più sottile l’uso del bisticcio come clausola ad effetto in un sonetto di Giuseppe Gioachino Belli dedicato a tessere un ritratto di papa Sisto V, e che finisce:
(15) Perché nun ce po’èsse tanto presto
Un altro papa che je piji er gusto
De mèttese pe nome Sisto Sesto
Oltre che un autore, anche un attore può impiegare il bisticcio come espediente virtuosistico:
(16) Diceva il maestro Orazio Costa
che c’è fra porpora, mormora,
tortora e forfora una proposta
più pregnante di una consonante che si sposta
(Vittorio Gassman, Vocalizzi)
Il bisticcio insistito si avvia in direzione dello ➔ scioglilingua, che per definizione è territorio in cui i dicitori possono esibire la propria arte. Esiste però per il bisticcio anche una possibilità intermedia fra l’arguzia argomentativa e quell’artificio poetico oltranzista che arriva al nonsense. Nella sensibilità contemporanea il bisticcio e gli altri artifici di ripetizione possono essere impiegati nella direzione di una poesia descrittiva e pressoché narrativa, in cui protagonisti ed eventi si muovono lungo il filo del ritorno dei suoni. È la poesia di Toti Scialoja, un maestro delle figure di ripetizione, dall’allitterazione più semplice sino all’anagramma:
(17) Ahi, la vespa
com’è pesta!
Era vispa,
non fu lesta
(Toti Scialoja, Versi del senso perso).
Anonimo Bolognese, dal ms. Univ. Bolognese 284, in Durante 1988.
Scarlatti, Americo (1988), Et ab hic et ab hoc. Amenità letterarie, Milano, Salani (1a ed. Torino, UTET, 1818).
Contini, Gianfranco (1970), Letteratura italiana delle origini, Firenze, Sansoni.
Dossena, Giampaolo (2004), Il dado e l’alfabeto. Nuovo dizionario dei giochi con le parole, Bologna, Zanichelli.
Durante, Francesco (a cura di) (1988), Il sogno del segno. Sonetti per bisticci dal Duecento al Seicento, Capri, Premio Capri dell’enigma.
Freud, Sigmund (1905), Der Witz und seine Beziehung zum Unberwussten, Wien, Franz Deuticke (trad. it. Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Torino, Boringhieri, 1975).
Menichetti, Aldo (1993), Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore.
Mortara Garavelli, Bice (1997¹º), Manuale di retorica, Milano, Bompiani.
Valesio, Paolo (1967), Strutture dell’allitterazione. Grammatica, retorica e folklore verbale, Bologna, Zanichelli.