Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il blues e il funk sono due fondamentali espressioni della cultura musicale afro-americana, rispettivamente caratterizzati dalla potenza poetica e interpretativa e dalla fascinazione ipnotica collettiva del ritmo e del groove. Il blues assume l’eredità dei caratteri formali tramandati, tra cui il modello retorico call-response e la gabbia metrico/armonica delle dodici battute. Il funk degli anni Sessanta è la riproposizione più coerente del modello collettivo e tribale di espressione della forza poliritmica e segna una significativa convergenza di valori e pratiche culturali tra le tradizioni orali e la cultura tecnologica elettronica. Entrambi questi fenomeni hanno avuto ricezione e traduzione culturale in Europa.
Blues
Secondo antichissime tradizioni africane, Esu, la divinità ispiratrice dell’arte dell’interpretazione, appariva ai crocevia per infondere il proprio spirito creativo nei musicisti/cantanti, che, partecipando dell’afflato divino, divenivano, nella cultura diasporica africana del Nord America, alla fine del XIX secolo, bluesmen. I valori catartici e affermativi del rituale del Ring Shout (forme rituali durante le quali si cantava e ci si muoveva strisciando i piedi a terra), il luogo della perpetuazione dell’identità africana nel Nuovo Mondo, venivano così vivificati, e il blues assumeva l’eredità dei caratteri formali tramandati. Tra questi, il modello retorico call-response (l’alternanza tra il solista e il coro), le vocalizzazioni tipiche, l’intonazione della terza neutra, che la teoria occidentale ha tentato di incasellare nel costrutto razionale della scala blues e con la gabbia metrico/armonica delle dodici battute.
Il radicamento del blues in Europa fa seguito a un processo di ricezione che ha trovato originariamente in Francia la sede principale dell’elaborazione critica, e nella Gran Bretagna la localizzazione di una prima scena artistica autonoma. La percezione di questo genere musicale afro-americano è naturalmente mutata nel tempo, parallelamente alla sua evoluzione. Negli anni Venti il blues, per gli europei, non ha ancora una connotazione identitaria individuata, ma è assimilato alla musica jazz: il soggiorno a Londra del chitarrista Lonnie Johnson (1889-1970), di stanza con le truppe americane a Londra per alcuni mesi del 1917, e la prima tournée europea della cantante Alberta Hunter (1895-1984), nel 1925, non lasciano segni di rilievo. I race record con le incisioni del blues classico – le cantanti Mamie Smith (1883-1946), Gertrude “Ma” Rainey (1886-1939), Bessie Smith (1894-1937) – popolarissimi negli USA, non sono ancora conosciuti in Europa, né si hanno tracce di diffusione radiofonica di brani blues anteriormente ai primi anni Trenta; in ogni caso, le incisioni di blues classico riscuotono un interesse motivato in parte dai solisti di jazz che vi figurano. Ma segnali di maggiore interesse per la specificità di questo genere afro-americano si hanno già nel 1937, quando sulla rivista francese “Jazz Hot” cominciano ad apparire i primi saggi critici. Seminale è quello dedicato da Madeleine Gautier a Bessie Smith (la Gautier inizierà, inoltre, una proficua opera di traduzione di testi blues), oltre alle prime segnalazioni di registrazioni di Robert Johnson (1911-1938) e di Casey Bill Weldon (1909-fine anni Sessanta) da parte del critico inglese Stanley Dance (1910-1999).
Già dall’immediato dopoguerra la ricezione del blues muta profondamente, grazie a due fattori. Il primo, sul modello di quanto accaduto dopo la prima guerra mondiale per il jazz, specialmente in Francia, è dato dalla presa di contatto diretta con elementi culturali afro-americani, a seguito degli eventi bellici. Ad esempio, la possibilità di accesso ai concerti organizzati per le Forze Armate americane, in cui spesso si esibiscono bluesmen – famosa l’esibizione nel 1945 di Big Bill Broonzy (1893-1958) al Teatro Reposi di Torino – o alle produzioni discografiche espressamente realizzate per i militari, i V(ictory) Disc: vi si possono reperire incisioni di Big Bill Broonzy, Lillian “Lil” Green (1919-1954) o Josh White (1914-1969). In secondo luogo, l’avvento dello stile jazzistico be-bop, il cui presunto intellettualismo allontanerà molti “puristi” – come il critico francese Hugues Panassié (1912-1974) – che cercheranno l’essenza della musica afroamericana proprio nella profonda riscoperta e valorizzazione dell’arcaicità del blues. Nel quadro di questo motivato interesse sono organizzate le tournée in Europa di Huddie Leadbetter “Leadbelly” (1889-1949) (nel 1949), di Josh White (nel 1950) e di Big Bill Broonzy (sei tournée dal 1951), grazie alla collaborazione tra Panassié e il critico americano John Hammond (1910-1987). In ogni caso, la ricezione del blues da parte degli europei è inficiata, in questa fase, da una scarsa consapevolezza della sua evoluzione stilistica e della sua perdurante presenza all’interno della comunità afro-americana: Big Bill Broonzy, ad esempio, è presentato come “l’ultimo cantante blues vivente”.
Dal 1955 Jacques Demètre inizia la collaborazione a “Jazz Hot” come esperto di blues, con l’intento di liquidare i luoghi comuni allora diffusi, che lo propongono come “jazz arcaico” o come forma di “jazz lento”, prospettando, di converso, una considerazione formale e antropologica del fenomeno inteso nella sua specificità, con contributi d’avanguardia non solo per l’Europa. È proprio al fine di documentarsi sulla funzione del blues all’interno della comunità afro-americana che lo studioso intraprende nel 1959 un viaggio negli USA, scoprendo la realtà sociale e artistica del blues urbano di Muddy Waters (1915-1983), Howlin’Wolf (1910-1976), Sonny Boy Williamson II (Rice Miller) (1899-1965), John Lee Hooker (1917-2001), Champion Jack Dupree (1909-1992), Willie Dixon (1915-1992), i cui dischi circolano già da qualche anno in Europa, non disponendo, però, ancora di un preciso inquadramento critico. Con questo viaggio Demètre anticipa di un anno anche la ricerca negli Stati Uniti del musicologo inglese Paul Oliver (1927-), che di lì a poco pubblicherà il fondamentale The Meaning of Blues (1960). Al contempo, Jack Dupree è il primo bluesman a trasferirsi di qua dell’Atlantico, stabilendosi a Londra nel 1959, tre anni dopo l’apertura nella capitale del “Blues e Barrelhouse Club”, in cui cominciano a esibirsi regolarmente i musicisti blues americani in tournée, gestito da due musicisti e appassionati ricercatori: il chitarrista Alexis Korner (1928-1984) e l’armonicista Cyryl Davies (1932-1964).
È in questo scenario che nel 1962 appare a Londra la prima formazione europea di blues revival, guidata proprio da Korner e Davies, destinata a esercitare un enorme influsso sulla nascente scena inglese: Blues Incorporated, di cui fa parte anche il saxofonista e tastierista Graham Bond (1937-1974). A un anno di distanza si costituirà l’altra storica fucina del blues britannico, i Blues Breakers, capitanati da John Mayall (1933-). In questi cenacoli si formeranno chitarristi come Eric Clapton, Peter Green, Mick Taylor, Jeff Beck, Jimmy Page; cantanti come Mick Jagger ed Eric Burdon; bassisti come Jack Bruce (1943-) e John McVie o batteristi come Mick Fleetwood, Ginger Baker e Charlie Watts. È tutto il fronte che darà vita al rock-blues britannico, egemonizzando la scena internazionale degli anni Sessanta/Settanta. Inoltre, anche se non direttamente coinvolti in queste seminali band, altri grandi chitarristi blues prenderanno le mosse da questo fertile ambiente artistico: Alvin Lee, leader dei Ten Years After, e il Kim Simmonds di Getting to The Point (1968), con i Savoy Brown.
Dagli anni Settanta il verbo del blues si diffonde in tutta Europa, sull’onda della storicizzazione di questo genere e della ricerca filologica, accanto all’enorme diffusione di festival e rassegne. In Italia i primi artisti a specializzarsi nel blues (nella versione elettrica dello stile urbano dei tardi anni Quaranta) sono stati Fabio Treves con Treves Blues Band (1975), Roberto Ciotti con Super Gasolina Blues (1978), e Guido Toffoletti con Straight Ahead (1978), cui ha fatto seguito uno stuolo di cultori del genere. Altre scene interessanti sono attualmente in Francia, con Patrick Verbeck, Benoit Blue Boy, Paul Personne, Bill Deraime; in Austria, con Mojo Blues Band; in Germania, con Dr. Slide, Abi Wallenstein e le nuove leve Dominik Clayton ed Henrik Freischlader.
Funk
Il funk degli anni Sessanta è la riproposizione più coerente, in chiave tecnologica, del modello collettivo e tribale, che trova espressione soprattutto nella poliritmia, cioè in un intreccio complesso e paritetico di diversi ritmi tra loro complementari: vi è così una significativa convergenza di valori e pratiche culturali tra le tradizioni orali e la cultura tecnologica elettronica. Il funk è uno degli stili musicali dove più evidente è la persistenza di caratteri espressivi d’origine africana, tramandati attraverso i rituali dei Ring Shout; la stessa denominazione identifica in inglese un campo semantico riferito alla dimensione olfattiva, proponendo un significativo capovolgimento di valori culturali. L’antropologo Robert Farris Thompson riferisce che nel linguaggio centro-africano Ki-Kongo l’espressione li-fuki indica la positiva energia spirituale, e i nativi ritengono che tale forza vitale sia espressa attraverso l’odore corporeo, laddove questi aspetti olfattivi hanno subito in Occidente una rilevante rimozione culturale. Alla fine degli anni Cinquanta, nell’argot jazzistico “funky” identifica qualcosa di intrinsecamente legato all’originaria espressività musicale afro-americana.
Dal punto di vista musicale i tratti distintivi del funk si sono definiti alla fine degli anni Sessanta attraverso le figure dei vocalist James Brown (1933-2006), Sylvester Stewart (leader di Sly and the Family Stone), George Clinton, declinando l’assetto testurale proprio del rhythm and blues, basato su un organico strumentale composto da sezione ritmica più sezione fiati, all’interno di una ancor più strettamente integrata rete di poliritmie. Questa dimensione poliritmica ha implicato il ricorso a ensemble esecutivi molto più ampi rispetto alla musica rock, con musicisti che eseguono disegni ritmici strettamente interdipendenti all’interno di una testura densa. Inoltre, è notevolmente coinvolta la partecipazione dell’uditorio danzante, con lo stabilirsi di un’intima connessione biunivoca tra la modalità dell’esecuzione, che lascia margini di improvvisazione agli esecutori, e i movimenti creati all’impronta dai danzatori.
L’aspetto più importante del funk è il groove, determinato dalla compresenza nel ritmo di questa musica di una scansione regolare facilmente memorizzabile a medio e lungo termine e di alcune inflessioni irregolari nelle relazioni temporali a breve termine. Si impone allora un principio “audiotattile”, cioè fondato su sinestesie che legano le percezioni uditive alle sensazioni corporee provabili suonando uno strumento. Le inflessioni ritmiche del funk, vissute in tal modo, fanno sì che il suo ritmo, che senza tali inflessioni verrebbe percepito come “inerte”, appaia invece “personalizzato” e “vivificato”, mentre le sue componenti interne acquistano caratterizzazioni stilistiche collettive e individuali.
Nel funk di James Brown, ad esempio in Get Up (I Feel Like Being a) Sex Machine o Super Bad (entrambi del 1970), il livello ritmico-metrico macrostrutturale si caratterizza sia per una pronuncia ritmica con suddivisione binaria del tactus sia per l’accentuata articolazione poliritmica complessiva, cui l’interazione tra la chitarra elettrica di Phelps Collins e il basso di William “Bootsy” Collins (1946-) conferisce un carattere peculiare, con una rete di iterazioni motivico-ritmiche sincronizzate. In funzione di orientamento macrostrutturale, inoltre, è tassativo il riferimento al primo tempo della battuta, che nello stile funk “osservato” viene sempre enfatizzato. Molto spesso i brani sono a struttura sezionale, senza pervenire al climax connesso alle qualità melodico-espressive di un ritornello: la centralità del groove fa sì che tutto il pezzo sia inteso come un organismo in perpetua espansione, al più con sezioni intermedie di otto battute sulla sottodominate o dominante, con funzione di scansione formale. In tale organizzazione, mentre le chitarre disegnano figurazioni ritmiche ripetitive, i fiati inseriscono brevi motivi a loro volta iterati (riffs). In tale intreccio di ripetizioni, si inseriscono alcuni elementi microstrutturali che si distinguono l’uno dall’altro per l’inflessione timbrico-materica della loro sonorità, e che vengono realizzati soprattutto, ma non esclusivamente, dalla sezione ritmica (basso elettrico e batteria). Questo fenomeno è evidentissimo in Thank You (Falettinme Be Mice Elf Agin) (1970) di Sly and the Family Stone, attraverso la specifica formatività microritmica di Larry Graham, che applica al basso elettrico Fender una variante della tradizionale tecnica slap usata nel contrabbasso jazz sin dagli anni Venti – o nel jump blues di Louis Jordan (1908-1975) fino al rock’n’roll di Bill Haley, col contrabbassista Al Pompilli – con l’effetto percussivo derivante dall’impatto della corda sulla tastiera conseguente a un forte strappato. Graham abbina lo strappato col medio/anulare sulle corde più acute alla percussione delle corde più basse col pollice, inaugurando uno stilema funk poi largamente ripreso: la frazione microtemporale in cui si attua il preciso impatto corda/tastiera (dell’ordine di poche decine di millisecondi) conferisce una qualità inusitata a tutto il groove dell’ensemble.
In Gran Bretagna, in particolare, già dagli anni Sessanta si registra l’assimilazione di elementi funk nello stile interpretativo dei vocalist Mick Jagger, Rod Stewart, Steve Marriott, Noddy Holder, Robert Palmer. Ma è il sodalizio di Eric Burdon con i War (nel 1970-1971) che segna il punto più alto di questa connessione tra tradizione rock inglese e funk afro-americano – Eric Burdon Declares War (1970) – se si eccettua la collaborazione, come autrice, della folk singer inglese Ruth Copeland con George Clinton, a cominciare dal primo disco dei Parliament, Osmium (1971).
Una vera e propria scena funk europea si anima a partire dagli anni Settanta. Gli scozzesi Average White Band (dal 1972), nascono sul modello delle grandi house band discografiche americane, e I Got It, nel primo LP con l’Atlantic (1974), mostra nella vocalità un chiaro influsso dei Traffic di Stewie Winwood (1948). Il gruppo produce un groove caratteristico, molto meno propulsivo e più morbido rispetto alle band afro-americane. I Kokomo (1973-1977), con formazione di dieci elementi, vedono alle ance Mel Collins, transfuga dai King Crimson. Il loro funk è a un tempo innovativo e profondamente radicato nella tradizione: in Kitty Sittin’ Pretty (1975) ominose ondate in crescendo del Do in unisono incombono, quasi reminiscenti del progressive rock. I Gonzalez (1974) presentano un organico che varia dai 15 ai 30 musicisti. Nel brano Funky Frith Street (1974) il sax tenore è prominente, su chitarra tipicamente funky con assertività memore della chitarra ritmica di Phelps “Catfish” Collins, la cui immagine timbrica sottile, accentuata dalla sonorità dei magneti single-coil, è posta alla sommità della testura come un gankogui africano.
La tradizione funk anglosassone si riaffaccia col britfunk dei primi anni Ottanta, dopo l’ondata del punk. Gruppi londinesi come Roogalator, Play It by Ear (1977) – in cui figura Danny Adler (1949), chitarrista dall’ambiente musicale funk della Cincinnati di “Bootsy” Collins – i Freeze, Southern Freeze (1981), i Linx, Intuition (1981), i Light of The World, Swingin (1979) aprono la strada ad una corrente stilistica che vedrà la commistione, allo scadere del secolo, degli stili funk, pop e dance, dagli Imagination di Fascination of the Physical (1990) fino ai Jamiroquai, Synkronized (1998). In particolare, dai Light of the World si origineranno due altri notevoli gruppi: Beggars & Co., Monument (1981), e Incognito, mélange di funk/fusion/dance col chitarrista Jean-Paul “Bluey” Maunick, senza l’apporto del bassista sodale Paul “Tubby” Williams a cominciare da Inside Life (1991). Sono pochi i gruppi, però, che non fanno ricorso a loop e sequencer, affidandosi al dettato della tradizione del groove, derivante dall’estemporizzazione strumentale: tra questi brilla l’acid jazz dei Brand New Heavies, Brother Sister (1994). Tra le ricorrenti mode, il New Soul di fine anni Novanta propone una sintesi di funk e hip hop, anche se nel resto d’Europa non si registrano realtà veramente caratterizzate. In Italia, all’originale vena del napoletano Enzo Avitabile (1955-), Meglio Soul (1983), con discreto esito discografico, fanno seguito gruppi come Ridillo o Blindosbarra, senza, però, la forza propositiva di soluzioni innovative.