GUZZONI, Boccolino
Appartenne a nobile e antica famiglia podestarile originaria della terra di Offagna, trapiantata a Osimo intorno alla metà del XII secolo. Fu primogenito di Guzzone e della seconda moglie di questo, la nobile osimana Francesca di Ranuccio Ottoni, dei signori di Matelica. Ignota la data di nascita, da collocare comunque tra il 1445 e il 1447 a giudicare dalla prima attestazione documentaria del Guzzoni.
Alla fine del 1457, in seguito a un alterco tra Guzzone e il nobile Giacomo Leopardi, quest'ultimo percosse in pubblico Guzzone al petto: un episodio del tutto marginale nel clima denso di tensioni delle città italiane dell'epoca e senza immediate conseguenze, se non fosse per la reazione del giovane G., che qualche giorno più tardi ebbe l'ardire di presentarsi armato nella sede del Consiglio cittadino, minacciando i magistrati e pretendendo che al padre fosse fatta giustizia. L'azione, che si risolse nell'immediata cattura del G. e del compagno che questi aveva trascinato con sé nella bravata, costituisce un primo indizio dell'indole violenta del G., che doveva essere appena adolescente, tra i 10 e i 12 anni, poiché risulta sottoposto ancora alla disciplina del precettore di grammatica, il maestro Geronimo da Tolentino (Cecconi, p. 11 n. 2).
Liberato per intercessione del maestro e dei genitori e conclusi gli studi primari, il G. fu avviato all'apprendimento delle scienze matematiche, per le quali palesava forti inclinazioni e, contemporaneamente, al mestiere delle armi. Non conosciamo gli esiti dei suoi primi cimenti bellici, che si compirono negli anni Sessanta sotto la disciplina del capitano sforzesco Bartolaccio da Monte dell'Olmo. L'attività dei primi anni dovette comunque procurargli, si ignora in che modo, l'amicizia di Lorenzo de' Medici, che il 12 sett. 1475 scrisse al duca Ercole d'Este, al soldo del quale il G. aveva militato, pregandolo caldamente di scarcerare il condottiero, a sua detta incolpato ingiustamente di un crimine del quale non è specificata la natura, da addebitare alla "insimulatione" di altri. L'intercessione del potente protettore valse al G. la libertà e con essa la possibilità di rientrare nel mercato mercenario.
Nel 1476 lo ritroviamo infatti a Milano, impegnato a contrattare una ferma con Carlo il Temerario, duca di Borgogna. Informando delle richieste avanzate dal sire di Chateauguyon, commissario del duca, spedito in Italia a reperire genti d'armi, Gian Pietro Panigarola, oratore di Galeazzo Maria Sforza duca di Milano, comunicava a quest'ultimo nell'aprile del 1476: "Credo acceptarà messer Bocalino de Auximo a li servitii suoi, per le recomendatione che vostra signoria à facto" (Carteggi diplomatici, pp. 368 s.). Grazie al diretto interessamento del duca, quindi, e benché sconosciuto all'ufficiale borgognone, il G. poté acquisire uno degli ingaggi più prestigiosi dell'epoca, venendo incluso con buon seguito di armati e ottima provvisione nella ferma di 400 "lanze vive" assoldate in maggio dallo Chateauguyon. Ci è oscura la radice della stima nutrita da Galeazzo Maria Sforza per il G.: è probabile che derivasse dal rispetto dei legami tra il Magnifico e il G., ma non è escluso che quest'ultimo avesse fatto parte dell'entourage del duca, militando tra i giovani armigeri della sua guardia.
Morto nel dicembre 1476 il duca Galeazzo Maria e, pochi giorni dopo (inizio 1477) sconfitto e ucciso Carlo, il G. tornò a Osimo, dove lo chiamavano pressanti affari di famiglia e di patria, per la scomparsa della madre e, soprattutto, per le crescenti tensioni tra Osimo e Ancona.
Le città, da sempre rivali, erano da alcuni anni impegnate in violente dispute di confine; il G. giunse a Osimo nella fase più calda di quelle frizioni, nei primi mesi del '77, quando, dopo un attacco degli Anconitani al territorio della città rivale (giugno 1476), al quale era seguita una dura quanto vana protesta degli Osimani presso il papa, si pensava di dar voce alle armi.
All'apertura delle ostilità i magistrati del Comune di Osimo elessero come comandante dell'esercito il G., che il 27 giugno 1477 risolveva con un'unica azione il conflitto, attaccando temerariamente e con gravi perdite l'esercito avversario e disperdendolo.
Si trattava di un atto denso di conseguenze politiche. La battaglia si era disputata infatti nella contrada di Cesa, a nord del monte Gallo, in terra dei Guzzoni, che gli Anconitani avevano preventivamente sottoposto al guasto, e aveva visto confrontarsi da un lato circa 4000 uomini tra anconitani, camerinesi e ascolani, con cavalleria, fanteria di tiratori e artiglierie da campo, e dall'altro non più di 800 Osimani, montati i più in squadre di cavalleria tra leggera e pesante. La reputazione del G., sommo difensore della patria e della casa, salutato come novello Achille dal poeta Antonio Onofrio, che ne celebrò le gesta in versi latini, ne risultò rafforzata, così come la sua posizione in seno alla comunità, posizione cui egli si affrettò a conferire colore politico, favorendo il partito popolare, forse già in vista del colpo di mano destinato di lì a qualche anno a renderlo signore della città.
Una nuova guerra interveniva però a deviare, se pur già formati, i disegni del G., distraendolo dai contrasti che sempre più audacemente egli alimentava con le altre casate nobili osimane. La congiura dei Pazzi e il conflitto che ne seguì tra Firenze e il papa, sostenuto dal re di Napoli Ferdinando I d'Aragona, vide il G. in dubbio tra l'accogliere i consigli paterni, volti a caldeggiare un suo ingaggio con l'Aragonese, e le proposte di contratto pervenutegli dalla Repubblica di Firenze. La scelta della seconda opzione, resa forse necessaria dai legami di amicizia e riconoscenza che univano il G. a Lorenzo de' Medici, si rivelò infausta nella specifica congiuntura politica. Il contratto, infatti, stipulato il 19 giugno 1478 con i Dieci di balia per un contingente di 15 corazze, scatenò sulla famiglia del G. le ire del papa, indignato che suoi sudditi si fossero posti al soldo del nemico (nella compagnia del G. militava anche il fratello Giacomo Filippo). A nulla valse il congedo chiesto e ottenuto in agosto dal G. (che si tenne però in segreto contatto con il Magnifico): Sisto IV, dopo aver intimato invano ai due fratelli di presentarsi al giudice pontificio a Macerata, condannava per ritorsione Guzzone al confino e alla confisca dei beni, con il pretesto di averne scoperto illecite trame eversive a Osimo. La posizione dei Guzzoni in patria era però granitica: il Consiglio dei cento inviò messi al papa per dissipare ogni dubbio sulla fede di Guzzone e, respinto nelle sue richieste, pregò il Comune di Recanati di farsi mallevadore per il proprio concittadino presso il luogotenente della Marca, offrendo la somma di 5000 ducati in garanzia della sua lealtà; intanto Giacomo Filippo, obbedendo alle ingiunzioni del papa, ritornò a Osimo, dove sposò la nobile anconitana Francesca Boccamaggiori. Il papa, tuttavia, fermo nella sua indignazione, nel febbraio 1480 poneva all'incanto i beni del G., che pervicacemente rimaneva sordo ai mandati di comparizione. La levata di scudi dei cittadini di Osimo, che si rifiutarono di offrire somme per tali beni, valse però a mitigarne le ire: per evitare un'aperta rivolta egli decise di accettare la proposta dei Recanatesi, riammettendo Guzzone in patria e restituendo i beni al figlio. La partita per il papa era persa e la casata dei Guzzoni ne usciva rafforzata nel consenso civico: si trattava di una vittoria di cui il G. avrebbe di lì a poco raccolto i frutti; intanto egli continuava a irrobustire la propria fama di condottiero.
È incerto se il G. passasse sotto le insegne aragonesi a guerra non ancora terminata, giusto il congedo richiesto a Firenze, o se venisse ingaggiato da Alfonso duca di Calabria durante il precipitoso trasferimento di quest'ultimo nel Regno a seguito dell'attacco portato nel 1480 dai Turchi alle coste pugliesi. Certo è che militò nel campo napoletano all'assedio di Otranto e che dovette distinguervisi.
Nelle liste di pagamento dell'esercito napoletano relative al settembre 1481 egli figura infatti tra gli ufficiali veterani tenuti a provvisione fissa e senza seguito, con uno stipendio di 300 ducati, al fianco di uomini del calibro di Rossetto e Rinaldo Fieramosca e di Giovan Battista Staffa, rappresentanti del più stretto seguito militare del duca di Calabria. Tra le fila dell'esercito napoletano militò per quattro anni: nella guerra di Ferrara, oltre che nel succitato assedio di Otranto. Nell'agosto 1483 prendeva congedo e tornava a Osimo, a causa della morte del padre; conduceva con sé, minaccioso monito ai nemici e segno della sua accresciuta fama di condottiero, un contingente di 100 cavalleggeri morlacchi, feroci combattenti dalmati già militanti tra le fila dell'esercito turco di Otranto, che il duca di Calabria gli aveva concesso come scorta personale.
Gli anni 1483-85 lo videro implicato nelle complesse lotte tra i Comuni della Marca. Fu condottiero per i Fermani contro gli Ascolani e poi capitano del neoeletto (settembre 1484) papa Innocenzo VIII nella guerra da questo promossa per riportare la pace tra le due Comunità: guerre di ben inferiore portata rispetto a quelle cui aveva preso parte sotto le bandiere di Firenze e Napoli, ma che contribuirono a definire il suo ruolo in seno allo Stato pontificio, ponendolo come uno dei principali elementi della dialettica politica di quello.
Conscio di tale posizione acquisita e forte in patria dell'appoggio del popolo minuto, ch'egli non aveva mai smesso di sostenere, il G. andava considerando intanto, in quel torno di anni, l'idea di insignorirsi di Osimo. Strettisi nella "compagnia della lega", gli aristocratici opponevano tuttavia una dura resistenza alle sue mire. Il 1485 trascorse tra torbidi e trame, senza che egli fosse in grado di realizzare i suoi disegni, finché, sullo scorcio dello stesso anno, la guerra scoppiata tra Innocenzo VIII e il re Ferdinando diede al G. l'opportunità di un colpo di mano. Tra i piani del re, costretto a lottare all'interno del proprio Stato contro i baroni ribelli e a opporsi, all'esterno, all'esercito pontificio che li sosteneva, rientrava il progetto di aprire un fronte interno anche nei domini della Chiesa, inducendo le preminenti famiglie aristocratiche delle città umbre e marchigiane a sottrarre le proprie Comunità all'autorità della Curia. Il G. non esitò a offrire i propri servigi alla Corona.
Già in marzo il G. veniva contattato dalla diplomazia napoletana per una condotta di 50 uomini d'arme, 20 balestrieri a cavallo e 100 fanti più "trecento ducati lanno per la provisione de la sua persona" (Cecconi, p. 47), con il compito precipuo, insieme con Francesco da Jesi, di "mettere in libertà le terre di Osmo et de Hesi et quelle levare da la obedientia del papa" (ibid., p. 48). Si trattava ormai dunque per il G. solo di cogliere l'occasione per impossessarsi della città. Questa gli fu data dai suoi stessi concittadini i quali, insospettiti per il continuo afflusso di armati al suo soldo, o perché già a conoscenza degli accordi stese con la corte di Napoli, gli ingiunsero, il 2 apr. 1486, di comparire dinanzi al Consiglio della città per chiarire i sospetti su lui gravanti.
La reazione del G. fu conforme alla sua natura violenta e audace: reinterpretando un copione già scritto trent'anni innanzi, fece irruzione armato nel palazzo dei magistrati e, spalleggiato dai propri familiari, trucidò di sua mano tre consiglieri del Comune, primo dei quali, in omaggio a un pluridecennale sentimento di vendetta, il vecchio Giacomo Leopardi; altri quattro magistrati furono uccisi dai suoi scherani, mentre in piazza le truppe di fanti e morlacchi, insieme col popolo minuto, facevano strage dei suoi nemici. Scamparono tuttavia alcuni rappresentanti della Compagnia della lega, tra i quali Pierdomenico Leopardi, principale emulo e avversario del Guzzoni. L'indifferenza agli approcci diplomatici subito tentati dal papa per risolvere in modo incruento la questione e la strenua resistenza opposta ai molteplici assedi cui fu sottoposta la città negli anni successivi danno la misura del credito di cui godeva il G. presso il popolo di Osimo, ma mostrano, al contempo, l'incapacità di Innocenzo VIII di gestire i rapporti con la bellicosa aristocrazia del proprio Stato. Il G., dopo i primi falliti approcci, aveva infatti manifestato disponibilità alle proposte di accordo dell'inviato del duca d'Urbino, ma, constatata l'irresolutezza del papa, si era poi ritirato dalle pratiche, benché a garanzia di esse avesse consegnato in ostaggio un suo giovanissimo nipote.
Il 1486 si chiuse comunque con la decisione di espugnare la città e punire il ribelle, in forza della pace intanto stipulata tra la corte pontificia e quella napoletana; si fecero affluire attorno alle mura di Osimo le schiere feltresche a sostegno dei Pontifici e dei fuorusciti capitanati da Pierdomenico Leopardi. Il papa sottovalutava però la determinazione del G. e, soprattutto, la sua temerarietà. Tra la fine del 1486 e l'inizio del 1487, infatti, il G., preso atto del proprio isolamento, adottò quella risoluzione destinata a renderlo famoso: la richiesta di aiuto al sultano turco e l'offerta di conquistare per lui la Marca.
L'audace tentativo (che si risolse in un nulla di fatto, dopo che Bāyazīd II, attuata un'azione esplorativa, ebbe valutato le difficoltà dell'impresa, per la consistente resistenza che vi avrebbero opposto Napoli e Venezia) è interessante sotto molti aspetti. Le istruzioni affidate dal G. al nipote Angelo Malazampa, nella seconda fallita ambasciata inviata a Bāyazīd, mostrano come, oltre al dominio di Osimo, egli mirasse a confermarsi come uno dei principali condottieri italiani; in cambio della conquista della Marca per conto del Turco, che a tale scopo avrebbe dovuto inviargli 12.000 soldati, il G. chiedeva di essere nominato capitano generale della fanteria che quel sovrano avrebbe stabilmente collocato in Italia, con annua provvisione di 4000 ducati e obbligo di tenere compagnia di 200 lancieri e 100 balestrieri montati, vale a dire circa 1000 combattenti a cavallo. L'approccio del G. presso la corte del sultano provocò nel papa un prevedibile moto di sdegno; come consigliava il re Ferdinando, che intanto provvedeva a munire massicciamente di armati le coste del Regno in previsione di un eventuale attacco da Oriente, era necessario intensificare le operazioni di assedio a Osimo per espugnare al più presto la terra.
La pervicacia del G., che aveva ammassato un gran numero di armati nella città, e la forza del sito si opponevano tuttavia a una soluzione rapida della crisi: l'imponente esercito riunito dal papa attorno alla città, al comando di Giacomo Vitelli, era decimato dalle epidemie e dalle sortite dei Boccolineschi, mentre riuscivano vani i tentativi di piegare con il terrore il G. (che lasciava impiccare, rifiutando ogni proposta di resa, il nipote consegnato l'anno prima in ostaggio al governatore della Marca e il cugino Angelo Baligani, imprigionato in quei mesi a Pesaro).
Per sbloccare la situazione fu necessario l'intervento dell'esercito sforzesco, invocato dal papa, e il conseguente passaggio del comando dell'impresa a Gian Giacomo Trivulzio. Fu impossibile, però, conquistare in tempi brevi la terra, nonostante questi rinforzi, salutati da un ennesimo attacco del G., che nel giugno assaliva il campo degli assedianti provocando la morte di 300 soldati e del loro condottiero, Giovanni Vitelli. L'avventura osimana del G. volgeva tuttavia al termine. Stretto dai formidabili apparati ossidionali fatti approntare dal Trivulzio, che nei mesi estivi erigeva contro la città un bastione dal quale era possibile bombardare le mura, e disperando ormai del sostegno turco, il G. si affidò alla diplomazia per ottenere un'accettabile capitolazione. Ancora una volta venne a sostenerlo l'amicizia del Magnifico. Con la mediazione dell'oratore mediceo Gentile Becchi da Urbino, il 1° ag. 1487 furono firmati dal nuovo legato della Marca, cardinale Jean Balue, e dal Trivulzio i patti relativi alla resa del G.: egli avrebbe abbandonato la città con la famiglia e i più fedeli soldati (tra questi il vecchio Bartolaccio da Monte dell'Olmo che il G. aveva ingaggiato nella propria compagnia) e si sarebbe recato a Pesaro sotto scorta, gli sarebbero stati versati poi in due rate, di cui una immediata, 8000 ducati, come indennità per i suoi beni sequestrati e già donati dal papa a Pierdomenico Leopardi.
Gli ultimi anni del G. furono spesi nell'attività militare. Rifiutata una stabile residenza a Firenze, dove l'amico Lorenzo de' Medici, presso il quale si era recato dopo l'obbligata tappa a Pesaro, gli aveva concesso l'onore della cittadinanza, si ritirò con i suoi a Milano, accogliendo le proposte di ingaggio offertegli da Ludovico il Moro.
Nel settembre 1488 militava già al soldo del Moro con una compagnia di cavalieri e fanti nella campagna organizzata dal Ducato per reprimere i torbidi scoppiati a Genova, posta sin dall'agosto 1487 sotto la signoria degli Sforza. La ricca documentazione milanese illustra dettagliatamente la condotta del G., cui fu affidato l'incarico di conquistare le fortezze di Savona, difese da Alessandro Fregoso, figlio del doge Paolo. In pochi giorni il G. espugnò il vescovato fortificato e l'arsenale e, non senza contrasti con gli altri capitani dell'impresa, in particolare i genovesi Obietto e Giovanni Adorno, fedeli servitori della reggenza milanese, si apprestò a dar battaglia alla prima delle due fortezze della città, il Castello Vecchio, che nei giorni successivi costringeva alla resa per forza di scalata, come anche la rocca principale della città. La brillante impresa ligure conferì al G. un posto di rilievo in seno all'esercito sforzesco, dal quale tuttavia nel settembre del 1490 chiese e ottenne congedo.
Nel '92 lo si ritrova a Milano, recuperato al soldo del Ducato per diretto interessamento del Moro, il quale non aveva smesso di contattare il G. per un suo rapido ritorno.
È possibile che, in vista dell'attuazione di un colpo di Stato a Milano ai danni del nipote Gian Galeazzo, il Moro intendesse attorniarsi di uomini audaci, e nessuno meglio del G. mostrava le caratteristiche proprie della prestezza e della temerarietà nell'azione militare. Con l'evidente intento di legarlo alla propria fedeltà Ludovico si impegnò così, nel corso di quell'anno, a curare gli interessi privati del G., sostenendolo in una serie di faccende finanziarie e giuridiche, tra le quali la riscossione dei frutti di alcuni investimenti fatti dal G. durante la sua ultima permanenza a Firenze (per la quale il Moro incaricò il proprio oratore nella città toscana, confortandolo ad agire nei confronti del banco dei Martelli e di Angelo Pandolfini) e il recupero dei debiti contratti da tale Bartolomeo Solero di Chieri con il G., ammontanti a 1000 ducati d'oro. Procurava inoltre il Moro di appianare la disputa tra il G. e il nipote Giambattista Malazampa, il quale, colpito nei propri interessi dalla confisca dei beni del parente, tra i quali ricadevano molti suoi possessi, ne richiedeva risarcimento allo zio (il duca si offrì come garante e propose di prendere su di sé il carico dell'indennizzo).
L'idillio era tuttavia destinato a durare poco. La storiografia erudita tramanda la notizia secondo la quale, dopo essersi recato con il Moro al Castello sforzesco, il G. avesse confidato a un amico che, benché il duca ritenesse inespugnabile quella fortezza, egli, se ne avesse avuto l'occasione, sarebbe stato in grado di occuparla con scarso numero di armati; tale confidenza sarebbe giunta poi all'orecchio di Ludovico, che avrebbe senz'altro pensato di sbarazzarsi del condottiero.
Sia da accettare o meno tale informazione è evidente che, nel clima denso di sospetti e tensioni della corte milanese nei primi anni Novanta del secolo, il G. fosse destinato a perire a causa delle medesime ragioni per le quali aveva guadagnato spazio nella considerazione del reggente. È possibile in particolare che su di lui, uomo pronto a tutto, gravasse il sospetto di un contatto con la corte napoletana, alla quale era strettamente legato e che si trovava impegnata proprio in quegli anni a far valere i diritti di Gian Galeazzo, ormai maggiorenne, e della di lui moglie Isabella d'Aragona, figlia di Alfonso duca di Calabria.
La necessità di eliminare i potenziali sostenitori interni del giovane duca esautorato, in vista di un possibile attacco napoletano, che si minacciava all'inizio del 1493, potrebbero aver indotto il Moro a disfarsi del G.; questi nell'inverno di quell'anno veniva improvvisamente imprigionato e torturato.
Tra le ragioni della caduta del G. non vanno però dimenticati i rinnovati legami di alleanza tra il Moro e la corte pontificia, nella figura del nuovo papa Alessandro VI, avverso da subito alla corte napoletana e impegnato nell'opera di assoggettamento delle signorie del suo Stato, il quale avrebbe potuto, sull'esempio del suo predecessore, rinnovare le richieste di abbattere il G. come traditore della Chiesa: in questo quadro, la detenzione del condottiero poteva configurarsi come garanzia di quell'alleanza.
Il 14 giugno 1494 il G. concludeva la propria travagliata vita sulla forca, epilogo simile a quello di molti altri condottieri italiani del Quattrocento.
Nessuna notizia si ha dell'unica figlia del G., nata durante l'assedio di Osimo e tenuta a battesimo, su espressa richiesta del condottiero, dal legato della Marca, cardinale Balue, nel corso di una tregua d'armi.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Modena, Cancelleria ducale, Documenti di Stati e città, 85: Librecto de tucta la gentedarme vechia ed anco de la novamente facta particularmente et de tucta quella che paga la maiestà del signor re, c. 24; G. Racioppi - S. dei Conti da Foligno, Le storie de' suoi tempi dal 1475 al 1510, Roma 1883, I, pp. 272-281; Dispacci e lettere di Giacomo Gherardi nunzio pontificio a Firenze e Milano (11 sett. 1487 - 10 ott. 1490), a cura di E. Carusi, Roma 1909, pp. XXX, XXXIV n. 1, XXXV, XLVII, 142 n. 3, 411 n. 1; Venezia e il conflitto tra Innocenzo VIII e Ferrante d'Aragona (1485-1492). Documenti dell'Archivio di Stato di Venezia, a cura di E. Pontieri, Napoli 1969, pp. 133 s.; Lorenzo de' Medici, Lettere, a cura di R. Fubini, II, Firenze 1977, pp. 128 s., 393-397; Carteggi diplomatici fra Milano sforzesca e la Borgogna, a cura di E. Sestan, Roma 1987, II, pp. 368 s., 473, 502; Corrispondenza di Giovanni Lanfredini (1485-1486), a cura di E. Scarton, Salerno 2002, pp. 83, 86, 88, 525 s., 528, 533 s.; L. Martorelli, Memorie historiche dell'antichissima e nobile città d'Osimo, Venezia 1705, pp. 325-387; G. Cecconi, Vita e fatti di B. G. da Osimo, capitano di ventura del secolo XV, Osimo 1889; Regis Ferdinandi primi instructionum liber, a cura di L. Volpicella, Napoli 1916, pp. 92 s., 110, 377, 391 s.; L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, III, Roma 1959, pp. 226, 229 s., 253.