Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Matteo Maria Boiardo, conte di Scandiano, feudatario degli Este e imparentato con due dei maggiori poeti estensi (Tito Vespasiano Strozzi e Niccolò da Correggio), dopo un’educazione umanistica a Ferrara, si dedica sopratutto alla poesia volgare. Compone un canzoniere di fedele osservanza petrarchesca dedicato all’amata Antonia Caprara (Amorum libri tres), un’interessante raccolta bucolica (Pastorali), un dramma teatrale (Timone) e un gioco di corte (Tarocchi). Capolavoro di Boiardo resta però l’Inamoramento de Orlando, poema cavalleresco in tre libri di ottave, rimasto incompiuto. Con Boiardo si assiste alla fusione della materia carolingia (imprese di Carlo Magno e dei paladini) e di quella bretone (vicende amorose) in uno straordinario intreccio di amori e avventure, narrati attraverso la tecnica dell’entrelacement.
La vita
Matteo Maria Boiardo
Per Antonia Caprara
Amorum libri tres, Libro I, 53
La smisurata et incredibil voglia
che dentro fu renchiusa nel mio core,
non potendo capervi, esce de fore,
e mostra altrui cantando la mia zoglia.
Cingete il capo a me di verde foglia,
ché grande è il mio trionfo, e vie magiore
che quel de Augusto o d’altro imperatore
che ornar di verde lauro il crin si soglia.
Felice bracia mia, che mo’ tanto alto
giugnesti che a gran pena io il credo ancora,
qual fia di vostra gloria degna lode?
Ché tanto de lo ardir vostro me exalto
che non più meco, ma nel ciel dimora
il cor, che ancor del ben passato gode.
Matteo Maria Boiardo
Di bucoliche ispirazioni
Pastorali, I, 1-9
La luce che raporta il novo giorno
or esce lampegiando in quel colore
che fa l’aria vermiglia e de oro intorno;
fuor de la mandra or esce ogni pastore
e cum la bianca grege e cum lo armento
pasce per l’erbe il roscido liquore.
Ed io meschin piangendo mi lamento
ne la ripa selvagia al crudo sasso
e spargo indarno e’ mei sospiri al vento.
Matteo Maria Boiardo
La gelosia fa smarrire ma ti può innalzare
Capitulo secondo de gellosia
Gellosia un vero amor non pò smarrire,
Ché si uno amante va con pura fede,
Amore il premia al fin del suo servire.
Gellosia è dura cosa ove esser vede
Comodo al concorrente nello amore:
Ché al spesso supplicar segue mercede.
Gellosia mesto rende un lieto core,
Ma spesso è causa anchor, dove ella sprona,
Condurre un ch’ama a un virtuoso honore.
M.M. Boiardo,Tarocchi
Matteo Maria Boiardo
Iniziando a cantare le gesta di Orlando
Inamoramento di Orlando
Signori e cavalier che ve adunati
per oldir cose diletose e nove,
stati atenti e quïeti et ascoltati
la bela historia che il mio canto move:
et odereti i gesti smisurati,
l’alta fatica e le mirabil prove
che fece il franco Orlando per amore
nel tempo de il re Carlo Imperatore.
Non vi para, signor, maraviglioso
odir contar de Orlando inamorato,
ché qualunque nel mondo è più orgolioso
è da Amor vinto al tuto e suiugato:
né forte bracio, né ardire animoso,
né scudo o maglia, né brando afilato,
né altra possanza può mai far diffesa
che al fin non sia da Amor batuta e presa.
(I, 1, 1-2)
Fo glorïosa Bertagna la grande
Una stagion, per l’arme e per l’amore
(Onde ancor hoggi il nome suo si spande
Sì ch’al re Artuse fa portar honore),
Quando e bon cavalieri a quele bande
Mostrarno in più batalie il suo valore,
Andando con lor dame in aventura,
Et hor sua fama al nostro tempo dura.
Re Carlo in Franza poi tienne gran corte,
Ma a quela prima non fo somiliante,
Ben che assai fosse ancor robusto e forte
Et avesse Renaldo e ’l sir d’Anglante:
Perché tiéne ad Amor chiuse le porte
E sol se dete ale bataglie sante,
Non fo di quel valor o quela estima
Qual fo quel’altra ch’io contava in prima;
Però ch’Amor è quel che dà la gloria
E che fa l’homo degno et honorato; […].
(II, XVIII, 1-3,1-2)
Colti ho diversi fiori ala verdura,
Azuri e giali e candidi e vermigli;
Facta ho di vaghe herbete una mistura,
Garofili e vïole e rose e zigli:
Tràggasi avanti chi de odore ha cura,
E ciò che più gli piace, quel se pigli:
A cui dilecta el ziglio, a cui la rosa
Et a cui questa, a cui quell’altra cosa.
Però diversamente il mio verziero
De amore e de battaglia ho già piantato;
Piace la guerra alo animo più fiero,
Lo amore al cuor gentile e delicato.
(III, V, 1-2, 1-4)
Matteo Maria Boiardo, conte di Scandiano, è senza dubbio una delle figure di maggior rilievo poetico della fine del XV secolo. Discendente di un’antica famiglia feudale fedele agli Este, nipote per parte di madre del poeta Tito Vespasiano Strozzi e cugino del più famoso Niccolò da Correggio, presto orfano di padre, si forma a Ferrara, dove riceve una buona educazione umanistica.
Alla sua prima giovinezza risalgono i volgarizzamenti di Cornelio Nepote e di Senofonte – attraverso il tramite latino di Poggio Bracciolini– e una serie di componimenti encomiastici latini per gli Estensi (i cosiddetti Carmina de laudibus Estensium). Tra le più interessanti opere latine dell’epoca si collocano i Pastoralia, dieci egloghe costruite sul modello virgiliano. Agli inizi degli anni Settanta Boiardo volge la propria ispirazione poetica al volgare: compone una serie di rime per Antonia Caprara, poi riordinate negli Amorum libri tres. Alla vena poetica Boiardo alterna gli impegni di corte: nel 1471 accompagna Borso d’Este a Roma per ricevere il titolo ducale dal papa; nel 1473 fa parte del corteo che conduce Eleonora d’Aragona, promessa sposa di Ercole d’Este (1431-1505), da Napoli a Ferrara; dal 1476 riceve uno stipendio dal nuovo duca Ercole e risiede quasi stabilmente a corte. In questi anni inizia la stesura della sua opera maggiore, l’Inamoramento de Orlando. Nel 1478 ritorna nel suo feudo, oggetto in quegli anni di violente contese familiari e, divenuto governatore di Modena nel 1480, protrae tra vari impegni la composizione del poema sui paladini di Carlo Magno fino al 1483, quando i primi due libri vengono stampati, probabilmente a Reggio (non si è conservata nessuna delle prime edizioni boiardesche). L’opera viene di lì a poco ristampata a Venezia in tre libri (ottenuti trasformando i canti 22-31 del secondo libro nel terzo) nel 1487 e nel 1491. Capitano di Reggio dal 1487, assolve il suo incarico con grande onestà fino alla morte, avvenuta nel 1494, mentre sta ancora completando la stesura dell’Inamoramento. Il poema, incompiuto, viene stampato postumo nel 1495 (a Scandiano) e, poi, nel 1506 (a Venezia).
Tra le opere cosiddette minori vanno ricordate le Pastorali, dieci egloghe volgari; il Timone, commedia in endecasillabi, adattamento dell’omonimo dialogo di Luciano di Samosata; i Tarocchi, cinque capitoli sul gioco delle carte; diversi volgarizzamenti, tra cui si segnalano la traduzione dell’Asino d’oro di Apuleio e delle Storie erodotee. Interessanti per ricostruire la figura umana e politica di Boiardo sono poi le Lettere (ben 193, a eccezione di una, tutte in volgare).
La poesia lirica
Tutta la produzione lirica di Boiardo è compresa nella raccolta degli Amorum Libri tres, fatta eccezione per alcuni strambotti di minore importanza ritrovati all’interno di un codice boiardesco (Vat. Lat. 11255). La struttura dell’opera, petrarchescamente dedicata alla celebrazione dell’amore per un’unica donna, è estremamente studiata: ogni libro è infatti composto da 60 componimenti, di cui 50 sono sonetti e i restanti dieci comprendono metri vari (14 ballate, 12 canzoni, 2 madrigali, un rondello e una sestina). La costruzione numerologica basata sul numero tre e sul dieci rimanda con ogni evidenza al precedente dantesco, così come l’intero impianto riprende invece – in chiave minore – la struttura dei Rerum vulgarium fragmenta. Le diverse liriche raccontano una vicenda, l’amore giovanile dell’autore per la reggiana Antonia Caprara, che, dopo alterne vicende, si conclude con il pentimento e la richiesta di perdono a Dio.
Tiziano Zanato, moderno editore del canzoniere, ha messo in rilievo come siano pochissimi nel Quattrocento i casi di raccolte liriche, pur modellate su Francesco Petrarca, che si concludono in chiave penitenziale, seguendo dunque alla lettera la parabola del Canzoniere. Le affinità con il precedente petrarchesco investono anche l’organizzazione dei singoli componimenti, tutti giocati sulle “connessioni intertestuali” (la definizione, riferita a Petrarca, è di Marco Santagata, 1947): ogni lirica instaura cioè una serie di rapporti tematici, retorici o – spesso – linguistici con quelle circonvicine e anche con i componimenti che ricoprono lo stesso numero d’ordine negli altri libri. La vicenda, ricca di riferimenti reali, copre poco più di due anni (inizio primavera 1469 – fine primavera 1471), mentre i tempi di stesura vanno sicuramente dilatati almeno fino al 1476 (sulla base della data apposta a conclusione di un codice che trasmette l’opera). La storia narrata, in sé piuttosto lineare, ripercorre alcune delle tappe canoniche delle vicende amorose: innamoramento, iniziale corresponsione da parte dell’amata, trionfo dell’amore, rifiuto da parte della donna e suo tradimento, disperazione e lamenti dell’innamorato, nuova benevolenza della donna; a conclusione, appunto, il pentimento. Le affinità con il Canzoniere, pur evidenti, lasciano spazio anche a profonde differenze: il contesto boiardesco non è infatti cortese, ma interamente cortigiano. Così i due giovani si incontrano a una festa nella residenza estense di Reggio, dove partecipano a un gioco galante; la donna rivela una certa disinvoltura e tradisce l’amante e molti sono i riferimenti alle piacevoli occupazioni della nobiltà estense.
Ortodosso rispetto al paradigma petrarchesco nelle scelte metriche e in particolare nelle rime, Boiardo si apre però a molti altri modelli: tra gli altri al già citato Dante, agli stilnovisti e al più recente Giusto de’ Conti, autore di una raccolta lirica, La bella mano, che ha diverse affinità con gli Amores; presenti anche gli auctores latini, tra cui in particolare Catullo, Lucrezio, Virgilio e Ovidio, del resto già ampiamenti utilizzati da Boiardo nella sua lirica latina.
Le opere “minori”
Le opere latine del Boiardo (Pastoralia, Carmina, Epigrammata) rientrano a pieno titolo nella vasta produzione umanistica della Ferrara di tardo Quattrocento e influenzano variamente la successiva generazione di poeti, tra cui Antonio Tebaldeo, Giovanni Pico della Mirandola ed Ercole Strozzi (1473-1508). Tra le opere rimasteci (abbiamo notizie indirette di altre composizioni perdute) i Pastoralia rappresentano senza dubbio il testo più complesso; composti tra il 1463 e l’anno successivo, rientrano nel fortunato genere bucolico, liberandolo però da tutti gli allegorismi che la tradizione medievale ha canonizzato. Ognuno dei dieci componimenti è composto da 100 versi, andando così a formare una struttura estremamente compatta che ricalca da vicino il modello virgiliano: tutte le egloghe boiardesche hanno infatti dei punti di contatto, tematici o stilistici, con le corrispondenti virgiliane (per esempio la prima celebra Ercole d’Este così come Virgilio aveva lodato Augusto). Vasta e variegata risulta poi la messe di autori classici e argentei che Boiardo prende a modello (in particolare Ovidio e Claudiano), al di là dello speciale debito verso gli Erotica latini dello zio Tito Vespasiano Strozzi.
Circa 20 anni dopo i Pastoralia, Boiardo si cimenta nell’egloga volgare con le Pastorali. Perfettamente inserite nella moda bucolica che in quegli anni imperava tra Firenze, Ferrara e la corte napoletana (basti pensare alla raccolta Bucoliche elegantissime stampata a Firenze nel 1482, alle prove estensi di Correggio e del Tebaldeo e alla composizione di poco successiva dell’Arcadia di Sannazaro), le Pastorali sono formate da dieci brani in terzine, composti, secondo il moderno editore (Stefano Carrai), in un breve lasso di tempo (fine 1483-1484) e da mettere in relazione con gli avvenimenti della guerra tra Ferrara e Venezia (1482-1484).
I Capitoli o Tarocchi sono una serie di terzine, corredate da due sonetti, che rappresentano l’illustrazione in versi di un mazzo di carte da gioco figurate (appunto i tarocchi). Le carte non presentavano l’abituale successione di semi, ma la raffigurazione di quattro passioni umane: Amore, Speranza, Gelosia, Timore. Ogni terzina doveva iniziare con il termine corrispondente alla serie (Amore ecc.) e contenere anche il numero della carta (fino a dieci) o il nome del personaggio che sostituiva le figure tradizionali (fante, cavallo, re e regina). Risulta evidente come, date tutte queste scelte obbligate, lo spazio per l’ispirazione lirica nelle terzine sia estremamente ridotto. Molto probabilmente l’opera deve essere attribuita agli anni di maggior frequentazione da parte di Boiardo della corte estense (1469-1478), assai interessata ai giochi di carte. Si tratta dunque di un componimento d’occasione e di intrattenimento, parte integrante di un gioco di società. La circostanza giustifica anche il fatto che non ci sia rimasto nessun testimone dell’opera coevo alla composizione (le terzine erano scritte sul mazzo, dunque andarono disperse e la loro prima stampa risale al 1523).
Composto in occasione delle nozze (1491) tra Alfonso d’Este (1476-1534) e Anna Sforza, il Timone è una commedia in endecasillabi che traspone in chiave teatrale un dialogo greco di Luciano di Samosata, autore molto amato da tutto l’umanesimo italiano. Al centro dell’azione vi è il rapporto problematico tra uomo e ricchezza: il protagonista Timone, impoveritosi per aver dissipato l’eredità paterna, ottenuta da Giove una rinnovata ricchezza, scaccia tutti i falsi amici e gli approfittatori e vive in povertà e solitudine. L’ottica boiardesca è cortese e condanna tanto il desiderio di ricchezza quanto la misantropia. Il modello lucianeo è seguito fedelmente fino al terzo atto per poi lasciare spazio a diverse innovazioni, tra cui la vicenda di Filocoro, rovesciamento ottimistico della cupa parabola di Timone.
L’ Inamoramento de Orlando
All’ambiente della corte e alla passione estense per la letteratura cavalleresca francese e franco-veneta è da ricondursi l’ispirazione dell’opera più famosa di Boiardo: il poema epico cavalleresco in ottave, dedicato alle imprese di Orlando, che solo recentemente ha riacquistato il suo titolo originario (Inamoramento de Orlando), dopo essere stato per secoli tramandato come Orlando Innamorato.
Secondo Antonia Tissoni Benvenuti, moderna editrice del testo, l’ideazione dell’opera e la composizione dell’intero primo libro risalgono all’ultimo quinquennio dell’età di Borso (1467-1471: anticipando così notevolmente la datazione tradizionale); il secondo libro occupa invece tutti gli anni Settanta fino ai primi Ottanta e giunge a compimento nel 1483, quando, probabilmente a Reggio, esce la princeps in due libri (di 29 e 31 canti). Negli anni successivi Boiardo attende alla conclusione del poema, mentre escono a Venezia due ristampe della prima redazione (1487 e 1491); il lavoro del poeta procede molto lentamente, interrotto di continuo dagli impegni connessi al suo ruolo politico. Il terzo libro si arresta al nono canto e termina con un’allusione alla discesa dei Francesi in Italia (““Mentre che io canto, o Dio redemptore / Vedo la Italia tutta a fiama e a foco / per questi Galli, che con gran valore / Vengon per disertar non sciò che loco / però vi lascio in questo vano amore / di Fiordespina ardente a poco a poco. / Un’altra fiata, se mi fia concesso / Raconterovi el tutto per espresso.””). Stampato nel 1495 prima a Venezia (solo il terzo libro), poi a Scandiano (l’opera completa), il poema di Boiardo subisce a partire dal XVI secolo una totale svalutazione a favore di Ludovico Ariosto (1474-1533) e, poco amato anche per la sua lingua padana, viene addirittura riscritto (la stampa è del 1542) sulla base di canoni classicistici dal fiorentino Francesco Berni.
L’Inamoramento ha lo straordinario merito di portare a compimento un processo già iniziato nei cantari dei secoli precedenti: la commistione, o, meglio, l’accostamento della tradizione carolingia e di quella arturiana, in un certo senso il connubio di epos e romanzo. Oltre al famosissimo incipit in cui Boiardo antepone nel suo giudizio la materia di Bretagna a quella carolingia (II, xviii, 1-3), nell’Inamoramento è presente un’altra dichiarazione di consapevolezza poetico-autoriale, che prende a prestito immagini e simbologie della lirica polizianea (III, v. 1-2: “Però diversamente il mio verziero / De amore e de battaglia ho già piantato; / piace la guerra alo animo più fiero, / Lo amore al cuor gentile e delicato”). Al centro della narrazione sono le imprese dei paladini di Carlo Magno, impegnati a salvare la cristianità dal pericolo degli infedeli, ma coinvolti contemporaneamente in un’infinita serie di avventure sentimentali che li portano a deviare continuamente il loro cammino. Al centro dei desideri di molti cavalieri e del protagonista stesso, Orlando, è Angelica, principessa del Cataio, creatura meravigliosa e sfuggente che getta scompiglio nel campo cristiano irrompendo sulla scena fin dal primo canto, durante una giostra di paladini a Parigi. La donna propone a nome del fratello Argalia una sfida a tutti i cavalieri: chiunque lo abbatterà avrà Angelica in premio, mentre i cavalieri da lui sconfitti saranno suoi prigionieri. Il piano dei due fratelli, che fidando in una lancia fatata intendono uccidere i più valorosi paladini cristiani, verrà vanificato da Ferraguto che riuscirà a uccidere Argalia.
Angelica a quel punto fugge e viene inseguita da svariati cavalieri cristiani che, affascinati dalla sua bellezza, lasciano sguarnito il campo di Carlo proprio mentre il pagano Gradasso lo assalta (per ottenere Durindana, la spada di Orlando, e Baiardo, il cavallo di Ranaldo); il giovane Astolfo riesce però a sconfiggere gli infedeli proprio grazie alla lancia fatata di Argalia. Con la fuga di Angelica incomincia una serie di peripezie tra Occidente e Oriente che vedono come protagonisti Orlando e Ranaldo. Quest’ultimo però, giunto nella foresta di Ardenna, beve alla fonte di Merlino che ha il potere di far disamorare e inizia a odiare Angelica, mentre la fanciulla, bevendo alla fontana dell’amore, si ritrova improvvisamente innamorata di Ranaldo da cui stava fuggendo e inizia a inseguire il cavaliere. Dopo infinite peripezie la maggior parte dei personaggi si ritrova ad Albracà dove è in corso una guerra tra Sacripante e Agricane per il possesso di Angelica. Le loro contese si mescolano a quelle dei cavalieri cristiani: alla fine Agricane sarà ucciso da Orlando. Nel frattempo (libro II) il re pagano Agramante assieme con Rodamonte, decide di invadere la Francia, ma un indovino rivela la necessità di avere l’aiuto di Rugiero, tenuto nascosto dal mago Atalante. Incominciano le peripezie per ritrovare Rugiero, mentre Rodamonte parte da solo per la Francia e mette in difficoltà i cristiani. Sopraggiungono poi tutti gli eserciti pagani, guidati da Agramante e Rugiero, ora liberato dalla tutela di Atalante grazie a un anello magico, rubato dal mago Brunello ad Angelica, che ha la proprietà di vanificare gli incantesimi.
A questo punto infuria la battaglia tra lo schieramento infedele e i paladini cristiani, tornati dall’Oriente insieme ad Angelica. Oltre che con i pagani, i cavalieri di Carlo lottano tra loro per il possesso di Angelica (tenuta prigioniera nell’accampamento di Carlo): in particolare Ranaldo, che nel frattempo ha bevuto alla fontana dell’amore – mentre la giovane ha attinto alla fontana opposta e ha ripreso a odiare il cavaliere – contende di nuovo a Orlando la conquista della donna. Su queste vicende belliche Boiardo chiude bruscamente l’opera, non senza avere almeno accennato (libro III) al nascente amore tra Rugiero e Bradamante, sorella di Ranaldo, destinati a divenire i capostipiti degli Estensi.
Molti dei personaggi che animano il poema sono recuperati dalla tradizione canterina, ma altri sono frutto dell’ispirazione boiardesca: di questi (tra cui Rodamonte e Rugiero) sicuramente il più innovativo è rappresentato da Angelica che incarna il desiderio di ogni uomo, la femminilità nelle sue componenti sfuggenti e fascinose. Caratteristica dominante della principessa del Cataio è la sua inafferrabilità: tutti la inseguono, ma nessuno riesce a conquistarla (occorrerà attendere il Furioso di Ariosto). L’avventura, lo straordinario, la magia – che riguarda le armi, gli oggetti, i luoghi, i mostri – costituiscono l’universo meraviglioso in cui i personaggi sono immersi.
Il lettore si perde negli infiniti meandri della narrazione che procede secondo una tecnica che prende il nome di entrelacement: le vicende procedono in parallelo, cosicché una singola avventura viene narrata non in un’unica tranche, ma inframmezzata a episodi che costituiscono l’inizio o la prosecuzione di altre storie. Ne risulta una struttura complessa, che costringe il lettore a seguire contemporaneamente più avventure.
La forma metrica del poema si riallaccia alla tradizione del genere adottando l’ottava toscana (schema metrico: ABABABCC), di cui sperimenta e sfrutta al meglio tutte le possibilità, dal massimo della frammentazione alla perfetta compattezza della strofe.
La lingua restituita al testo dalla recente edizione critica è profondamente eterodossa rispetto alla linea toscana poi canonizzatasi nella letteratura italiana: Boiardo usa un padano lontano dalle soluzioni petrarcheggianti degli Amorum libri, ricco di idiotismi e arcaismi, dotato di una potente carica espressiva. L’Inamoramento si configura dunque, anche da questo punto di vista (pur in assenza di autografi e delle principes), come uno dei più notevoli esiti della cultura linguistico-letteraria settentrionale.