di Giovanni Carbone
In anni di grande crescita economica per la Nigeria – il paese dovrebbe superare il Sudafrica e diventare nel 2014 la prima economia dell’Africa subsahariana per dimensioni – l’incognita maggiore resta l’instabilità politica interna. Non si tratta di una novità. L’instabilità ha caratterizzato il paese fin dall’indipendenza, manifestandosi in sei colpi di stato, in una violenta guerra civile negli
anni sessanta, in una conflittualità diffusa nella regione del Delta dalla metà degli anni novanta. L’espressione più recente di questa fragilità nasce all’inizio degli anni duemila nella città di Maiduguri, capitale dello stato federato del Borno, all’estremo nord est del paese. Boko Haram, il movimento fondamentalista islamico che ha sconvolto il nord della Nigeria e ha gradualmente colpito anche altre aree del paese, si rifà ad una radicata tradizione di riforma islamica nella quale l’imposizione della sharia dovrebbe essere strumento di giustizia sociale, soprattutto per gli strati più poveri della popolazione. Ma l’imposizione della legge islamica che il movimento richiede va ben oltre la versione, giudicata troppo ‘morbida’, adottata da una dozzina di stati del nord a partire dalla fine degli anni novanta. Boko Haram ne reclama infatti un’applicazione più dura e sistematica – senza distinzioni di credo, ad esempio – in conflitto con lo stato ‘secolare’ esplicitamente proclamato dall’articolo 10 della Costituzione della Nigeria (1999). I primi obiettivi delle violenze di Boko Haram, esplose a partire dal 2009, sono stati proprio le autorità e istituzioni nigeriane e perfino le élite musulmane tradizionali, che si sarebbero compromesse per la loro contiguità con lo stato nigeriano.
Lo stesso nome attribuito al movimento, non è chiaro se dai suoi membri o da osservatori esterni, rappresenta la sua presa di distanze dalla modernità di stampo occidentale. Il termine hausa boko sta per ‘libro’ o ‘alfabeto’, mentre l’arabo harem traducibile con ‘proibito’, ‘contro Dio’ o ‘peccato’, da cui un messaggio di contrapposizione netta all’istruzione moderna, e per estensione a tutto quello che è moderno o occidentale e per ciò stesso contrario ad un islam che resti ‘puro’. Al di là di questo messaggio generico, tuttavia, non è in realtà chiaro quanto si tratti di un movimento strutturato. Diversi osservatori dubitano dell’esistenza di un vero coordinamento centrale. Il governatore dello stato di Borno ebbe a definire Boko Haram «un marchio di franchising che chiunque può utilizzare». Ma questo non avrebbe impedito lo svilupparsi di legami con il terrorismo internazionale, da al-Qaida nel Maghreb islamico (AQIM) agli al-Shabaab somali.
Boko Haram arriva alle cronache internazionali nel 2009, quando, a seguito di un dissidio minore tra giovani aderenti e autorità locali, il suo leader Mohammed Yusuf – un imam conservatore ma non violento – guida una sollevazione popolare che coinvolge rapidamente quattro stati del nord (Borno, Bauchi, Kano e Yobe), provocando alcune centinaia di morti. Lo stesso Yusuf venne ucciso dalla polizia. Dagli obbiettivi locali (tipicamente istituzioni e luoghi antiislamici, come caserme, banche, scuole, bordelli, chiese cristiane) si è poi passati a quelli nazionali con le elezioni presidenziali del 2011, che, dopo le violenze preelettorali, registrarono oltre 800 morti a seguito della proclamazione della vittoria di Goodluck Jonathan, con l’acuto di un’autobomba esplosa al quartier generale dell’UN di Abuja. L’anno dopo, con città come Kano e Maiduguri piegate dalle violenze, il governo ha proclamato lo stato di emergenza per gli stati di Yobe, Borno, Plateau e Niger e ha dispiegato migliaia di militari. Nel 2013, gli USA hanno inserito Boko Haram (e Ansaru, una sua scheggia emersa più di recente) nella loro lista delle ‘organizzazioni terroristiche’.
Come in altri contesti subsahariani – dalla Somalia al Mali – il fondamentalismo islamico non è la semplice estensione a nuovi paesi di un’iniziativa e di un’agenda internazionale. Al contrario, per molti aspetti esso rappresenta solo un’ideologia che veicola recriminazioni, tensioni e interessi specificamente locali. In Nigeria, si tratta in particolare del disagio di parti delle popolazioni del nord che si sentono politicamente emarginate in un paese che, attraverso i militari, avevano lungamente governato (l’ascesa di Goodluck Jonathan, un ijaw cristiano della regione del Delta, ha di fatto rotto l’accordo informale per un’alternanza tra presidenti cristiani del sud e presidenti musulmani del nord) ed economicamente esclusi da una lunga fase di crescita economica i cui benefici si concentrano in maniera disproporzionale nelle aree del sud (nel 2004 la quota della popolazione in povertà toccava il 76-78% nel nord, contro il 59% del sud-ovest). I primi aderenti a Boko Haram, del resto, erano principalmente pescatori appartenenti all’etnia kanuri in sofferenza per la riduzione del bacino del lago Ciad su cui affaccia il Borno, uno stato già molto povero e mal governato.
Se la Nigeria, un paese straordinariamente complesso e difficile da governare, ha dimostrato di avere fonti diversissime e apparentemente inesauribili di instabilità e violenza, la parziale stabilizzazione del Delta del Niger, anche grazie all’amnistia del 2009, ha rivelato anche una certa capacità di gestione delle crisi. Riassorbire Boko Haram e ciò che esso rappresenta richiede che il presidente Jonathan riconquisti almeno in parte – da un punto di vista politico ma anche economico – il nord del paese.