Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La supremazia della famiglia Bentivoglio, affermatasi a Bologna fra il 1445 e il 1462 con Sante e dal 1462 al 1506 soprattutto con Giovanni II, non dà luogo se non nelle ultime battute a una vera e propria signoria. Il prestigio raggiunto a livello politico si esplica in campo artistico nell’azione congiunta di famiglie tra loro collegate, rispetto alle quali i Bentivoglio mantengono una posizione di primi inter pares, in grado di determinare, attraverso iniziative di grande spicco, il nuovo volto rinascimentale della città.
Nicolò dell’Arca e i ferraresi a Bologna
L’evoluzione in senso rinascimentale dell’arte bolognese si basa su premesse difficili da recuperare, a causa dei mutamenti in seguito intervenuti nella città. L’arrivo delle novità prospettiche fiorentine, giustificato in passato solo sulla base del passaggio, intorno al 1450, di Piero della Francesca, ricordato da Luca Pacioli (1445 ca.-1517 ca.) ma non testimoniato da alcuna sopravvivenza, ha trovato un punto di riferimento preciso nel reperimento di un affresco di Paolo Uccello in San Martino raffigurante l’Adorazione del Bambino (1437).
La presenza di questo pittore tuttavia, data la sua precocità, non determina esiti immediati in una situazione ancora attardata su premesse tardo-gotiche. È dunque da Padova, dove era stato attivo Donatello, che giungono a Bologna, come in altri centri dell’Italia padana, i primi e più vistosi segni di rinnovamento. Ne è interprete dapprima Marco Zoppo, la cui attività bolognese, lungi dal manifestare il rovello formale di altri allievi di Squarcione, si caratterizza per una spazialità e una luminosità che rinviano anche agli esempi di Piero della Francesca (Crocifisso, Bologna, Museo di San Giuseppe; Polittico, Bologna, Collegio di Spagna, 1461).
Determinante è poi l’apporto dello scultore pugliese Nicolò, detto Nicolò dell’Arca per la sua impresa più famosa. Forte delle esperienze compiute nell’Italia meridionale, nel Compianto sul Cristo morto di Santa Maria della Vita a Bologna (1463) egli si giova della terracotta, in origine policroma, per dar vita a un naturalismo che asseconda il virtuosismo mimetico e l’esasperata drammaticità richiesti da questo genere di gruppi, senza sottrarsi a cadenze eleganti e a una ricerca di nessi compositivi raffinati e complessi. Nel coperchio per l’arca marmorea che ospita il corpo di san Domenico nella basilica a lui dedicata (1469-1473), il risultato è più eletto e filtrato, a seguito di sollecitazioni toscane. Peculiare è il gioco illusionistico, suggerito dal materiale impiegato (qui il marmo), portato quasi a gareggiare con la cera nel candore e negli effetti di cedevolezza.
In campo pittorico una stessa intenzione illusionistica è manifestata dal ferrarese Francesco del Cossa, già a Bologna nel 1462 e poi di nuovo in città dopo aver subito un ingiusto trattamento da parte del duca Borso d’Este per i lavori nel Salone dei Mesi nel Palazzo di Schifanoia a Ferrara (1470-1471). Nel suo caso, la costruzione prospettica toscana dà luogo a una monumentalità in cui i personaggi si assestano con fierezza e ogni dettaglio acquista eccezionale risalto.
I risultati di del Cossa a Bologna, raggiunti anche attraverso il dialogo con Nicolò dell’Arca, sono tali da conferire alla città un grande prestigio in ambito padano, negli anni in cui la vicina Ferrara pare richiudersi su un’eleganza cifrata. Il polittico per la cappella di Floriano Griffoni nella basilica di San Petronio, realizzato già nel 1473, smontato nel Settecento e ora diviso tra numerosi musei (Londra, Milano, Washington, Parigi, Città del Vaticano ecc.), e la grande Pala dei Mercanti (1474) già nel Palazzo della Mercanzia e ora nella Pinacoteca Nazionale di Bologna costituiscono le testimonianze più importanti della sua attività.
Sono andati distrutti gli affreschi eseguiti nella cappella Garganelli in San Pietro, ultimati dopo la sua morte da Ercole de’Roberti, che lo aveva affiancato nel polittico Griffoni. La perdita di questa decorazione, che Michelangelo definirà “una mezza Roma di bontà”, ci priva della conoscenza di un’impresa di del Cossa che ebbe vasta risonanza: le fonti testimoniano della volontà illusionistica che il pittore aveva manifestato sulla volta, con gli Evangelisti scorciati, secondo una soluzione riecheggiata da Melozzo da Forlì a Loreto (1484-1493). Introducendo una spazialità più frantumata e avventurosa, Ercole de’ Roberti aveva raffigurato sulle pareti alcuni dei suoi pensieri più inquieti e drammatici (La crocifissione, La morte della Vergine). Il linguaggio sereno di del Cossa cedeva a un sentimento del vivere più instabile e problematico. Prima di tornare nella natia Ferrara, dove occuperà fino alla morte il ruolo di pittore di corte, Ercole de’ Roberti è attivo anche per Giovanni II Bentivoglio a Bologna. Di lui esegue alcuni ritratti (Washington, National Gallery; Bologna, Biblioteca Universitaria).
Il seguito della pittura bolognese appare condizionata dai diversi modelli di del Cossa e di de’ Roberti, declinati con ricchezza di varianti. La spazialità severa e il rustico sentire del primo sono alla base degli affreschi con le Storie del pane in una sala del castello bentivolesco di Ponte Poledrano, che, eseguiti da un artista anonimo intorno al 1480, restituiscono il tono severamente rustico della cultura figurativa locale, espressione di un’aristocrazia saldamente basata sulla proprietà terriera.
Francesco Francia
Al modello di Ercole de’ Roberti aderisce, nella prima parte della sua attività, il pittore ferrarese Lorenzo Costa, promotore di una svolta della cultura locale in senso cortigiano, in cui la sapienza letteraria delle invenzioni si coniuga con una sottile introspezione psicologica ed esigenze celebrative.
Lo testimonia la cappella Bentivoglio in San Giacomo, dove al Costa si affianca l’astro nascente di Francesco Francia: al primo spettano le tele laterali con la Famiglia di Giovanni II Bentivoglio genuflessa davanti al trono della Vergine e i due complessi Trionfi della Morte e della Fama (1488-90); al secondo la pala d’altare. Per una breve stagione Francia, che si firma talora “aurifex” (orefice), è il pittore in grado di restituire, con la luminosa spazialità delle sue composizioni e l’attenzione per i dettagli che gli derivano dai modelli fiorentini (Lorenzo di Credi) le ambizioni della corte bentivolesca.
Autore di elaborate pale d’altare e finissimo ritrattista, gli spetta una posizione di spicco nella decorazione dell’oratorio di Santa Cecilia annesso alla chiesa di San Giacomo. L’oratorio è stato affrescato tra il 1504 e il 1506 da numerosi artisti, tra i quali si distingue l’estro bizzarro di Amico Aspertini, pittore aggiornato sulle tendenze antiquarie della Roma di Alessandro VI Borgia.
Vasari nel 1568 sostiene che Francia era stato attivo anche nel grandioso palazzo eretto a Bologna dall’architetto toscano Pagno di Lapo Portigiani per volere di Giovanni II e distrutto dalla furia popolare nel 1506, emblema di una situazione culturale in rapida ascesa, bruscamente interrotta dall’integrazione di Bologna nello Stato della Chiesa.