Bombardamenti ‘a fin di bene’
All’inizio dell’anno in Tunisia la ‘rivoluzione del gelsomino’ ha innescato una serie di rivolte che hanno avuto ripercussioni politiche nel Maghreb e nel Mashriq e che hanno portato nella stessa Tunisia alla caduta di Ben Ali, in Egitto alla cacciata di Hosni Mubarak, in Siria a manifestazioni popolari contro il regime di Bashar al Assad, e in Libia alla sempre più accesa contestazione della leadership esercitata da Muhammar Gheddafi, al potere in quel paese da più di 40 anni.
In particolare, la guerra civile scoppiata in Libia tra le truppe regolari (appoggiate da mercenari) di Gheddafi e i ribelli ha destato l’attenzione della comunità internazionale. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con l’intento formale di proteggere i civili dagli attacchi del regime e di prevenire i suoi ‘crimini contro l’umanità’, il 17 marzo ha approvato la risoluzione 1973 (2011), che autorizzava, con 10 voti a favore e 5 astenuti (tra cui i membri permanenti Cina e Russia), la costituzione di una no-fly zone sui cieli libici. Con qualche incertezza sulla leadership delle operazioni, una coalizione formata per lo più da Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Italia ha deciso di dar seguito alla risoluzione bombardando il territorio libico, colpendo non soltanto gli obiettivi militari ma persino la residenza di Gheddafi. La scelta delle modalità attraverso le quali dar seguito alla risoluzione ONU ha fatto molto discutere poiché era piuttosto dubbio che la risoluzione legittimasse bombardamenti di tale intensità, mentre è del tutto da escludere, data la contrarietà al diritto internazionale, che essa autorizzasse a colpire direttamente Gheddafi, cosa che invece è avvenuta il 20 ottobre e che ha portato all’uccisione del Colonnello in circostanze ancora non chiarite.
La ‘questione libica’ ha fatto riemergere l’annosa diatriba della legittimità dell’‘intervento umanitario’, ovvero di una operazione militare da parte di una coalizione di paesi (col cappello dell’ONU e a guida NATO) che si ingeriscono negli affari interni di un altro Stato sovrano con lo scopo dichiarato di tutelare i diritti umani della popolazione di quello Stato.
Molti sono i nodi problematici che investono tale nozione su un piano strettamente giuridico: la Carta dell’ONU non assegna alla NATO alcun compito militare globale, ma prevede la creazione di un Comitato di Stato Maggiore alle dirette dipendenze del Consiglio di sicurezza e demanda a questo la guida di eventuali operazioni belliche; essa prevede l’intervento armato solo in caso di cross-border attack, ovvero soltanto quando uno Stato attacca un altro Stato sovrano, e subordina l’intervento armato all’esperimento di soluzioni alternative, dalla diplomazia all’embargo; inoltre prevede che uno Stato possa autonomamente esercitare l’uso della forza solo per autodifesa, e nell’attesa che il Consiglio di sicurezza si attivi per porre fine alle ostilità. Per non dire della Costituzione italiana, che non soltanto ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie (art. 11) ma afferma anche che le decisioni sulle operazioni belliche devono essere autorizzate dalle Camere (art. 78).
L’orizzonte entro il quale fu redatta la Carta ONU era ancora quello della sovranità statuale: in altri termini, si riteneva che la minaccia ai diritti e alla pace provenisse esclusivamente dagli scontri armati fra Stati.
La storia della seconda metà del Novecento e i primi anni del nuovo millennio, tuttavia, hanno messo in crisi questo assunto, poiché alcuni tra i più sanguinosi conflitti hanno avuto carattere intra-statuale piuttosto che inter-statuale.
Di fronte a questi eventi, la Carta ONU è per lo più silente e risulta obsoleta, poiché essa vieta che si possa intervenire (tanto meno militarmente) negli affari interni di uno Stato sovrano.
Una guerra civile che minacci l’incolumità dei civili è dunque, per la Carta, una questione di domestic jurisdiction. Se questo dato è corretto su un piano strettamente giuridico, esso tuttavia impone una riflessione sull’opportunità che l’intervento militare da parte della comunità internazionale sia confinato ai casi di guerra fra due Stati sovrani.
Pur riconoscendo la natura parziale e spesso ipocrita delle scelte della comunità internazionale in questo ambito, occorre comunque chiedersi se il dato normativo non necessiti di essere ridiscusso al fine di non lasciare che l’intervento in difesa dei diritti umani si svolga in assenza di una riflessione democratica e condivisa e rimanga in mano ai realisti politici che finora ne hanno fatto un uso assai discutibile.
Bosnia e Ruanda: un ricordo che pesa
Con ogni probabilità, la decisione di intervenire in Libia contro le forze fedeli al colonnello Gheddafi è stata influenzata dal ricordo dei precedenti bosniaco (1992-95) e ruandese (1994). In tali occasioni, infatti, il mancato o tardivo intervento di forze militari esterne ha reso possibile massacri di civili su larga scala, contribuendo a causare la morte di centinaia di migliaia di persone. Non a caso, uno dei principali sostenitori dell’intervento militare è stata Samantha Power, oggi assistente speciale del presidente statunitense Barack Obama e precedentemente inviata di guerra nei Balcani, nonché autrice di un importante studio sull’atteggiamento degli Stati Uniti di fronte ai genocidi del 20° secolo.
I ‘precedenti’ ottocenteschi
Di ‘intervento umanitario’ (humanitarian intervention, intervention d’humanité) si è parlato già ben prima degli anni Novanta del Novecento. Nel 19° secolo, operazioni militari ufficialmente volte a prevenire o impedire massacri di civili hanno infatti avuto luogo in più occasioni, sempre però sul territorio dell’impero ottomano e in difesa di popolazioni cristiane (mai, per esempio, a tutela di civili musulmani o ebrei, spesso vittime di attacchi nel corso delle insurrezioni che hanno dato vita alla maggior parte degli Stati balcanici tuttora esistenti). Già allora esse venivano definite azioni militari coercitive negli affari interni di uno Stato, che avvenivano senza il consenso di quest’ultimo e in risposta a manifeste e gravi violazioni dei più fondamentali diritti umani. Operazioni del genere vennero attuate in diverse occasioni: in Grecia nel 1827-29, a Creta nel 1866-68 e nel 1896-1900, e in Libano (in questo caso però con l’assenso del governo ottomano) nel 1860-61, senza però dare vita a una dottrina paragonabile all’odierna responsibility to protect o a un ‘dovere’ d’intervento umanitario. Si può inoltre rilevare come considerazioni ‘umanitarie’ furono utilizzate per giustificare azioni militari che in realtà avevano palesi e precisi obiettivi politici, come l’attacco dell’impero zarista a quello ottomano nel 1877, avvenuto col pretesto di proteggere i cristiani bulgari vittime di atrocità, ma in realtà volto a frantumare i domini europei del sultano nei Balcani, che San Pietroburgo sperava di portare sotto la propria influenza.
L’intervento militare in Libia
È stato osservato come l’intervento militare in Libia abbia avuto solide ragioni politiche oltre che umanitarie, in quanto la continuazione della dittatura di Gheddafi avrebbe messo a rischio anche le fragili democrazie egiziana e tunisina: un timore, questo, giustificato dal sostegno (finanziario e di intelligence) che il regime libico ha offerto in passato a quello tunisino, almeno secondo gli oppositori di quest’ultimo, e forse anche a quello di Mubarak. Tuttavia, le esitazioni della maggior parte degli Stati poi coinvolti nelle operazioni militari (a cominciare dall’Italia) lasciano presagire che, a causa delle sempre minori risorse destinate dai paesi europei (e forse in futuro anche dagli Stati Uniti) a scopi militari, e della scarsa volontà politica di concorrervi (un frutto, questo, degli insuccessi in Iraq e Afghanistan), quello in Libia possa essere stato uno degli ultimi interventi militari a scopo umanitario dei prossimi anni.
I libri
Samantha Power, Voci dall’inferno. L’America e l’era del genocidio, 2004
Davide Rodogno, Le Grandi Potenze e gli ‘interventi umanitari’ nell’impero ottomano: una riconsiderazione del caso greco, 1821-1829, in Marco Dogo (a cura di), Schegge d’impero, pezzi d’Europa: Balcani e Turchia fra continuità e mutamento, 1804-1923, 2006
Davide Rodogno, Réflexions liminaires à propos des interventions humanitaires des puissances européennes au XIXème siècle, in Relations Internationales, n. 131, 3, 2007
Brendan Simms, David J.B. Trim, Humanitarian Intervention: A History, 2011
Davide Rodogno, Against Massacre. Humanitarian Interventions in the Ottoman Empire, 1815-1914, 2011