BON COMPAGNI (Bon-Compagni, Boncompagni) di Mombello, Carlo
Nacque a Torino il 25 luglio 1804. Il padre, Ludovico, fu dal 1809 al 1814 procuratore generale per il dipartimento dell'Arno, a Firenze, e morì nel 1815 avvocato generale del re presso il Senato di Savoia. Dalla madre, Sara Pastoris, nata da un'inglese convertita al cattolicesimo, il B. fu educato a un cristianesimo aperto e tollerante. Iscrittosi nel 1820 alla facoltà di giurisprudenza della università torinese, maturò negli anni di studio le sue convinzioni politico-religiose: fedele alla Chiesa e al suo deposito di verità, definito nel "quod semper, quod ubique, quod ab omnibus traditum est", convinto dell'insostituibilità del cattolicesimo come fonte dell'etica individuale e sociale, assunse nello stesso tempo un atteggiamento vigorosamente polemico contro il "governo" ecclesiastico, non senza risentire l'influsso delle tendenze giurisdizionaliste, ancora allignanti negli ambienti accademici piemontesi. In occasione della scomunica papale contro la carboneria, dubbioso della legittimità del decreto, ricorse alla lettura del Van Espen, De censuris ecclesiasticis, che fu il punto d'avvio delle sue idee "sul governo della Chiesa e sulle sue relazioni con lo Stato": i suoi successivi orientamenti separatisti e liberal-cattolici si innestarono, senza soluzione di continuità, in così fatto substrato ideologico.
Laureatosi nel 1824, il B. entrò nella magistratura nel 1826: nel 1829 divenne sostituto avvocato dei poveri a Chambéry, donde seguì con interesse la rivoluzione del '30 in Francia, ma rifiutando sin da allora di aderire alla parte liberale "più spinta". Nel 1831 fu trasferito ad Aosta come assessore istruttore presso il tribunale, e nel 1832 a Pallanza come avvocato fiscale. Nel 1834 venne nominato sostituto dell'avvocato generale a Torino fino al 1843, quando fu nominato senatore, cioè giudice della Suprema corte del regno per le province piemontesi.
Amico di P. D. Pinelli, ebbe poi modo di conoscere intimamente C. Balbo, di cui condivideva largamente le opinioni liberali moderate, pur sentendo più di lui l'urgenza di una trasformazione in senso costituzionale della monarchia sabauda, e di una politica più aggressiva nei riguardi delle prerogative e dei privilegi della Chiesa. Nel 1837, nominato membro della Commissione di statistica incaricata di preparare il censimento, vi conobbe C. Cavour, con cui subito simpatizzò. Balbo e Cavour furono gli uomini che, a detta dello stesso B., più contribuirono alla sua formazione politica.
In questo periodo il B. prese a collaborare a taluni periodici: nell'Annotatorepiemontese pubblicò una serie di impegnate recensioni, in cui ebbe modo, tra l'altro, di esprimere le proprie concezioni sul progresso, largamente tributarie delle tesi del Romagnosi, polemizzando ad un tempo contro le idee religiose e sociali di Rousseau e dei sansimoniani. Tra il 1836 e il 1846 nella rivista eclettica Il Subalpino, negli Annali di giurisprudenza, nell'Antologiaitaliana di F. Predari, pubblicò scritti di argomento giuridico o di filosofia del diritto. Ma un rilievo assai maggiore erano venuti assumendo la sua attività pedagogica e i suoi scritti sull'educazione popolare, che lo assorbirono per più di un decennio e di cui lasciò larga traccia in alcuni dei periodici ricordati e nei più noti giornali educativi del tempo, come le Letture di famiglia di L. Valerio, le Letture popolari, l'Educatore primario, ecc.
Nel 1838 il B. fu tra i principali promotori della supplica con cui i più noti esponenti della classe politica liberale piemontese chiesero a Carlo Alberto di dar vita alla Società per la fondazione degli asili d'infanzia. Alla presidenza della Società venne chiamato, quasi di diritto, il B. stesso.
Egli giungeva a quella carica con un ricco bagaglio di conoscenze teorico-sperimentali, che gli provenivano tra l'altro dalla sua dimestichezza con le più note figure d'educatori, come l'abate Girard, conosciuto di persona durante un viaggio a Friburgo nel 1836, come l'Aporti, ospite costante del B. in occasione dei suoi soggiorni torinesi, o come il Lambruschini. La larga consuetudine del B. con la ternatica educativa più dibattuta in ambito italiano ed europeo gli suggerì anche la prima opera di maggior impegno, Delle scuole infantili (Torino 1839), che affrontava due temi principali: la creazione di asili, aportianamente intesi come scuole infantili dai due ai sei anni, e la preparazione dei maestri. Le idee erano quelle aportiane e lambruschiniane, ma lo sguardo del B. si spingeva in molti casi oltre le Alpi, sia per attingere a fonti straniere del pensiero educativo (V. Cousin, E. Hamilton, la Necker-Saussure), sia per segnalare libri di testo francesi, inglesi, tedeschi che potessero rimediare alla scoraggiante carenza di buoni testi italiani (tra cui il B. mostrava di tenere in gran conto solo il Giannetto di A. Parravicini). Ma il problema che s'affacciava a ogni pagina del saggio del B. era la finalizzazione dell'istruzione infantile al miglioramento della società, sì che gli asili diventavano, in questa prospettiva, l'occasione per il passaggio dalla mera e tradizionale carità alla filantropia, e partecipavano a pieno diritto del riformismo liberale e moderato dell'epoca, teso al miglioramento delle condizioni delle plebi, mediante l'iniziativa generosa delle classi superiori. L'opera del B. finiva quindi per acquistare anche un suo significato politico, sia per l'ideologia sociale che le stava sottesa, sia perché il problema della scuola era, oggettivamente, uno dei principali punti di confronto e di coagulo della nuova classe dirigente, e una delle migliori occasioni per l'abbattimento delle numerose barriere che ancora isolavano culturalmente il mondo piemontese.
In stretto parallelismo con la maturazione del suo pensiero pedagogico, il B. venne altresì precisando, nel clima del Piemonte prequarantottesco, i principî etico-giuridici del proprio credo costituzionale. Con l'intenzione di corrispondere alla nomina a socio effettivo della R. Accadetnia delle Scienze di Torino, scrisse l'Introduzionealla scienza del dirittoad uso degli Italiani: il trattato non poté uscire in Piemonte a causa della sospettosissima censura, e fu invece edito a Lugano all'inizio del 1848, dopo che alla sua pubblicazione si era interessato anche il Gioberti, con cui il B. era entrato in rapporti epistolari all'apparire del Gesuita moderno. Dall'Introduzione alla scienza del diritto, il B. trasse pressoché integralmente il saggio Della monarchiarappresentativa, edito a Torino nel marzo 1848, quasi insieme alla promulgazione dello statuto, per il quale il B., con Santarosa, Cavour e gli altri noti liberali, si era attivamente adoperato presso Carlo Alberto.
Come il B. stesso riconobbe, le sue due opere costituzionali mancarono in gran parte allo scopo, per essere state superate dai fatti. Il B. vi si faceva teorizzatore di un costituzionalismo moderato, teso esclusivamente a garantire i diritti naturali; individuava nel cristianesimo e nel progresso civile le due scaturigini dei successivi "temperamenti" dei governi assoluti e le vere origini delle monarchie costituzionali; indicava nella religione, nella scienza e nella libera opinione le tre grandi forze della moderna civiltà e il fondamento dei diritti che gli ordini rappresentativi erano chiamati a sanzionare; abbozzava una concezione "incompetentista" in fatto di rapporti tra Stato e Chiesa, pur dichiarando la religione garante della sociale concordia e insostituibile moderatrice negli animi; badava a distinguere l'uguaglianza civile, riassunta nella libertà d'Opinione, dall'uguaglianza politica, ritenendo irrealizzabile l'idea di concedere a tutti i cittadini pari "influenza nella cosa pubblica col voto".
Era intanto iniziata la sua carriera politica e amministrativa. Alla fine del 1847 C. Alfieri, chiamato alla nuova Segreteria di stato per l'istruzione pubblica, aveva nominato il B. primo ufficiale, ossia segretario generale del ministero. Al formarsi del primo gabinetto costituzionale del Balbo, il 13 marzo 1848, al B. fu affidato il ministero della Pubblica Istruzione; fu quindi eletto deputato nel collegio di Crescentino. Nel governo Alfieri di Sostegno (poi Perrone)-Pinelli (29 agosto-16 dic. 1848), il B. riebbe il portafoglio dell'Istruzione. In tale qualità presentò al Parlamento e poi, il 4 ott. 1848, alla firma del re, due provvedimenti legislativi di gran spicco: si trattava di un riordinamento dell'amministrazione della pubblica istruzione e della legge istitutiva dei convitti nazionali di educazione.
La legge organica, colpendo non pochi degli innumerevoli privilegi ecclesiastici nel campo dell'istruzione, tendeva a ristrutturare tutta l'amministrazione delle scuole primarie, delle scuole secondarie e dell'università mediante l'istituzione di una serie di consigli, e obbedendo a un'ispirazione relativamente "autonomistica". La direzione dell'istruzione pubblica era avocata al ministero, cui veniva però affiancato un consiglio superiore, con compiti consultivi e, in certi casi anche deliberativi. Peraltro nella legge del B. non mancavano i difetti: in specie non si faceva cenno né alla obbligatorietà, né alla gratuità della scuola elementare; questa continuava a gravare interamente sui comuni, dalle finanze solitamente già esauste; insufficienti risultavano i provvedimenti per la preparazione dei maestri. La legge sui convitti nazionali intendeva esperimentare un corso speciale per i giovani che non intendessero seguire gli studi classici: in pratica era un primo avvio alle scuole tecniche, sorte di lì a poco. Le due leggi del B. costituirono la prima orditura della futura legge Casati.
Fu un altro provvedimento del B. nel campo dell'istruzione, un regolamento disciplinare universitario tendente a limitare la libertà d'associazione degli studenti, e bocciato alla Camera dopo aspra discussione, il 4 ott. 1848, a provocare la successiva caduta del ministero. Del cui operato il B. si sarebbe poi fatto difensore (Il Risorgimento, 9 marzo 1852) contro le accuse giobertiane di grettezza "municipalista".
Dopo Novara, il B. fu inviato a Milano con il generale Dabormida (cui si aggiunse poi il conte di Pralormo), come plenipotenziario piemontese per le trattative che portarono alla pace di Milano, del 6 ag. 1849. Di esse il B. stese un'ampia Relazione ("libro verde"), stampata e distribuita in occasione della discussione parlamentare per la ratifica del trattato. Il B. vi illustrava l'andamento delle difficili trattative, dimostrando come il regno sardo non avesse mai accettato di mettere in discussione la propria sovranità, né di sottoscrivere clausole che potessero pregiudicare il suo sviluppo economico-politico; vi esprimeva inoltre la ferma convinzione che, nonostante gli insuccessi del 1848-49, nel Piemonte sarebbero per sempre rimasti "i fondamenti dell'Italia indipendente e liberale", purché ci si opponesse da un lato ai nostalgici dell'assolutismo, dall'altro alla "fazione" rivoluzionaria e repubblicana.
Nel 1851 il B. pubblicò a Torino il suo ultimo scritto di rilievo dedicato ai problemi della scuola, Saggi di lezioni per l'infanzia. Dedicato ai maestri di scuola, rappresentava una ripresa, ma anche una parziale revisione critica della problematica affrontata in precedenza. L'educazione popolare non vi appariva più il solido strumento di una più generale opera di promozione politica e civile: il rapporto risultava, per così dire, invertito, nella misura in cui la stessa diffusione dell'istruzione veniva presentata dal B. come il prodotto inevitabile dello sviluppo della civiltà. Ne derivava una certa tendenza a svalutare le reali passibilità dello Stato in fatto di istruzione pubblica.
Il B. ritornò alla politica attiva nel secondo gabinetto d'Azeglio, dal 21 maggio al 4 nov. 1852, come ministro di Grazia e Giustizia (reggendo ad interim anche il ministero dell'Istruzione): presentò al Parlamento il progetto di legge per l'istituzione del matrimonio civile, che difese alla Camera il 28 giugno 1852, ma che fu respinto dal Senato. Fu guardasigilli anche nel gabinetto Cavour, dal 4 nov. 1852 al 27 ott. 1853. Eletto presidente della Camera il 16 nov. 1853, tenne quella carica sino al 16 giugno 1856.
Risale a quest'epoca il primo intervento pubblico del B. sulla politica estera cavouriana: nello scritto La politica piemontese,la questione italianae l'Europa (in Riv. contemporanea, IV [1856], 7, pp. I-XXXIX), il B. spezzava una lancia a favore di un definitivo avvicinamento della Francia e dell'Inghilterra alla causa italiana, denunciava il rischio di sottovalutare la persistente forza dell'Austria nella penisola, e abbozzava i termini di un possibile accordo con il papato, fondato sulla "libera azione del Pontificato cattolico nelle cose spirituali e [sulla] sua indipendenza da ogni potere umano". A livello teorico il B. aveva già affrontato quello stesso anno il problema dei rapporti tra l'idea di libertà, propria della sfera politica e civile e frutto del progresso filosofico, e l'idea di autorità, attinente all'essenza stessa della religione. Da questo punto di vista, il suo saggio Sulle dottrine religiose dellafilosofia moderna, (Rivista contemporanea, IV [1856], 6, pp. 319-367) costituì la giustificazione di principio dei successivi atteggiamenti politici del B.; ponendosi sulle orme della scuola francese (Jouffroy, ecc.), della scuola scozzese, del Galluppi e, in parte, del Rosmini, il B. sosteneva l'opportunità che il pensiero contemporaneo, senza rinunciare al principio del "libero esame", riconoscesse apertamente i limiti intrinseci all'attività razionale, perseguendo di conseguenza un indirizzo conciliativo "della fede e della ragione, della religione e della filosofia, dell'autorità e della libertà, del principato e degli ordini popolari".
Alla fine del 1856 il B. fu nominato dal Cavour ministro plenipotenziario piemontese presso le corti di Toscana, Modena e Parma e all'inizio del 1857 si stabilì a Firenze.
Come risulta dalle istruzioni ricevute dal Cavour (N. Bianchi, Storia documentata…, VIII, pp. 77 ss.) il compito del B. era quello di sollecitare, per quanto possibile apertamente, un'evoluzione in senso nazionale e costituzionale del governo toscano, e insieme quello di contrastare i tentativi della S. Sede di ottenere, dopo il già favorevole concordato del 1851, nuove concessioni in campo ecclesiastico, che implicassero la totale rinuncia alle riforme giurisdizionali del secolo precedente.
I dispacci del B., del biennio 1857-58, lo mostrano appunto specificamente impegnato nelle questioni di politica ecclesiastica. Fu tra l'altro incaricato di abboccarsi con Pio IX durante la visita di questo nelle Romagne, e gli venne affidata all'uopo una lettera di Vittorio Emanuele al pontefice: l'incontro avvenne il 12 giugno 1857 a Bologna e servì solo a dimostrare l'inesistente propensione di Pio IX a una trattativa con il Piemonte in quelle circostanze. Nondimeno il B. insistette con Cavour perché non si chiudesse la via a futuri possibili accordi con la S. Sede, proseguendo in una politica ecclesiastica destinata inevitabilmente a spiacere alla Chiesa, e tale da creare gravi problemi di coscienza al re e da sottrarre agli ordini costituzionali l'appoggio politico e morale della parte dell'opinione pubblica cattolica, ma liberale. Nell'impossibilità in cui, a suo giudizio, si trovava il governo sardo di accedere a un concordato accettabile con Roma, nell'impossibilità di spingere all'estreme conseguenze il separatismo, o di combattere l'opinione clericale con il rigore delle leggi, il B. suggeriva al Cavour di mantenere lo status quo in ambito ecclesiastico, facendo al più qualche gesto di pacificazione religiosa, come poteva essere la nomina dei vescovi nelle numerose sedi vacanti. Avanzando tali pareri in due memorie al Cavour del 1857, pubblicate da C. Pischedda, il B. si proponeva altresì di combattere l'influenza, da lui giudicata funesta, del Rattazzi sul ministero: di fatto, le sue memorie contribuirono a rafforzare il Cavour nella convinzione che fosse tempo, dopo le disgraziate elezioni del '57, che avevano visto la vittoria del clericali, di mutar la propria tattica, se non la propria strategia politica. Altre importanti relazioni il B. inviò al governo sardo sul progetto di lega doganale tra Parma, Modena, Toscana e Austria e sulla questione della successione al ducato di Modena.
Quanto alla situazione toscana, l'appoggio fornito dal B. ai gruppi costituzionali e il suo intervento personale in difesa della stampa di tendenza liberale, rappresentata dallo Spettatore di C. Bianchi e poi dalla Biblioteca civile dell'Italiano di Ridolfi, Ricasoli, ecc., attirarono ben presto al plenipotenziario piemontese l'accusa di slealtà verso il governo presso il quale era accreditato, accusa avvalorata dallo stesso ministro inglese a Firenze, lord Normanby, accanito antipiemontese, con un suo articolo sul Morning Post. In realtà i documenti testimoniano che il B. condusse la sua missione diplomatica con grande scrupolo, tanto da entrare in parziale disaccordo con lo stesso Cavour nel febbraio del 1859, quando gli parve che il primo ministro pretendesse dal suo plenipotenziario un'azione troppo spregiudicata e tale da provocare una crescente agitazione politica (vedi la lettera del Cavour al B., dell'8 febbr. 1859, in Chiala, III, p. 23). Il disaccordo tra i due sul modo di procedere fu composto grazie a un viaggio del B. a Torino dal 23 febbraio al 9 marzo. In seguito il B. si mostrò sempre più convinto dell'inevitabilità di una azione rivoluzionaria che costringesse il governo lorenese o a "trasformarsi o ad andarsene", e fu convinto esecutore degli ordini di Cavour, che voleva porre il granduca di fronte all'alternativa tra un'alleanza offensiva e difensiva con il Piemonte o l'abbandono del potere. Al momento della rivoluzione toscana del 27 aprile e della fuga del granduca, il B. si adoperò per garantire l'incolumità dei Lorena e l'ordinata instaurazione di un governo costituzionale. Vittorio Emanuele, assumendo il protettorato della Toscana, conferì al B. la carica di regio commissario straordinario per la guerra d'indipendenza. Questi presiedette perciò a tutta l'attività del governo provvisorio, dapprima opponendosi, in nome dell'autonomia del governo toscano, al perseguimento di una rapida politica di annessione da parte del Piemonte, ma in breve tempo diventando anche troppo convinto assertore della soluzione annessionistica. Questa volta toccò al Cavour, che aveva da fare i conti con Napoleone III, tenere un po' a freno gli ardori annessionistici del B., pur sollecitandolo a favorire le manifestazioni pubbliche della volontà unitaria dell'opinione toscana, anche per contrastare la scomoda presenza delle truppe di Girolamo Napoleone. Quest'ultimo si scontrò a più riprese con il commissario sardo, che accusò di inettitudine presso il Cavour, chiedendone, invano, l'esautoramento.
Dopo Villafranca il B. si batté per accreditate sia presso il governo toscano sia presso il pubblico piemontese l'opinione che le clausole dell'armistizio, non essendo in alcun modo definitive, rappresentassero tutt'al più un "pactum de contrahendo", com'egli si espresse, e non potessero in nessun caso contraddire ai fini per i quali era stata stipulata l'alleanza franco-piemontese. Tale tesi il B. sostenne a Torino (dov'era ritornato ai primi di agosto, cessati i poteri straordinari che gli erano stati conferiti), facendosi forte della precisa volontà unitaria e costituzionale espressa dall'assemblea toscana il 16 ag. 1859, e dalle altre assemblee dell'Italia centrale.
Le posizioni politiche assunte dal B. in questo periodo risultano sia da alcuni Appunti sulla questione toscana (Torino, Museo del Risorg., Arch. B., n. 77) sia da una brochure,Considerazioni sull'Italia centrale, pubblicata a Torino nel 1859. Negli appunti, evidentemente riservati, il B. pronunciava giudizi oltremodo severi su Napoleone III, e invitava il proprio governo a operare in piena autonomia. Nella brochure individuava nelle assemblee dell'Italia centrale l'espressione genuina dei voti popolari a pro' dell'unificazione, e confutava l'interpretazione "rivoluzionaria" di quelle assemblee. Il B. era così indotto ad affrontare il problema dei territori ex pontifici e della stessa sopravvivenza dello Stato della Chiesa: indicando nelle pretese della Curia romana una pericolosa confusione tra le leggi a cui "ogni cattolico si riconosce in debito di ubbidire", e i precetti del diritto canonico, il quale "non appartiene alla sostanza dei cattolicesimo", il B. prospettava una trasformazione della sovranità pontificia che le permettesse di liberarsi dalle preoccupazioni militari e diplomatiche, non fosse in conflitto con le aspirazioni popolari, e si imperniasse sulla concessione di ampie libertà amministrative ai territori soggetti, preludio di una pacifica e graduale loro assimilazione nel costituendo regno d'Italia.
Chiamato a partecipare alle delibere del ministero Rattazzi sulla reggenza offerta dalle assemblee dell'Italia centrale al principe di Carignano, il B. appoggiò la soluzione prospettata da Cavour, che tendeva a evitare una formale accettazione, senza rinunciare a un diretto controllo piemontese su quelle regioni attraverso una persona di fiducia, dotata di poteri ufficiali. Ma la nomina dello stesso B. a vicereggente incontrò la vigorosa opposizione del governo toscano presieduto dal Ricasoli, convinto che tale soluzione avrebbe suscitato il "sospetto dell'influenza piemontese": soltanto il 3 dic. 1859 il B. poté finalmente assumere la nuova carica di governatore generale delle province collegate dell'Italia centrale, insediandosi di nuovo a Firenze, ma sostanzialmente privo di qualsiasi potere. Alla vigilia del plebiscito del 20 marzo 1860 il B. si dimise.
Ritornato a Torino, prese ancora le difese della politica di Cavour, pubblicando l'articolo Il Regno italiano e Napoli, datato 21 luglio 1860 (Riv. contemporanea, VIII [1860], n. 22, pp. 175-198), in cui sosteneva che anche per i territori del vacillante Regno delle Due Sicilie l'unica garanzia contro la rivoluzione non poteva che essere la politica dell'unità.
Fu eletto alla Camera nella successiva tornata elettorale con un programma moderato, favorevole a un rapido processo di unificazione legislativa, amministrativa e finanziaria che completasse le annessioni con un'opera di vera e propria "assimilazione", ma nello stesso tempo prevedesse la concessione di larghe autonomie comunali e provinciali (L'Unità d'Italia e leelezioni, Torino 1861). Ma i suoi maggiori contributi al dibattito politico-parlamentare del periodo postunitario riguardarono incontestabilmente il campo che gli era più congeniale, quello dei rapporti tra Stato e Chiesa.
Fu il B. a presentare il 26 marzo alla Camera, illustrandolo con un impegnativo discorso sulla questione romana, l'ordine del giorno su Roma capitale, ch'era stato concertato con Cavour e con cui si concluse la discussione parlamentare suscitata dall'interpellanza Audinot. Il B. ritornò poco dopo sull'argomento con il saggio Sulla potenza temporale del papa (Torino) dell'agosto 1861, e con un nuovo discorso alla Camera, il 5 dic. 1861, in appoggio al progetto di trattative sulla questione romana avanzato dal governo Ricasoli: e ancora, parlando il 15 e 16 giugno 1863 a favore di contatti con la Francia per la soluzione della questione romana, e il 9 nov. 1864 sulla convenzione di settembre. Alla politica ecclesiastica italiana il B. dedicò in quello stesso torno di tempo un saggio Della soppressione dei sodalizireligiosi (pubblicato a Torino nel 1864 in appendice a una traduzione di uno scritto di J. Stuart Mill di analogo argomento), un nuovo discorso alla Camera sul progetto Vacca-Sella relativo alla conversione dell'asse ecclesiastica, pronunciato il 22-23 apr. 1865, infine due lettere al direttore dell'Opinione del 5 e del 21 luglio 1865 sulle trattative con la S. Sede. Nel 1866 il B. raccolse nel volume La Chiesa e lo Stato in Italia. Studi (Firenze), tutti questi scritti e discorsi, a eccezione del saggio Sulla potenzatemporale, di cui pubblicò solo l'epilogo, rielaborato e molto ampliato (La sovranità del papa e la libertà della Chiesa. Cenni storici), e aggiungendo, invece, un discorso pronunziato per l'inaugurazione di un monumento a P. Rossi e un inedito sulle Trattative col papa.
In accordo con le principali fonti del suo più maturo pensiero politico-ecclesiastico (Balbo, Rossi, Cavour), che avevano contribuito a temperare in lui certe propensioni all'"ingerenza dello Stato nelle cose della Chiesa", assorbite dagli studi universitari e poi dalle "tradizioni del foro e della magistratura", il B. presentava tutta la propria opera come la ricerca di una terza via tra due contrapposte "teologie", quella del diritto canonico, favorevole al perpetuarsi di un regime di privilegio ecclesiastico, e quella dell'onnipotenza dello Stato. Questa seconda "teologia", non meno pericolosa della prima, appariva agli occhi del B. come il prodotto sostanzialmente negativo della Rivoluzione francese, da lui accusata d'aver gettato nuovi germi di dispotismo, specialmente in campo ecclesiastico. Ciò aveva contribuito a impedire che la Chiesa, adeguatasi in passato a ogni tipo di regime politico, "s'improntasse" alle forme costituzionali moderne. La missione storica di "amicare" la Chiesa alla libertà sarebbe invece toccata alla nuova Italia, chiamata per un lato a eliminare la principale cagione di antitesi tra il cattolicesimo e la società moderna, cioè la sovranità temporale del pontefice, e, per l'altro lato, a realizzare un regime propriamente liberale, tendente a salvaguardare, nel loro ambito, "l'indipendenza della provincia, del comune, della Chiesa, della scuola, delle private associazioni". Da qui l'intransigenza di principio che contraddistingue le tesi del B. sul potere temporale; accompagnata tuttavia da una predominante aspirazione, o, per meglio dire, da una fede conciliatorista, che si esprimeva sia nel rimandare a una scadenza lontana e imprecisata la effettiva realizzazione del voto su Roma capitale (vista come suggello di un accordo con il papato rappacificato con la moderna civiltà), sia nella delineazione di una politica ecclesiastica ispirata a un'interpretazione benigna e amichevole del principio separatista. Contro i difensori del potere temporale e contro i teorizzatori di un diritto di intervento dello Stato, magari a scopi riformistici, nella vita della Chiesa, il B. faceva dunque valere tesi prettamente separatiste; le cui applicazioni risultavano però alquanto problematiche, proprio in quanto esse non escludevano, ma se mai implicavano una precisa aspirazione del B. alla riforma della Chiesa. Ciò risulta in particolare dai suoi scritti e discorsi sull'asse ecclesiastico. Ponendosi sulle orme del Constant, del Tocqueville e del Cavour, il B. riconosceva alla Chiesa il pieno diritto alla libera proprietà, e si opponeva al principio della confisca o dell'incameramento dei suoi beni da parte dello Stato; ma ammetteva nel contempo un diritto di riordinamento, di trasformazione del patrimonio ecclesiastico da parte del governo. Ciò in nome dell'ufficio proprio del governo civile di dar riconoscimento e convalida alle fondazioni e di "provvedere agli interessi perpetui della società", ma non in nome del principio prettamente giurisdizionalista dell'assunzione da parte dell'autorità statale dei diritti originali del laicato in ambito ecclesiastico. In proposito il B. faceva suo l'auspicio del Rosmini che la Chiesa si riordinasse "restituendo alle plebi cristiane quei diritti che la potestà regia aveva attribuito a se stessa", e proponeva a tal fine che il governo, anziché assumere in proprio la regolamentazione di interessi religiosi, si adoperasse per costituire parrocchie e diocesi in sodalizi, ordinati in modo che il laicato avesse voce "nelle questioni di temporalità", per gli atti eccedenti l'ordinaria amministrazione. In pratica il B., con lo sguardo alla legge piemontese sui conventi, del 1855, assumeva sulla questione dell'asse ecclesiastico una posizione intermedia, quanto dottrinalmente incerta; distingueva tre categorie di beni: sui beni delle congregazioni religiose consentiva che l'autorità del governo potesse "largheggiare alquanto"; per le mense vescovili, i benefici semplici e quelli delle chiese collegiate, ammetteva la conversione in rendita pubblica, purché non risultasse modificata la destinazione originaria di quei beni: giudicava invece dannoso ogni intervento dello Stato sui beni delle parrocchie.
La costante aspirazione del B. alla moderazione in politica ecclesiastica, cui non era certo estraneo un calcolo conservatore, contribuisce a spiegare la sua avversione al primo ministero Rattazzi, da lui accusato d'aver tradito i principi e i metodi della politica cavouriana, ma combattuto anche per altre due ragioni: per aver aggiogato la politica estera italiana al carro napoleonico, senza tener conto delle divergenze tra il regime francese, fondato sulla "dittatura dernocratica", e il sistema liberale italiano; e in secondo luogo per aver ridato vigore al municipalismo piemontese (Il Ministero Rattazzi ed il Parlamento, Milano 1862; La rinunciadel Ministero Rattazzied il Parlamento, Torino 1862). In certo senso, furono proprio i suoi attacchi alla fazione piemontesista a segnare il declino politico del B.; egli si attirò l'inimicizia dei futuri membri della Permanente che l'accusarono di aver tenuto a battesimo il governo Minghetti-Peruzzi, ma non acquistò di fatto alcuna posizione di potere tra gli antipiemontesisti. In più occasioni il B. difese l'operato del ministero Minghetti, compresa la firma della convenzione di settembre, benché egli fosse inizialmente contrario al trasferimento della capitale: in un discorso alla Camera del 9 nov. 1864 interpretò la convenzione come una pura e semplice applicazione del principio del non intervento, e come premessa decisiva all'attuazione di una politica correttamente separatista e conciliatorista. Per questo, nel 1865, ebbe a denunciare l'occasione perduta per concludere proficui accordi con il pontefice sul problema delle sedi vescovili vacanti, tramite la missione Vegezzi, e consentì con il Lanza nel deprecare che il governo italiano si fosse impuntato su questioni formali, come il giuramento di fedeltà dei vescovi al nuovo Stato.
Tuttavia contro il temporalismo e l'assolutismo pontifici scrisse un'opera duramente polemica, Il Concilio secondo la "Civiltà Cattolica", che non fu mai pubblicata a causa dell'inopinata conclusione del Vaticano I, ma di cui sono conservate le bozze di stampa.
Lo scritto del B. intendeva confutare le tesi della rivista dei gesuiti in ordine al Concilio ecumenico, espresse nell'auspicio che si pervenisse alla proclamazione del dogma dell'assunzione corporea di Maria Vergine al cielo, si definissero in forma affermativa "e col necessario svolgimento" le condanne negative del Sillabo e si proclamasse il dogma dell'infallibilità pontificia. Ma il discorso dei B. si allargava rapidamente alla considerazione polemica delle motivazioni e dello spirito che informavano quelle richieste, frutto, a suo avviso, di una tipica distorsione medievalistica e teocratica dell'idea stessa di Chiesa, concepita come una pura "clerocrazia", e caratterizzata sul piano ecclesiologico da una visione dell'autorità del pontefice di tipo "assolutistico" anziché "ministeriale" e, sul piano politico-ecclesiastico, dalla teoria di una sua patestà, diretta o indiretta, nei riguardi dell'autorità civile. Prodotti classici di una siffatta concezione, tributaria più delle teorie bellarminiane che non dei testi biblici e patristici, erano stati l'enciclica Quanta cura e il Sillabo, su cui veniva ad appuntarsi l'attenzione del B., in opposizione alle stesse interpretazioni limitative che ne erano state date, per esempio da mons. Dupanloup. Non si tratta, secondo il B., di tentare arrischiate esegesi, ma di affermare apertamente, in nome del "pensiero italiano cattolico e liberale", che il Sillabo "è scritto in lingua morta, non già perché sia dettato in latino, ma perché quel complesso di dottrine che esso mette innanzi, non può trovare ascolto presso gli uomini di questa età"; si tratta di proclamare, contro ogni sottile distinzione tra tesi e ipotesi, che libertà di culto o di stampa sono conquiste inalienabili della civiltà moderna. Da qui la convinzione del B. che fosse ormai impellente per la Chiesa, in concomitanza con il processo di "emancipazione civile e intellettuale del laicato", cercare per se stessa una configurazione e delle definizioni dottrinali totalmente diverse da quelle mutuate dai regimi politici, cioè da quelle istituzioni "a cui Cristo non volle assomigliarla quando la stabilì".
Chiamato nell'ottobre del 1870 a far parte della commissione incaricata di formulare il progetto di legge sulle guarentigie pontificie, il B. si batté coerentemente per darle un'ispirazione conciliativa, rispettosa della sovranità spirituale del pontefice (intervento alla Camera del 25 genn. 1871). Il 25 apr. 1872 egli prese nuovamente la parola in Parlamento contro il progetto di abolizione delle facoltà teologiche nelle università: il progetto ministeriale gli appariva come un errore politico e sociale, in quanto tendeva a eliminare uno strumento importantissimo per la formazione di un clero dotato di moderna cultura e in grado di adempiere la sua missione non soltanto religiosa, ma più largamente civile.
Nell'agosto-dicembre 1871 e nel febbraio 1872 apparvero sull'Opinione alcune sue "lettere a G. Dina" dedicate ai rapporti tra Francia e Italia, poi raccolte in volume insieme con altre due "lettere" pubbl. nella Nuova Antologia dell'aprile-maggio 1872 (Francia e Italia, Torino 1873): le fece seguire da un saggio su La Francia dopo il 24maggio 1873 (Torino 1875), il cui primo capitolo già era apparso nel vol. XXV della Nuova Antologia (febbr. 1874). Si trattava in sostanza, per un lato, di un richiamo alla classe politica italiana perché non si lasciasse troppo prendere da tentazioni filoprussiane, dimenticando l'alleanza "naturale" dell'Italia con le potenze occidentali e la Francia in particolare; per l'altro lato, di un'analisi della situazione interna francese, nel tentativo di prevedere i riflessi che la Terza Repubblica e i suoi sommovimenti interni potevano avere nel concerto internazionale. Nonostante le proprie simpatie monarchico-costituzionali, il B. giungeva a concludere che la Repubblica francese prometteva di evolvere in senso, finalmente, liberale, a preferenza di una monarchia "che non si potrebbe ottenere senza una restaurazione regia o imperiale, che sarebbe pur sempre illiberale": anche ai fini dell'auspicato rafforzamento dei rapporti franco-italiani, il B. giudicava pregiudizievole l'affermarsi nella vicina Repubblica dei gruppi "pseudo-conservatori", cioè reazionari e legittimisti.Nominato senatore nel 1874, il B. ebbe a prendere la parola contro il disegno di legge Mancini sugli abusi dei ministri del Culto e contro il disegno di legge Nicotera sulla ineleggibilità dei membri della Camera alta; il 14 genn. 1880 pronunciò il suo ultimo discorso contro il progetto di abolizione della tassa sul macinato.
Aggregato alla facoltà di lettere e filosofia dell'università di Torino, vi aveva tenuto nel 1867 un corso libero di diritto costituzionale, dedicando l'introduzione all'esame delle fonti della tradizione liberale piemontese, dall'Alfieri al Botta. Un corso di diritto costituzionale tenne successivamente a Roma, nel 1873-74, per ritornare l'anno dopo, come docente effettivo della materia, all'università torinese. Nel 1878 fu eletto vicepresidente della Società subalpina di storia patria. Per decreto reale (4 apr. 1880) gli fu concesso di usare il titolo materno di conte di Lamporo e, in mancanza di prole maschile, di trasmetterlo alla figlia Ester e ai suoi discendenti.
Il B. morì a Torino il 14 dic. 1880.
Tra le sue ultime opere storiche è degna di ricordo Della vita edelle opere del conte F. Sclopis, in Atti della R. Accad. d. scienzedi Torino, XIV (187 8-79), pp. 1009-52. Un elenco abbastanza completo degli scritti del B. si trova in A. Manno, L'opera cinquantenaria della R. Deput. di storia patria diTorino, Torino 1884, pp. 188-92.
Fonti e Bibl.: Torino, Museo del Risorg., Archivio Boncompagni, nn. 1-215 (comprende copie di molti documenti e lettere del B., tra cui le Note biografiche da lui stesso compilate negli ultimi mesi di vita, rimaste interrotte al 1861, e di cui si è già parzialmente servito L. Amedeo di Lamporo, Della vita edelle opere di Carlo B. di Mombello, Milano 1882); Arch. di Stato di Torino, Legazione di Toscana (1826-59), mazzo 19, fasc. 29 bis; Ibid., Lettere Ministri. Toscana, mazzi 35 (1856-57) e 36 (1858-59); Ibid., Carte Cavour. Legazione di Firenze; Bologna, Bibl. Com. dell'Archiginnasio, Fondo Minghetti, cart. nn. 2, 4, 124, 138, 139, 141, 142, 143, 144, 145, 146, 147, 153, 154; Roma, Museo Centr. del Risorg., buste CXXXIV, n. 4; CXLIV, nn. 3 e 11; CLVIII, n. 46; 382, n. 16; 54s, n. 58; 561, n. 45; 810, n. 18. Per alcune delle carte del B. conservate a Roma nell'Arch. stor. del Minist. Affari Esteri, cfr. Minist. Affari Esteri, Indici dell'Arch. stor., I, Le scritture della segreteria diStato degli AffariEsteri del R.di Sardegna, a cura di R. Moscati, Roma 1947, pp. 66 s., 74 s.; Lettere edite ed inedite di C. Cavour, a cura di L. Chiala, I-VI, Torino 1884-87, passim; B. Ricasoli, Lettere edocumenti, a cura di M. Tabarrini e A. Gotti, Firenze 1887-96, ad Indices; Nuove lettere ineditedel conte di Cavour, a cura di E. Mayor, Torino 1895, pp. 34 s., 490, 505, 507, 511, 513, 523, 527, 531, 538, 547; L. C. Farini, Epistolario, a cura di L. Rava, III, Bologna 1914, p. 509; IV, ibid. 1935, passim; T. Fava, Un dissenso La Marmora-B.in due lettere inedite(novembre 1862), in Rassegna stor. del Risorg., II (1915), pp. 668-88; L. C. Bollea, Una silloge di lettere del Risorg. (1839-73), in Il Risorg. ital., IX (1916), pp. 138, 153, 164-67, 171-73, 206 s., 209, 237 s., 437, 458; V. Gioberti, Ultima replica ai Municipali, a cura di G. Balsamo Crivelli, Torino 1917, passim; G. 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