CAVALIERI, Bonaventura
Nacque a Milano negli ultimi anni del sec. XVI, da famiglia nobile ma non ricca. Suo padre, Bonaventura, era figlio di Lorenzo, a sua volta figlio di Ambrogio, decurione nel Consiglio generale di Milano nel 1470, e di Elisabetta Dugnani.
Incerta è la data di nascita che, posta da alcuni intorno al 1598, sarebbe da anticipare di qualche anno secondo il Favaro, il più autorevole biografo del C.; incerto è pure il nome di battesimo, poiché prese quello paterno entrando giovanissimo nell’Ordine dei gesuati.
Nel 1615 il C. conseguì gli ordini minori. Si sa che studiava con passione le lettere antiche e che si procurava una vasta cultura, con l’aiuto della sua eccezionale memoria, ma già fin d’allora l’attirava lo studio della matematica, per cui si può dire che fu veramente un autodidatta. Per un paio d’anni lesse teologia nel monastero milanese di S. Gerolamo, dove la sua intelligenza fu notata dal cardinale Federico Borromeo. Questi nel 1621 lo ordinò diacono, ma la sua dimestichezza col C. risaliva a parecchi anni prima, se già nel 1617 lo raccomandava al Galilei come una sicura promessa per la scienza. In quello stesso anno fu mandato a Pisa nel convento di S. Girolamo, dove conobbe Benedetto Castelli, che rimase assai sorpreso dalla eccezionale predisposizione del giovane per gli studi matematici; lo consigliò quindi di mettersi a studiare la geometria, cosa che il C. fece, giungendo in pochissimo tempo ad una sicura padronanza delle opere dei matematici antichi. Il Castelli allora lo presentò a Galileo, che lo ebbe subito in alta stima e prese a benvolerlo, aiutandolo nelle difficoltà dello studio.
Più di tutti lo seguiva però il Castelli, che gli fu maestro sui principi della matematica e che prese a farsi sostituire da lui quando altre incombenze lo allontanavano dallo Studio pisano, dove insegnava dal 1613, avviandolo in tal modo all’insegnamento. Fin dal 1619 la massima aspirazione del C. era la cattedra di matematica a Bologna, resasi vacante per la morte di G. A. Magini e rifiutata da Galileo e da Keplero, ma fu considerato troppo giovane e poco noto, e quindi non accettato.
Pur continuando a supplire il Castelli, il C. fu a Firenze per più d’un anno, occupato a impartire lezioni private a diversi nobiluomini; nel 1620 fu richiamato dall’Ordine a Milano, dove riprese i suoi studi matematici, per quanto osteggiato dai superiori, che avrebbero preferito fare di lui un predicatore o un lettore di teologia. È comprensibile quindi la sua scontentezza e la sua richiesta a Galileo d’un aiuto per trovare un impiego o un modo per poterlo comunque raggiungere.
Risalgono già a quel periodo le sue prime intuizioni sulla geometria degli indivisibili, che comunicava a Galileo per lettera. Il suo epistolario con Galileo, improntato a grande cordialità e stima reciproca, oltre a problemi di carattere scientifico, tocca anche, come si vede, argomenti personali, consigli pratici, doni di libri ecc., ed è essenziale per la conoscenza dello svolgimento dei suoi studi (restano 112 lettere del C. e solo due di Galileo). All’inizio del 1622 mise per iscritto le sue prime e provvisorie osservazioni sull’argomento e le mandò a Galileo e al Castelli per un giudizio. Lo scritto dovette parere assai interessante a Galileo, che pensò perfino di richiamare presso di sé il giovane per associarlo alle sue ricerche sul moto.
Intanto il C. veniva mandato dai superiori a Lodi, dove si trattenne dal 1623 al 1625 continuando i suoi studi sugli indivisibili. Sempre nell’intento di ottenere la cattedra bolognese, si dedicò a lavori di carattere astronomico, più graditi in quella città, sollecitò l’appoggio del Castelli e si recò anche a Bologna, senza che la sua candidatura facesse sostanziali passi avanti. Dopo una breve permanenza a Firenze presso Galileo, nella cui casa conobbe l’Aggiunti e il Guiducci, si diresse a Roma. Nel 1626, saputo che il Castelli lasciava la cattedra pisana perché richiamato a Roma dal papa Urbano VIII, fece di tutto per ottenerla, ma al suo posto, nonostante l’autorevole intervento di Galileo, fu chiamato l’Aggiunti. Pareva proprio che non riuscisse ad avere un incarico adatto alle sue capacità, nonostante fossero già assai avanzate le sue speculazioni sugli indivisibili, su cui continuava a tener aggiornato Galileo, e la fama che si era già acquistato anche a Roma, sia per le sue capacità sia per le lusinghiere presentazioni del Castelli e del Ciampoli; per non dire di Galileo, che lo raccomandò al cardinale Ippolito Aldobrandini, camerlengo della Curia.
Anche a Roma la sorte gli fu avversa: sfumata ben presto la speranza di ottenere la lettura di matematica alla Sapienza, che il Castelli teneva malvolentieri e che gli avrebbe agevolmente ceduto, il C. se ne andò a Parma, ancora nel 1626, a esercitare l’ufficio di priore nel monastero di S. Benedetto. Colpito da una lunga e fastidiosa infermità agli arti inferiori – che lo perseguiterà per tutta la vita – fu a Milano in convalescenza, ma tornò presto a Parma; il monastero gli offrì la calma necessaria per portare avanti i suoi studi e per stendere la sua opera maggiore, la Geometria, compiuta solo nel 1632. Continuavano intanto i suoi tenaci tentativi per ottenere la cattedra a Bologna, dove, oltre a quella primaria già tenuta dal Magini, si era fatta vacante anche la cattedra secondaria per la morte del Cataldi (1626), non sostituito da alcuno fino al 1628. Dopo il fallimento di un ennesimo tentativo altrove, precisamente a Parma, dove lo Studio era tenuto saldamente in mano dai gesuiti, il C. pregò di nuovo Galileo di sostenere la sua candidatura presso i cardinali Aldobrandini e Ludovisi, mise di mezzo il Marsili, dell’Accademia dei Lincei, e insomma tanto fece che alla fine ottenne la sospirata cattedra il 25 ag. 1629, e parve che solo allora si fossero accorti di lui, perché gli fu affidata non la secondaria, ma la cattedra primaria, e con un ottimo stipendio, almeno se si pensa che allora i frati erano pagati assai poco.
Non poco aveva contribuito a una mora così lunga nel riconoscere il valore del C. il fatto che a Bologna la matematica era considerata assai poco rispetto all’astronomia, e in questo campo il C. non aveva fatto granché; ma Galileo stesso promise di sollecitare il suo protetto in quello studio che da lui si aspettavano.
Il C. riuscì a mantenere la cattedra, come risulta dai Rotuli bolognesi, fino alla morte, ma ciò gli costò, come si vedrà, non poca fatica. Iniziò comunque il periodo più fecondo e felice della sua vita, i diciotto anni in cui uscirono tutte le sue maggiori opere.
A leggere i Rotuli, il suo insegnamento pomeridiano all’università comprendeva Euclide, la teorica dei pianeti, l’astronomia di Tolomeo; ma è noto che, di là dall’argomento di base imposto all’inizio dell’anno (il corso di matematica si svolgeva appunto in tre anni), il docente era libero di svolgere gli argomenti che credeva. Il C. in effetti adoperò questa libertà per esporre la teoria copernicana, soltanto come ipotesi, s’intende, per discutere della posizione della Terra nell’universo, per rendere pubbliche le scoperte di Galileo, per tenere al corrente gli allievi degli ultimi progressi dell’astronomia. Anche il suo insegnamento matematico, sui logaritmi e sulla trigonometria, seguiva i progressi dei suoi studi, mentre nulla si sa dell’insegnamento privato, che pure – è certo – iniziò dal 1629. Accortosi prima d’ogni altro dell’importanza dei logaritmi, da poco sviluppati dal Napier e dal Briggs, volle farne delle tavole che sapeva assai richieste, dato che introvabile era l’opera del Briggs. Lavorava intanto all’opera sugli specchi sferici, ma non poté pubblicarla per il momento, a causa della chiusura dello Studio per l’infierire della peste in tutta Italia e a causa di certi attacchi di gotta che riprendevano a tormentarlo.
Poiché era stato assunto allo Studio per un triennio di prova, per ottenere la riconferma della cattedra il C. dovette compiacere i desideri dei dotti di Bologna, stampando le sue tavole logaritmiche col titolo Directorium generale Uranometricum (Bononiae 1632), dedicate al Senato bolognese e accolte con notevole soddisfazione e favore.
L’opera è divisa in tre parti, dedicate rispettivamente ai logaritmi, alla trigonometria piana e a quella sferica, argomenti ripresi poi nel Compendio. Oltre alle notevoli innovazioni nella terminologia, sono importanti in essa le dimostrazioni delle regole del Napier sul triangolo sferico e del teorema sulla quadratura di ogni triangolo sferico che, attribuito al Girard, fu rivendicato al C. dal Lagrange.
Ora anche da Roma tenevano d’occhio il giovane studioso, per una sua eventuale chiamata alla cattedra di matematica della Sapienza, che il Castelli, a causa delle sue troppe incombenze, era costretto a trascurare. Ma, una volta ottenuta la riconferma dell’incarico a Bologna, il C. non badò ad altro che ad approfondire le sue intuizioni e a proseguire i suoi studi. Stampò allora lo Specchio Ustorio overo trattato delle settioni coniche... (Bologna 1632 e 1650), sulle proprietà degli specchi parabolici, iperbolici ed ellittici, che erano stati trascurati dal suo predecessore G. A. Magini nella sua opera sugli specchi sferici.
La parte teorica comprende i primi 21 capitoli; negli altri, dove sono le applicazioni, si trovano le cose più nuove e originali. Assai interessante anche la forma espressiva, che indica quanto il C., anche sotto questo aspetto, avesse appreso la lezione galileiana. In realtà Galileo si risentì molto, in un primo momento, per alcune proposizioni relative al moto dei proiettili cui egli era giunto dopo lunghi studi e di cui gli pareva di vedersi togliere il frutto. Il C. si affrettò a scusarsi col maestro, affermando d’averlo offeso involontariamente, dato che si trattava di conclusioni da lungo tempo divulgate, e dichiarandosi pronto a qualsiasi riparazione. L’animo generoso di Galileo seppe comprendere l’involontario plagio, e i due tornarono ben presto all’antica amicizia e a un regolare scambio epistolare. Il sincero rincrescimento del C. per il dispiacere causato al maestro, in un momento per lui così difficile, in seguito al sequestro del Dialogo (che tra l’altro il C. aveva letto con entusiasmo e lodato sopra ogni altra opera), è testimoniato dal fatto che successivamente, ogni volta che nelle sue opere s’imbatterà in qualche proposizione già toccata da Galileo, farà a lui esplicito riferimento.
L’opera a cui da tempo il C. si dedicava fu compiuta nel 1632 e stampata tre anni dopo: Geometria indivisibilibus continuorum nova quadam ratione promota (Bononiae 1635).
Dedicata a monsignor Giovanni Ciampoli, è divisa in sei libri, cui se ne aggiunse in seguito un settimo dove le stesse conclusioni sono dimostrate brevemente con metodo diverso, per coloro cui gli indivisibili fossero stati particolarmente ostici. Nei primi due libri, a carattere introduttivo, il C. tratta l’intersezione di coni e cilindri, di triangoli e parallelogrammi; il terzo è dedicato ai cerchi, alle ellissi e ai solidi generati dalla loro rotazione; il quarto sviluppa la parabola e i solidi relativi; il quinto l’iperbole; il sesto la spirale d’Archimede. In quest’opera la linea, la superficie e il solido sono considerati come generati dal punto, dalla linea e dalla superficie continuamente fluenti, impostazione che suggerì a Newton l’idea del calcolo delle flussioni. Stabilendo poi che un continuo è composto d’un numero infinito d’indivisibili, anticipò la teorica leibniziana del calcolo infinitesimale. È un lavoro geniale ma piuttosto oscuro, data la difficoltà di dare forma concreta a così alti concetti; esempio di tale genialità è l’applicazione degli indivisibili alla spirale di Archimede, e notevolissimo è il contributo portato alla geometria delle coniche. Ma l’accoglienza a tanta novità fu assai fredda, se si eccettua la cerchia galileiana, benché anche in essa il Castelli, per esempio, affermasse di non capirne molto. Alte lodi ebbe invece per questo scritto il Torricelli, seguito da pochi altri (Viviani, Rocca e, più tardi, De Angeli, Nardi e diversi matematici francesi, tra cui Beaugrand, Niceron, Bouillaud, Mersenne, inglesi e olandesi come Wallis e Schooten). Lo stesso Galileo sollevò alcune obiezioni su punti particolari, ma non si pronunciò sull’opera complessiva adducendo la mancanza di tempo e la poca salute; pure i problemi da quella suscitati non furono di secondaria importanza nei suoi studi, anche se non giunse al punto da distogliere l’allievo da tali ricerche per potersi appropriare delle conclusioni da questo raggiunte, come ha affermato il Caverni (V, p. 88).
Nel 1636 il C. fu ad Arcetri per qualche settimana, formalmente per recarsi ai bagni terapeutici, in realtà per essere vicino a Galileo e discutere con lui delle definizioni di Euclide, della sua Geometria e forse anche dei logaritmi. Pubblicato il suo libro, avrebbe voluto continuare su quella strada, ma allo Studio bolognese non si capiva molto l’utilità delle sue ricerche, e avrebbero preferito che il C. compilasse le effemeridi degli anni successivi come faceva il Magini, o s’occupasse d’astronomia. Di fronte a quest’incomprensione, a cui si aggiungevano la salute malferma (oltre alla gotta, che continuava a tormentarlo, aveva perso l’uso di un occhio e a poco a poco si avvicinava alla cecità) e certe beghe all’interno dell’Ordine dei gesuati, le possibilità di procedere alacremente erano limitate; cosicché Galileo pensò di proporlo per la cattedra lasciata libera dall’Aggiunti allo Studio di Pisa. Il C. non accettò per le pressioni compiute su di lui dallo Studio bolognese, pur pentendosi ben presto di non aver accettato la proposta gelileiana e di non poter stare presso di lui. Ma non sapeva staccarsi ormai da Bologna; rifiutò infatti anche l’invito del cardinal Borromeo a trasferirsi a Milano come dottore alla Biblioteca Ambrosiana. Quel po’ di agi che il suo lavoro gli procurava e la salute, che mal tollerava spostamenti, lo trattennero a Bologna fino alla morte; le liti continue con altri frati del suo Ordine che si ribellavano a lui o volevano appropriarsi dei suoi guadagni finirono quando egli fu eletto priore a titolo onorario del convento di S. Maria della Mascarella a Bologna.
Non passò molto tempo che si trovò, suo malgrado, coinvolto in una disputa col gesuita e matematico P. Guldin, che l’accusò di essersi appropriato di certe proposizioni di Keplero e di aver contraddetto senza fondamento alcune affermazioni di Galileo. Anche in questa polemica egli si comportò con molta lealtà. Scrisse un dialogo a propria difesa, ma desistette dalla pubblicazione per non iniziare una serie di botte e risposte, preferendo affidare la propria difesa alla Trigonometria plana et sphaerica linearis et logaritmica (Bononiae 1643) e alla terza delle Exercitationes geometricae sex (ibid. 1647).
La prima opera è un opuscolo composto per gli studenti, a carattere manualistico, ma consultato con profitto anche da grandi matematici, come il Cassini, perché riassume vari problemi già affrontati in diverse opere minori. La seconda è un’appendice alla Geometria, perché estende il metodo degli indivisibili a una gran quantità di applicazioni, ma giunge anche a intuizioni decisamente originali, come nella quarta Exercitatio, in cui, parlando della quadratura delle parabole e della cubatura dei solidi di rotazione da esse generati, il C. si avvicina molto alla formula di calcolo integrale; o nella quinta, dove applica gli indivisibili alla determinazione dei baricentri dei corpi a densità variabile; oppure nella sesta, che descrive una pompa idraulica assai semplice da lui costruita per il suo convento. Insomma un’opera assai stimolante, che lascia supporre che, se la morte non avesse interrotto i suoi studi, forse la scoperta del calcolo integrale spetterebbe a lui solo.
Riguardo ancora a Guldin, è interessante notare che il C. riuscì, per mezzo degli indivisibili, da quello tanto disprezzati, a dimostrare un teorema che il geometra svizzero aveva ideato senza riuscire a darne una dimostrazione convincente, provando così praticamente le applicazioni della sua geometria. Tali applicazioni, estese anche alla meccanica, alla fisica, all’astronomia, sono il fine di una serie di opere legate fra loro, che, secondo lo stesso C., dovevano esser lette simultaneamente: Compendio delle regole dei triangoli colle loro dimostrazioni (Bologna 1638); Centuria di vari problemi per dimostrare l’uso e la facilità dei logaritmi nella Gnomonica, Astronomia, Geografia ecc. (ibid. 1639); Nuova pratica astrologica di fare le direttioni secondo la via rationale (ibid. 1639), cui fu aggiunta un’Appendice (ibid. 1640). Infatti queste opere furono riunite in un unico volume, cui il C. aggiunse delle Annotazioni all’opera (ibid. 1639), per correggere gli errori, anche tipografici, presenti in essa.
I problemi del Compendio e della Centuria sono spesso ripresi in altre opere, ma sono da ricordare, come assai nuovi e originali, alcuni problemi della Centuria sulla definizione di superficie cilindrica, sulla misura delle botti ellittico-circolari, sulla cubatura dello spazio chiuso da una volta a croce, sulla differenza in longitudine di due luoghi della Terra (per cui si fa esplicito rimando a Galileo) ecc.
Ricevuti in dono dal Galilei i Discorsi intorno alle due nuove scienze, il C. ne fu entusiasta e rispose al maestro scusandosi di non poter ricambiare che con l’invio della Nuova pratica astrologica, ritenuta troppo piena di calcoli e priva di speculazioni per il gusto di Galileo. Quando già stava per scadere il contratto per la lettura allo Studio bolognese, pubblicò con lo pseudonimo di Silvio Filomanzio il Trattato della Ruota planetaria perpetua e dell’uso di quella (Bologna 1646).
Discordi sono i giudizi contemporanei su quest’opera: il C. fu accusato di avallare i pregiudizi dell’astronomia giudiziaria, ma in realtà egli si occupa solo di argomenti astronomici, geografici e cronologici, anche se si serve di una terminologia astrologica. Il fine che persegue è lo stesso della Pratica e dell’Appendice, ma è raggiunto per una via diversa, perché i calcoli sono sostituiti da grafici e da figure. Probabilmente l’edizione fu interpolata da altri, dato che altrove il C. si mostrò avversario dell’astrologia giudiziaria; comunque a essa egli si era accinto di malavoglia, solo per accontentare i procuratori dello Studio di Bologna, dove l’astronomia e l’astrologia erano assai più apprezzate della matematica.
Ottenuto in questo modo il rinnovo della “condotta” per altri dodici anni, non poté goderla che per poco: l’infermità agli arti inferiori che da lungo tempo lo travagliava si aggravò al punto da impedirgli di camminare, ma continuò ad insegnare recandosi all’università in carrozza. Morì a Bologna, ancora nel pieno della sua maturità intellettuale, il 27 dic. 1647; fu sepolto nella chiesa di S. Maria di Mascarella.
Vita assai povera di avvenimenti fu quella del C., trascorsa tra il monastero e la scuola, pur tra i riconoscimenti per la sua opera e gli onori che gli furono tributati dal Senato di Bologna, dal cardinale Borromeo, dal papa Urbano VIII, da Ferdinando II di Toscana, da Galileo e dalla sua cerchia, dal Viviani al Renieri, dal Castelli al Torricelli, cui restò legato anche dopo la morte del maestro. A sua volta lasciò un’impronta profonda nel gruppo dei suoi allievi, dal Mengoli al De Angelis, dal Ricci al Torricelli al Daviso. Quest’ultimo pubblicò alcuni suoi manoscritti, insieme ad una sua biografia, col titolo Trattato della sfera e prattiche per uso di essa (Roma 1682), aggiungendovi però parecchio di proprio. Vi si trovano molte cose sulla “dottrina sferica”, già pubblicate in altre opere del C., ma altre osservazioni, sulla circolazione delle acque o su vari fenomeni atmosferici, presentano un notevole interesse quanto meno storico.
Nel ricco epistolario del C. (oltre che con Galileo era in corrispondenza col Castelli, il Marsili, il Mersenne, il Torricelli, il Rocca, ecc.) sono numerose le lettere scientifiche, come quella di idraulica al Castelli, in risposta a un’altra di questo su un fenomeno osservato. In essa il C. riconduce quel fenomeno al teorema per cui la portata di un fiume è proporzionale al quadrato dell’altezza riuscendo a stupire il maestro, esperto in questa materia, cui egli ora insegnava qualcosa. Interessante è anche la lettera di ottica diretta a Galileo, sugli specchi ustori degli antichi, che il C. riconduce a specchi parabolici (e vorrebbe costruirne uno per dimostrarlo), oppure le lettere al Rocca, veri trattati scientifici con calcoli e figure. Molti riferimenti indiretti ci lasciano capire che egli aveva in mente molti altri studi, sia in campo astronomico sia matematico, interrotti dalla morte prematura. Anche lo stile espressivo è parte non secondaria dell’opera del C., com’è caratteristica di tutta la scuola galileiana; in latino ma soprattutto in italiano seppe esprimersi con chiarezza e originalità, con un piglio personale, tanto che il Monti lo giudicò “accurato ed esatto” e lamentava che non si attingesse a lui e al Castelli per arricchire di termini scientifici il vocabolario italiano. Tra i risultati scientifici che provano la sua instancabile attività vanno ricordati la determinazione, come legge generale, delle distanze focali nelle lenti; l’invenzione del telescopio a riflessione e di quella macchina, da lui denominata “vaso idracontisterio”, che permetteva di tramutare il moto circolare in rettilineo.
Ma certo il maggior merito del C. consiste nel sistema della geometria degli indivisibili. Di questa scoperta non si fece mai vanto eccessivo, pur comprendendone appieno il valore, se è vero che nel 1642, sentendosi ormai sopraffatto dal dolore fisico, indicava il Torricelli – in una lettera al Rocca – come più pratico di lui degli indivisibili, ritenendo più adatto per quello l’epiteto d’Archimede del suo tempo, datogli da Galileo. Di là dalle insinuazioni o dalle ipotesi proposte da varie parti, è bene ricordare che, benché pure Galileo si fosse interessato agli indivisibili non ne condivideva il fondamento: che un infinito possa essere maggiore di un altro. Nonostante le sollecitazioni del C., Galileo non approfondì tali studi e non pubblicò nulla su ciò, ma se l’avesse fatto la via che avrebbe percorso sarebbe stata diversa; infatti affermò che gli pareva appena “probabile” il principio, fondamentale nella geometria del C., secondo cui i rapporti delle figure sono i medesimi che i rapporti delle somme di tutte le linee o delle somme di tutti i piani. Tali intuizioni superavano i limiti che alla geometria erano stati imposti da Archimede e da Apollonio, aprendo la via alla soluzione d’infiniti problemi, lasciati irrisolti dagli antichi, riducibili a integrazioni di funzioni razionali intere. I concetti di continuità (questo legato allo studio galileiano del movimento per mezzo della geometria), di infinitesimo e di limite furono la base degli studi geometrici del Torricelli e soprattutto del calcolo differenziale di Leibniz. Insieme alla diffusione, in Italia e fuori, della teoria e della pratica dei logaritmi e delle loro applicazioni alla trigonometria, è questa la maggior gloria scientifica del C., perché aprì un nuovo capitolo nella storia della geometria e rese possibili nuove fondamentali scoperte.
Fonti e Bibl.: M. Mersenne, Cogitata physico-mathematica, Parisii 1644, p. 93; G. Ghilini, Teatro degli uomini illustri, I, Venetia 1647, p. 34; G. Galilei Opere (edizione nazionale), passim (vedi Indice, XXI, pp. 119-22); G. Arrighi, Undici lettere inedite di B. Castelli, una di B. C. ..., (dal cod. Ashb. 1861...), in Benedectina, XX (1973), pp. 271-283; I Rotuli dei lettori, legisti e artisti dello Studio bolognese..., a cura di U. Dallari, II, Bologna 1889, pp. 383-454; G. B. Riccioli, Chronologia reformata, III, Bononiae 1669, p. 208; F. Picinelli, Ateneo dei letter. milanesi, Milano 1670, p. 94; G. M. König, Bibl. vetus et nova, Altdorfii 1678, p. 178; U. Daviso, Trattato della sfera astron. ... e prattiche per uso di essa... con la Vita di detto Autore e con altri problemi e rifless. filosofiche epratiche curiose…, Roma 1682; G. Vossius, De artium et scientiarum natura et constitutione, Amstelodami 1697, p. 179; F. Argelati, Bibliotheca Script. Mediolan., Mediolani 1745, I, 1, coll. 406 s.; II, 1, col. 1975; J. E. Montucla, Histoire des mathématiques, II, Paris 1758, pp. 25-32; A. Fabroni, Vitae Italorum doctrina excellentium…, I, Pisis 1778, pp. 267-301; P. Frisi, Elogio di G. Galilei e di B. C., Milano 1778, pp. 1-53; G. Targioni Tozzetti, Notizie degli aggrandimenti delle scienze fisiche…, I, Firenze 1780, pp. 186, 519; G. Tiraboschi, Storia della lett. ital., VIII, Modena 1780, pp. 184 ss.; F. Predari, Della vita e delle opere di B. C., Milano 1843; G. F. Rambelli, Lettere intorno invenz. e scoperte italiane, Modena 1844, pp. 451-54; G. Piola, Elogio di B. C. recitato inaugurandosi il monumento di lui, Milano 1844; S. Mazzetti, Repertorio di tutti i professori… di Bologna, Bologna 1848, p. 90; F. Jacoli, Notizia sconosciuta relativa a B. C., in Boll. di bibl. e di storia delle scienze mat. e fis., II (1869), pp. 299-312; R. Caverni, Problemi naturali di G. Galilei e di altri autori della sua scuola, Firenze 1874, pp. 229-32; F. Höfer, Histoire des mathématiques, Paris 1874, pp. 384-87; A. Favaro, G. Galilei e lo Studio di Padova, Firenze 1883, I, p. 249; II, p. 16; Id., B. C. nello Studio di Bologna, in Atti e Memorie della R. Deputazione di storia patria per le provincie di Romagna, s. 3, VI (1888), pp. 120-177; R. Caverni, Storia del metodo sperimentale in Italia, I, Firenze 1891, p. 135; II, ibid. 1892, pp. 26, 183, 311, 408; IV, ibid. 1895, pp. 121, 527-33; V, ibid. 1898, p. 88; P. Riccardi, Biblioteca matematica ital., I, Modena 1893, Milano 1952, coll. 322-31; A. Favaro, B. C. e la quadratura della spirale, in Rend. del R. Ist. lomb. di scienze e lett., s. 2, XXXVIII (1905), pp. 358-72; F. Amodeo, B. C. e la costruzione lineare delle coniche, in Rend. dell’Acc. naz. dei Lincei, cl. di scienze fis., mat. e nat., XVIII (1909), pp. 661-68; A. Favaro, Amici e corrispondenti di Galilei, in Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere e arti, LXXIV (1914-15), 2, pp. 700-767; N. Spano, L’Università di Roma, Roma 1935, p. 45; L. Simeoni, Storia dell’Università di Bologna, II, Bologna 1940, pp. 81, 94, 115, 135; G. Abetti, Amici e nemici di Galileo, Milano 1945, pp. 195-210; G. Loria, Storia delle matematiche, Milano 1950, pp. 422-58; C. Poggendorff, Biographisch- liter. Handwörterbuch, I, col. 405; Dictionary of Scientific Biography, III, pp. 149-53.