Bonaventura da Bagnoregio, santo
D. gli fa pronunciare l'elogio di s. Domenico (Pd XII 31-105), come aveva affidato a s. Tommaso d'Aquino l'elogio di s. Francesco (XI 43-117) e, come s. Tommaso aveva fatto seguire all'elogio di s. Francesco alcuni rimproveri ai domenicani venuti dopo il loro fondatore, così B. fa seguire all'elogio di s. Domenico alcuni rimproveri ai francescani (XII 112-132). A san B., e specialmente alle due vite che egli scrisse di s. Francesco (Legenda maior e Legenda minor) si ispira D. in Pd XI. Il Chiari afferma (e dimostra poi): " ciò che Dante dice di S. Francesco sostanzialmente è tutto in S. Bonaventura " (Nove canti danteschi, Varese 1966, 211. Cfr. anche L. Cicchitto, Postille..., pp. 306-366).
Vita e opere. - Figlio di Giovanni, detto Fidanza, fu battezzato anch'egli col nome di Giovanni, ma fu poi chiamato comunemente Bonaventura, non si sa bene a partire da che momento e per quale motivo: forse perché da bambino (puerulus) era stato guarito da una grave malattia in seguito alla preghiera che la madre di lui, Ritella, aveva rivolto a s. Francesco d'Assisi (Legenda minor, lect. VIII). Di B. è incerta sia la data di nascita (1217 o 1221: più probabile la prima) sia quella dell'ingresso nell'ordine francescano (1238 o, più probabilmente, 1243). Studiò a Parigi nella Facoltà delle arti e poi nella Facoltà di teologia, come prescriveva il curriculum universitario, ed ebbe come maestro di teologia, tra altri, Alessandro di Hales del quale dichiara di seguire di preferenza le dottrine (Sent. II praeloc.; Opera II 1). Dopo aver seguito la carriera universitaria prescritta, e aver cioè insegnato due anni come baccalaureus biblicus, dal 1248 al 1250, e due anni come baccalaureus sententiarius (commentatore delle Sentenze di Pier Lombardo) dal 1250 al 1252, ebbe la licentia docendi nel 1253 e insegnò come magister fino al 1257 senza che, tuttavia, il suo insegnamento fosse riconosciuto ufficialmente dalla Facoltà di teologia, per via dell'opposizione che i maestri secolari, capeggiati da Guglielmo di Sant'Amore, facevano all'ingresso dei Mendicanti (domenicani e francescani) nella Facoltà di teologia, come maestri. Nel 1257 il conflitto fra secolari e ordini mendicanti fu risolto a favore di questi ultimi, e il magistero di B. fu riconosciuto ufficialmente, insieme con quello di s. Tommaso; ma il 2 febbraio di quell'anno, B. fu eletto ministro generale dei francescani e lasciò l'insegnamento. Si spiega forse anche per questo il fatto che, dopo il commento alle Sentenze, egli non abbia, come altri teologi, scritto commenti ad Aristotele: le sue cure erano essenzialmente religiose. e pastorali. Come capo dell'ordine francescano si trovava di fronte le due opposte tendenze degli Spirituali, che volevano ricondurre l'ordine all'osservanza letterale della Regula prima di s. Francesco, e di coloro i quali si rendevano conto che una comunità numerosa, della quale facevano parte non solo laici di modesta cultura, com'erano i primi seguaci di s. Francesco, ma anche sacerdoti e dotti teologi, doveva cercar di vivere lo spirito, ma non poteva sempre osservare la lettera della prima regola. Nella Expositio e nel Sermo super Regulam Fratrum Minorum, nelle Determinationes quaestionum, nella Epistola de tribus quaestionibus (tutti nel vol. VIII dell'Opera omnia), oltre che, occasionalmente, in altri scritti, B. dimostra di sostenere un'interpretazione del francescanesimo che permetta di vivere lo spirito della regola anche in una situazione diversa da quella nella quale s. Francesco l'aveva dettata. Ci si domandava come potesse essere praticata la povertà francescana in grandi edifici, forniti di biblioteche e strumenti di lavoro necessari ai frati studenti e docenti, come potesse essere rispettato l'obbligo del lavoro manuale, come fosse compatibile con la regola francescana l'attività di magistero e lo studio della filosofia. B. risponde che la povertà è osservata purché i frati ricevano in elemosina, come i poveri, ciò che è loro necessario, senza diventarne possessori, ed essendo sempre disposti a renderlo ai proprietari; osserva che s. Francesco non ha fatto obbligo ai suoi frati di lavorare manualmente, ma solo di fuggire l'ozio, di dedicarsi a un qualsiasi lavoro, che può essere anche lo studio, ed ha affermato la superiorità della vita contemplativa sulla vita attiva. Ma è specialmente il terzo problema quello che interessa per cogliere il pensiero di B. sul valore della ricerca razionale e la sua stessa posizione nella filosofia del secolo XIII. " La regola non vieta lo studio a coloro che sanno leggere (litteratis) ma solo a coloro che entrano nell'ordine senza nessuna cultura e ai laici: s. Francesco vuole infatti,come dice s. Paolo, che ciascuno resti nella vocazione nella quale è stato chiamato " (Epistola de tribus quaestionibus n. 10; Opera VIII 334). Ma a proposito degli studi filosofici, de philosophantibus, B. è più severo: " Fateor, displicent tibi curiositates, displicent et mihi... Nec defendo circa scripta puerilia mussitantes, sed detestor eos pariter tecum... Quodsi verba philosophorum aliquando plus valent ad intelligentiam veritatis et confutationem errorum, non deviat a puritate aliquando in his studere, maxime cum multae sint quaestiones fidei, quae sine his non possunt terminari " (ibid. 335). Anche s. Agostino, che è il modello di sapiente cristiano, parla del tempo e della materia nelle Confessioni, del sorgere di nuove forme nel De Genesi ad litteram, dell'anima e di Dio nel De Trinitate. La luce filosofica, però, che gli uomini di mondo pregiano tanto, si eclissa facilmente se l'uomo non si guarda dalle tentazioni del diavolo (De Donis Spiritus Sancti, Coll. IV n. 12; Opera V 475). E continua, con manifesta allusione alla filosofia aristotelica: " Esto, quod homo . habeat scientiam naturalem et metaphysicam, quae se extendit ad substantias summas, et ibi deveniat homo, et ibi quiescat; hoc est impossibile quin cadat in errorem, nisi sit adiutus lumine fidei... Philosophica scientia via est ad alias scientias; sed qui ibi vult stare cadit in tenebras " (ibid. 476).
Certo l'atteggiamento di B. di fronte alla filosofia si modifica dal Commento alle Sentenze agli ultimi scritti. Il Commento alle Sentenze riflette l'insegnamento di B. poco dopo il 1250, quando non si era ancora affermato nella cultura cristiana e specialmente nell'ambiente parigino un certo aristotelismo radicale, come lo chiama F. Van Steenberghen, ispirato al commento di Averroè e poco preoccupato di mettere d'accordo il pensiero aristotelico con la dottrina cristiana; le Collationes (discorsi spirituali, sermoni), invece, che B. tenne fra il 1267 e il 1273 e specialmente le ultime, le Coll. in Hexaëmeron, a Parigi, riflettono la preoccupazione del teologo di fronte alle nuove correnti. Più vicine, per data e per contenuto, al Commento alle Sentenze, sono le Quaestiones disputatae; un posto a sé tengono gli Opuscula (sono gli scritti indipendenti dall'insegnamento e dalla predicazione) tra i quali i più famosi sono il Breviloquium, compendio dalla teologia bonaventuriana, l'Itinerarium mentis in Deum, forse il più caratteristico scritto di B., e il De Reductione artium ad theologiam.
Il pensiero, Dio e l'illuminazione. - La teologia (sacra doctrina vel theologia) è " la sola sapienza perfetta, che prende le mosse dalla causa somma, principio delle realtà create, alla quale termina la conoscenza filosofica " (Brevil. II 13). La filosofia è definita " veritatis ut scrutabilis notitia certa ", la teologia " veritatis ut credibilis notitia pia ", la conoscenza mistica (" scientia gratuita ") è " veritatis ut diligibilis notitia sancta ", la conoscenza che avremo in Paradiso è " veritatis ut desiderabilis notitia sempiterna " (De Donis Sp. Sancti, Coll. VI, 5; Opera V 474). Sembra dunque opportuno cominciare da Dio, termine della conoscenza filosofica e punto di partenza della scienza teologica. Il problema di Dio, sia nel Commento alle Sentenze che nelle Quaest. disp. de Mysterio Trinitatis (che sono cronologicamente assai vicine al comm. alle Sentenze) è posto come problema della certezza della nostra conoscenza di Dio: " Utrum divinum esse sit adeo verum quod non possit cogitari non esse " (Sent. I VIII 1 1 2; Opera I 153) e " Utrum Deum esse sit verum indubitabile " (Myst. Trin. I 1; Opera V 45). In quest'ultimo testo (più ampio del precedente) la risposta affermativa è giustificata in tre modi (" triplici via "): 1) l'esistenza di Dio è una verità innata (" verum impressum ") in tutte le menti; 2) è una verità che è proclamata da ogni creatura; 3) è una verità evidente per sé stessa. Fra le molte considerazioni che illustrano la prima delle tre vie indicate rileviamo le seguenti, che ci sembrano tipicamente bonaventuriane: abbiamo innato l'amore della sapienza, della beatitudine, della pace; ora non c'è amore dell'ignoto; dunque sappiamo che cosa sono la sapienza, la beatitudine, la pace. Ma sapienza, beatitudine, pace è Dio, dunque è innata in noi la conoscenza di Dio. Inoltre, l'anima ha innata la conoscenza di sé, e non potrebbe conoscersi senza conoscere Dio che è " praesentissimus ipsi animae, et se ipso cognoscibilis ". Nella seconda via B. afferma che la cognizione di qualsiasi ente derivato, dipendente, possibile, ecc. implica la nozione dell'essere primo, assoluto, necessario, ecc. Questa seconda via è svolta con particolare efficacia nell'Itinerarium, e precisamente nel terzo capitolo dove si cerca l'immagine di Dio in noi.
La terza via indicata nelle Quaest. disp. de Myst. Trinitatis per dimostrare che l'esistenza di Dio è una verità indubitabile, è la stessa evidenza della proposizione ‛ Dio esiste ', e qui B. riprende l'argomento del Proslogion di s. Anselmo e le considerazioni di s. Agostino sulla verità che è implicita in ogni nostra affermazione o negazione, fosse pure la negazione che la verità esista. Qualunque cosa si affermi o si neghi, dunque, implica l'esistenza della verità, e ogni verità suppone l'esistenza della prima verità, che è Dio.
Nell'ascesa bonaventuriana a Dio - e specialmente nella seconda via che ci sembra la più bonaventuriana - sono implicite la dottrina dell'illuminazione e l'esemplarismo. Per ciò che riguarda la prima ricorderemo che essa era uno dei temi più discussi, poiché nell'incontro fra il pensiero aristotelico sulla natura e sull'uomo e il patrimonio tradizionale, ereditato in gran parte da s. Agostino, uno dei problemi che si ponevano nel secolo XIII era se la dottrina di s. Agostino sulla conoscenza delle verità necessarie - dottrina che si chiama comunemente dell'illuminazione - fosse compatibile con la gnoseologia aristotelica. La seconda via bonaventuriana, sulle orme di s. Agostino (cfr. p. es. De Libero arbitrio II 3 ss.), dimostra l'esistenza di Dio come luce che illumina le nostre menti, anche se l'animo nostro distratto, assuefatto alle tenebre e alle immagini degli enti sensibili, non si rende conto della presenza del sommo essere, " non intelligens, quod ipsa caligo summa est mentis nostrae illuminatio " (Itin. V 3).
Ma come va intesa questa illuminazione? Il testo più preciso sembra quello delle Quaest. disp. De scientia Christi (IV), dove B. si domanda " utrum quidquid certitudinaliter cognoscitur a nobis cognoscatur in ipsis rationibus aeternis " (Opera v 17 ss.). Il problema non si pone per qualsiasi conoscenza, ma per quelle che implicano una verità necessaria (cfr. rationes 17, 18, 19, 21, 26). Nella risposta B. presenta la sua soluzione come intermedia fra due tesi opposte: la prima asserisce che le idee eterne sono l'unica fonte della nostra conoscenza delle verità necessarie (" ratio cognoscendi tota et sola "), la seconda che esse sono solo la causa efficiente del nostro conoscere, sì che noi conosciamo tali verità per l'influsso (influentia) delle ideedivine. La prima afferma troppo, la seconda (che era quella di Tommaso d'Aquino) troppo poco. Se fosse vera la prima noi dovremmo vedere ogni cosa nel Verbo divino e non ci sarebbe nessuna differenza fra la conoscenza che abbiamo in questa vita e quella che avremo nella vita eterna, in Paradiso; se fosse vera la seconda Dio non influirebbe nel nostro conoscere più che in qualsiasi processo naturale; " Deus non magis debet dici dator sapientiae quam fecundator terrae " (ibid. 23), e invece l'intelligenza è qualcosa di più vicino a Dio di un qualunque fatto naturale, è ciò per cui l'uomo è immagine di Dio. La tesi di B. è che l'idea eterna è regulans e ratio motiva, non totale, ma parziale del nostro conoscere intellettivo. Il che vuol dire che c'è una presenza immediata dell'intelligibile al nostro intelletto, una presenza, cioè, non mediata dall'esperienza sensibile, non rilevata dall'astrazione operata dall'intelletto agente (come era per Tommaso d'Aquino). L'astrazione c'è, e c'è l'intelletto agente, ma non basta a spiegare l'infallibilità della conoscenza delle verità necessarie, come non basta a spiegare il salto qualitativo fra gli altri enti della natura e quello che è immagine di Dio. Questa presenza dell'intelligibile è tuttavia oscura e confusa: il nostro spirito " non attingit eas [rationes aeternas] Ilare et piene et distincte " (ibid. 24). Prima del peccato originale la conoscenza delle eterne idee era, certo, imperfetta, parziale, come è sempre ogni conoscenza che la creatura ha di Dio, era " ex parte ", ma non " in aenigmate ": nello stato attuale è " ex parte " e " in aenigmate ".
Se la dottrina dell'illuminazione è centrale nella teoria bonaventuriana sulla conoscenza, la dottrina delle idee divine come esemplari delle cose create (esemplarismo) è fondamentale nella concezione bonaventuriana della realtà. S. Agostino aveva già fatta propria la concezione platonica delle idee, anzi aveva affermato che non si può essere filosofi senza ammettere le idee: " ut nisi his intellectis sapiens esse nemo possit " (De Diversis quest. LXXXIII XLVI 1), ma, andando oltre Platone, aveva collocato le idee nell'intelligenza divina; B. non solo afferma che in Dio ci sono idee, ma fa di questa tesi il cardine della filosofia. " Deus cognoscit per ideas et habet in se rationes et similitudines rerum, quas cognoscit " (Sent. I XXXV). Questo si avvera anche nella conoscenza umana, ma in essa la similitudine è " accepta et impressa " dalle cose, mentre nella conoscenza divina l'idea è il modello e la verità delle cose. Dico che B. fa di questa dottrina il cardine della filosofia perché dalla negazione di essa egli vede derivare, in una pagina famosa delle Coll. in Hexaëmeron, tutti gli errori dei filosofi, e in primo luogo di Aristotele e degli averroisti.
Le tenebre, ossia l'errore, in filosofia, nascono dall'aver negato le idee di Platone. Per averle negate Aristotele afferma che Dio conosce solo sé stesso e non le altre cose, quindi non può essere causa efficiente del mondo, ma solo causa finale: lo muove solo come desiderato e amato, non come artista. Di qui segue la negazione della provvidenza: Dio infatti non può vedere e provvedere a ciò di cui non ha l'idea; e perciò tutti gli avvenimenti o sono casuali o si compiono per fatale necessità. Ma poiché non tutto può essere casuale, gli Arabi (leggi: Avicenna e Averroè) dicono che tutto avviene necessariamente, per opera delle intelligenze che muovono gli astri. In una simile concezione è impossibile parlare di un peccato degli angeli, poiché chi opera necessariamente, come le intelligenze separate, secondo gli Arabi, non è responsabile e non può peccare. Anche la teoria averroistica dell'unicità dell'intelletto possibile per tutta la specie umana deriva dalla negazione delle idee, secondo B., poiché un mondo formatosi necessariamente, e non per una libera creazione, è eterno; ora in un mondo eterno infinite sono le generazioni umane, infiniti uomini si sono succeduti; se dunque ciascuno di essi avesse un'anima immortale ci sarebbero attualmente infinite anime umane, e poiché l'infinito attuale non è possibile, secondo Aristotele, logicamente si deve negare che ogni uomo abbia un'anima intellettiva immortale, e si deve affermare con Averroè che vi è un unico intelletto possibile per tutti gli uomini. È negata dunque l'immortalità personale, negata la vita futura, negata la pena e il premio eterni (In Hexaëm VI 2-4; Opera V 360-361).
La creazione. - Le cose sono create, ossia prodotte dal nulla, e hanno avuto principio nel tempo. La creazione nel tempo è, secondo B., una verità dimostrabile razionalmente, non solo accettata per fede: se il mondo è ex nihilo, deve anche essere post nihilum. Ammettere che il mondo è ab aeterno sarebbe possibile solo se si ammettesse, con Aristotele, che la materia è increata: allora l'essere del mondo sarebbe paragonabile a un'orma che un piede eterno avrebbe lasciato su un'eterna polvere; ma se anche la materia è creata, è necessario che il mondo abbia avuto inizio (Sent. II I I 1 2).
Tutte le sostanze create, anche gli angeli, sono composte di materia e forma (come affermava Avencebrol) poiché sono mutevoli, e quindi hanno in sé una potenzialità; ora la radice della potenzialità è la materia (Sent. II III I 1 1). La materia, intesa come pura potenza, è essenzialmente identica nei corpi e nelle sostanze spirituali, e così la considera il metafisico, seguendo s. Agostino " qui fuit altissimus metaphysicus " (ibid. 2; 98). La materia non è mai esistita come pura potenza, poiché tutto ciò che esiste ha una qualche forma (Sent. II XII 1 1), ma non ha ricevuto subito dal Creatore le forme che ha attualmente: il mondo è passato da uno stato di relativa informità alla compiutezza attuale (ibid. 2). Prima delle forme distinte, la materia ha ricevuto forme generali e la prima di queste è la luce. La luce è forma sostanziale: " lux, cum sit forma nobilissima inter corporalia, sicut dicunt philosophi et Sancti, secundum cuius participationem maiorem et minorem sunt corpora magis et minus entia, est substantialis forma " (Sent II XIII 2 2; Opera II 321); l'Empireo, che è il corpo più nobile, è anche il più luminoso. Può essere però considerata come forma accidentale in quanto rende luminosi i corpi ed è principio di fulgore. La luce, che è " forma et natura omnis alterius corporalis formae conservativa et dans ei agendi efficaciam " (ibid. 321), è per sé attiva e da sé si moltiplica, cioè si diffonde. In questa dottrina B. segue Roberto Grossatesta. Distinta dalla luce (lux) è la luminosità (lumen), forza attiva che emana dal corpo luminoso, passa nell'aria o, in genere, nel medio e, quando agisce sul senso, fa sì che noi vediamo (Seni. II XIII 3 2; Opera Il 328).
Non solo la luce, ma ogni forma sostanziale, sia pure in grado minore, è concepita da B. come una perfezione che non chiude e definisce, ma apre la via a perfezioni ulteriori, come osserva il Gilson. Di qui la tesi, comune a molti scolastici del secolo XIII, specialmente francescani, che in ogni corpo vi sono più formesostanziali. ' Le forme sostanziali che non sono capaci di sussistere indipendenti, ossia tutte le forme " quae sunt tantum formae ", non sono create immediatamente da Dio, ma sono generate dalle cause seconde: non però generate totalmente, perché i loro germi (rationes seminales) preesistono già nella materia (Sent. II VII 11 2 1; Opera II 198). Le rationes seminales, delle quali aveva parlato s. Agostino, sono virtualità insite nella materia, che l'agente creato (la causa generatrice) porta a piena attuazione (ibid. XVIII 1 2; Opera II 436).
L'anima umana. - Ciò che si è detto vale per le forme infraumane: l'anima umana, invece, non è soltanto forma, ma hoc aliquid, realtà capace di esistere per sé, quindi è composta di materia e forma. " Illa autem materia sublevata est supra esse extensionis, et supra esse privationis et corruptionis, et ideo dicitur materia spiritualis " (Sent. II XVIII 1 2; Opera Il 415). Poiché è sostanza, hoc aliquid, l'anima umana è creata immediatamente da Dio, ma insieme col corpo, poiché è unita al corpo " ut perfectio naturalis " (ibid. 3; 417); può tuttavia vivere anche separata dal corpo ed è per sua natura immortale (ibid. XIX 1 1). Fra le molte ragioni che. si possono addurre per dimostrare l'immortalità dell'anima, B. ritiene particolarmente efficace quella che si fonda sulla considerazione del ‛ fine ' dell'anima stessa, che è la somma beatitudine; ora non' c'è beatitudine se non è escluso il timore che essa possa essere perduta, quindi la somma beatitudine esige una vita immortale (ibid.; Opera II 460). L'intelligenza e la volontà (intellectus et af fectus, ratio et voluntas) sono potenze distinte fra loro, e sono distinte dall'anima stessa, non però al punto di appartenere a un altro genere, ossia di essere accidenti di quella sostanza che è l'anima (Sent. II XXIV 2 1; Opera II 558).
B. tiene insomma una posizione intermedia fra quella che identifica le potenze con l'essenza dell'anima e quella che le ritiene qualità dell'anima stessa. Intelletto agente e intelletto possibile sono due differenze dell'intelletto umano, quindi intrinseci all'anima di ogni uomo. Escluso che l'intelletto agente sia una sostanza separata, come voleva Avicenna, o si identifichi con Dio, come ammettevano alcuni scolastici (quelli che Gilson ha chiamato agostiniani avicennizzanti), B. ammette che ci siano varie opinioni probabili sul modo di intendere i loro rapporti. Sintesi, in certo modo, di ragione e volontà, facultas rationis et voluntatis, è il libero arbitrio, non perché esso sia una nuova facoltà, ma perché dà all'uomo la facilità (facultas come facilitar) di dominare i suoi atti (Sent. II XXV 1 4; Opera II 601).
Oltre la conoscenza razionale. - L'illuminazione divina è necessaria all'uomo anche nella conoscenza razionale, come abbiamo visto, ma non si arresta a questa: altri passi può compiere lo spirito umano aiutato dalla grazia, come insegna B. nell'Itinerarium, scritto alla Verna, nel 1259, " dum mente tractarem aliquas mentales ascensiones in Deum " (Prol. 2) e ripensava all'apparizione che s. Francesco aveva avuta del crocifisso in forma di Serafino con sei ali quando ricevette le stigmate. Gli parve che le sei ali del Serafino simboleggiassero sei gradi di illuminazione che ci fanno ascendere progressivamente a Dio dal mondo, " cum... ipsa rerum universitas sit scala ad ascendendum in Deum " (I 2). I primi due gradi partono dalle tracce (vestigia) di Dio nel mondo e si distinguono perché il primo (per vestigia) considera il mondo sensibile come appare, il secondo (in vestigia) lo considera nelle potenze dell'anima che lo riflettono; il terzo e il quarto grado segnano il ritorno dal sensibile e dal senso alla mens, ossia allo spirito umano in quanto immagine di Dio, e si distinguono perché il terzo parte dalle potenze che son date all'anima umana con la sua stessa natura (memoria, intelletto, volontà), mentre il quarto sale a Dio dalle potenze dell'anima riformate dalla grazia (IV 7). Il quinto e il sesto grado vanno oltre (supra) il nostro spirito e ci fanno salire a Dio " per lumen quod est signatum supra mentem nostram " (V 1); si distinguono perché il quinto contempla Dio come esse, il sesto lo contempla come bonum; al quinto ci conduce specialmente il Vecchio Testamento, al sesto il Nuovo (V 2). Dio considerato come bene si rivela come Trinità, poiché il bene si diffonde (diffusivum fusivum sui) e non potrebbe diffondersi 'adeguatamente se non nella trinità delle persone (VI 2). Nella considerazione della Trinità " est perfectio illuminationis mentis " (VI 7); oltre questa non resta che la quiete dell'estasi, quella che ebbe in dono s. Francesco sul monte della Verna. " Si autem quaeras, quomodo haec fiant, interroga gratiam, non doctrinam; desiderium, non intellectum; gemitum orationis, non studium lectionis; sponsum, non magistrum; Deum, non hominem; caliginem,, non claritatem; non lucem, sed ignem totaliter inflammantem " (VIII 6).
Bonaventura e Dante. - Per quel che riguarda B. e D., gli studi particolari dello Jallonghi e del Cicchetto, per quanto utili, non bastano a coglierne il rapporto. Forse si potrebbe dire che D. ha un senso dei valori temporali molto più vivo di quanto ne abbia B., e una stima molto maggiore per Aristotele e Averroè, proprio come puri filosofi; ma che B. rappresenta per lui uno di coloro che meglio hanno saputo orientare la dottrina e la vita alla contemplazione di Cristo e della Trinità e prepararla allo slancio mistico.
Per quanto riguarda il personaggio si può forse dire che nell'uomo, nel santo B., D. veda la figura ideale del francescano, di colui che ne' grandi offici / sempre pospuosi la sinistra cura (Pd XII 128-129), ossia mise sempre in secondo piano le cure temporali per badare in primo luogo alla sua missione di religioso. Di B., D. apprezza pure l'equilibrio nell'interpretazione del francescanesimo (quell'equilibrio al quale si è accennato sopra), lontano sia dal rigore di un Ubertino da Casale come dalla larghezza di Matteo d'Acquasparta (Pd XII 124) che verranno dopo di lui. Circa la dottrina si può affermare una particolare dipendenza di D. da Bonaventura? L'opera alla quale si è più spesso pensato è l'Itinerarium, che poteva essere anche più facilmente noto a un cristiano, non teologo di professione. Ora indubbiamente l'Itinerarium indica le tappe di un'ascesa a Dio in tre tempi (ma nel primo grado dell'Itinerarium non c'è traccia, sembra, di espiazione del peccato, come 'nell'Inferno dantesco); ascesa che culmina nell'estasi, in un'unione con Dio, Uno e Trino, che supera le potenze della natura umana. La possibilità di questa unione ci è data da Cristo, Verbo incarnato, sì che nella Trinità stessa possiamo vedere la nostra effige (Pd XXXIII 131). Ma tutto questo è solo bonaventuriano o è patrimonio comune della teologia cattolica? Un interprete autorevolissimo, e di B. e di D., il Gilson, ritiene che il canto XXXIII del Paradiso segua passo passa il metodo dell'Itinerarium. L'Itinerarium " termina a un'estasi dalla quale è esclusa ogni conoscenza ": l'unione è solo fra la volontà umana e Dio. Può dirsi altrettanto per Pd XXXIII con quell'incalzare di vidi (vv. 85, 92, 122), mirava (v. 98), di mirar faceasi accesa (v. 99) e quel trionfo di luce (v. 100), lume (vv. 110, 116), sì che pure l'immagine per esprimere lo splendore della Trinità è un'immagine visiva, di tre colori (v. 117)? Il bene stesso, ch'è del volere, obietto, / tutto s'accoglie in lei (vv. 103-104), nella luce. Anche le garbate osservazioni di G. Vergineo non sembrano dimostrare nell'Itinerarium una fonte particolare e immediata del Paradiso dantesco. Si può forse concludere che l'Itinerarium, che è uno dei monumenti più preziosi della mistica cattolica, resta come modello nello sfondo dell'ascesa dantesca a Dio anche se non possono stabilirsi dipendenze testuali.
Bibl. - S. Bonaventura, Opera omnia, Ad Claras Aquas (Quaracchi, Firenze) 1882-1902, 10 voli.; Collationes in Hexaëmeron et Bonaventuriana quaedam selecta, ed. F. Delorme (contiene una ‛ reportatio ' dell'Hexaém. diversa da quella delle Opera), Firenze 1934; É. Gilson, La philosophie de Saint B., Parigi 1924 (19533); P. Mandonnet, L'augustinisme bonaventurien, in " Bulletin Thomiste " I (1926) [48-54]; P.J. Bissen, L'exemplarisme divin selon Saint B., Parigi 1929; F. Van Steenberghen, Siger de Brabant d'après ses œuvres inédites, II, Lovanio 1942; R. Lazzarini, San B. filosofo e mistico del Cristianesimo, Milano 1946; P. Robert, Le problème de la philosophie bonaventurienne, in " Laval théologique et philosophique " VI (1950) 145-163, e vie (1951) 9-58; J. Ratzinger, Die Geschichtstheologie des hl. B., Monaco 1959; J.G. Bougerol, Introduction à l'étude de Saint B., Parigi 1961 (con bibliografia); F. Van Steenberghen, La philosophie au XIIIe siècle, Lovanio 1966 (con bibliografia).
Su B. E D.: E. Di Bisogno, S.B. e D., Milano 1899; È. Gilson, La conclusion de la D.C. et la mystique franciscaine, in " Revue d'hist. franciscaine " I (1924) 55-63; E. Jallonghi, Il misticismo bonaventuriano nella D.C., Città di Castello 1935; L. Cicchitto, Postille bonaventuriano-dantesche, Roma 1940; M. Sanarica, Ancora su D. e B., Bologna 1959; E. Bettoni, D. e la teologia francescana, in Annali dell'Istituto di Studi danteschi, Univ. Cattolica del S. Cuore, Milano 1967, 1-16; G. Vergineo, Il misticismo di S.B. nel Paradiso dantesco, in Incontri bonaventuriani, Montecalvo Irpino 1967, 15-36.