Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Giovanni da Fidanza, o meglio Bonaventura da Bagnoregio, porta avanti una riflessione dalla chiara ispirazione agostiniana funzionale alla costruzione di una “filosofia francescana”; la sua è una coerente rivendicazione del carattere non autosufficiente della ricerca filosofica nel cuore del secolo dell’aristotelismo trionfante.
Bonaventura da Bagnoregio
Sulla conoscenza certa
Queastiones disputatae de scientia Christi
[…] Quando si dice che tutto ciò che si conosce con certezza lo si conosce nella luce delle ragioni eterne, questo può essere inteso in tre modi. In primo luogo, si può intendere che alla certezza conoscitiva concorre l’evidenza dell’eterna Luce come criterio totale e unico del conoscere – Tale modo di intendere è il meno giusto, per il fatto che, in questo caso non vi sarebbe alcuna conoscenza delle cose se non nel Verbo; e allora la conoscenza su questa terra non differirebbe da quella della vita celeste, né la conoscenza nel Verbo da quella nel proprio genere, né la conoscenza propria della scienza da quella propria della sapienza, né la conoscenza di natura da quella di grazia, né la conoscenza razionale da quella rivelata […]. In secondo luogo, si può intendere che le ragioni eterne concorrono necessariamente alla certezza conoscitiva per ciò che concerne il loro influsso, in modo che il soggetto conoscente, nel conoscere, attinge non le ragioni eterne in sé, bensì soltanto tale influsso […] tale influsso della Luce increata o è generale, in quanto Dio esercita un influsso su tutte le creatura, o è speciale, come quando Dio influisce per mezzo della grazia. Poniamo che sia generale: ma allora, di Dio, non si deve dire che dà la sapienza più di quanto si dica che feconda la terra, né si dovrebbe dire che da Lui proviene la scienza più che il denaro. Poniamo, invece, che tale influsso sia speciale, come è la grazia: ma allora, secondo questo modo di argomentare, ogni conoscenza è infusa, e nessuna è acquisita o innata, cose tutte assurde. Vi è, quindi, un terzo modo di intendere, quasi mediano rispetto agli altri due, e cioè che la conoscenza certa richiede necessariamente la ragione eterna, come normativa e motrice (ut regulans et ratio motiva), non però da sola e in tutta la sua chiarezza, ma insieme con la ragione creata, e come imperfettamente intravista (contuita) da noi, secondo la nostra condizione di pellegrini sulla terra.
in Opere di San Bonaventura, a cura di L. Mauro, Roma, Città Nuova, 1993
Bonaventura da Bagnoregio
Cecità dell’intelletto
Itineriarium mentis in Deum
Straordinaria è dunque la cecità dell’intelletto che non considera ciò che vede per primo e senza il quale nulla può conoscere. Come l’occhio rivolto alla varietà dei colori non vede la luce per mezzo della quale vede le altre cose, e se la vede non se ne rende conto, così l’occhio della nostra mente, rivolto agli esseri particolari e universali, non si rende conto dell’essere stesso che è al di là di ogni genere, sebbene si manifesti per primo alla mente e per mezzo suo si manifestino tutte le altre cose. Per cui risulta assolutamente vero che “l’occhio della nostra mente si rapporta alle cose più evidenti della natura, come l’occhio del pipistrello si rapporta alla luce”; infatti assuefatto alle tenebre degli enti e alle immagini delle realtà sensibili, quando vede la luce stessa del sommo essere gli pare di non vedere nulla. Non comprende che questa somma oscurità illumina la nostra mente; allo stesso modo, quando l’occhio corporeo vede la luce pura gli sembra di non vedere nulla.
Bonaventura da Bagnoregio, Itinerario della mente verso Dio, introduzione, trad. e note di M. Parodi e M. Rossini, Milano, Rizzoli, 1994
Bonaventura da Bagnoregio
La dedizione instancabile alla preghiera, insieme con l’esercizio ininterrotto delle virtù, aveva fatto pervenire l’uomo di Dio a così grande chiarezza di spirito che, pur non avendo acquisito la competenza nelle Sacre Scritture mediante lo studio e l’erudizione umana, tuttavia, irradiato dagli splendori della luce eterna, scrutava le profondità delle Scritture con intelletto limpido e acuto.
Il suo ingegno, puro da ogni macchia, penetrava il segreto dei misteri, e dove la scienza dei maestri resta esclusa, egli entrava con l’affetto dell’amante.
Leggeva, di tanto in tanto, i libri sacri e riteneva tenacemente impresso nella memoria quanto aveva una volta assimilato: giacché ruminava continuamente con affettuosa devozione ciò che aveva ascoltato con mente attenta.
in Fonti francescane, Assisi - Padova, Editrici Francescane, 1993
Giovanni da Fidanza nasce a Civita di Bagnoregio in una famiglia tipicamente borghese: il padre, anche lui di nome Giovanni, esercita la professione di medico. All’età di 18 anni, dopo aver studiato nel convento dei Frati minori del suo paese natale, il futuro Bonaventura si reca a Parigi per frequentare la Facoltà delle Arti; a questo periodo risalgono i suoi primi contatti con l’ambiente francescano. Nel 1243, dopo aver conseguito il titolo di magister artium, entra nell’ordine di San Francesco assumendo il nome di Bonaventura; divenuto baccalaureus biblicus, nel 1248 viene incaricato della lettura “cursoria” della Bibbia. Al termine del periodo di formazione di due anni, conseguito il titolo di baccalaureus sententiarius, tiene lezione sulle Sentenze di Pietro Lombardo (Commentarius in quattuor libros Sententiarum). Nel 1253 gli viene conferita la licentia docendi e, contemporaneamente, diviene magister regens della scuola francescana della capitale francese. Gli anni successivi sono segnati da una forte polemica fra i maestri secolari e quelli che appartengono ai nuovi ordini mendicanti, che vengono esclusi dall’università parigina; nonostante questo Bonaventura prosegue la propria attività didattica. A questo periodo risalgono alcune fra le opere più famose del maestro francescano: le Quaestiones disputatae de scientia Christi, le Quaestiones disputatae de mysterio Trinitatis, il Breviloquium, il De reductione artium ad theologiam oltre a numerosi commenti biblici.
Nel 1257 il Capitolo generale dei Francescani, riunito a Roma, elegge Bonaventura ministro generale dell’ordine. La sua posizione in merito ai problemi più rilevanti posti dall’interpretazione della Regula di Francesco era stata resa nota nei mesi precedenti attraverso l’Epistula de tribus quaestionibus. Nell’agosto di quello stesso anno, a seguito dell’ingiunzione di papa Alessandro IV, la congregazione di maestri dell’Università di Parigi accoglie al proprio interno Bonaventura e Tommaso d’Aquino, ponendo così termine ai contrasti degli anni precedenti. Il 4 ottobre 1259 Bonaventura compie un pellegrinaggio sul monte della Verna dove, secondo la tradizione, Francesco ricevette nel 1224 le stimmate, successivamente compone l’Itinerarium mentis in Deum. L’anno seguente il Capitolo generale dell’ordine, riunito a Narbona, gli affida l’incarico di redigere una nuova biografia di Francesco, che si presenti come collazione delle precedenti e sia in grado di eliminarne le contraddizioni; il risultato di questo lavoro, la Legenda maior, verrà presentato al Capitolo generale di Pisa del 1263. Tre anni dopo un nuovo Capitolo generale adotterà il testo di Bonaventura come unica biografia ufficiale del fondatore dell’ordine e imporrà la distruzione di tutte le precedenti biografie francescane.
Fra il 1266 e il 1268, inseritosi nuovamente nell’ambiente culturale parigino, Bonaventura partecipa alle discussioni sollecitate dalla conoscenza del pensiero di Aristotele e dei suoi interpreti; l’anno successivo, dopo aver presieduto il Capitolo generale dell’ordine svoltosi ad Assisi, rientra a Parigi e prende parte a una nuova fase della polemica fra clero secolare e appartenenti agli ordini mendicanti di cui difende ruolo e idee nell’Apologia pauperum contra calumniatorem. Nel 1273 tiene una serie di conferenze che costituiscono la sua ultima grande opera, Collationes in Hexaëmeron, ma è poi costretto ad abbandonare Parigi a seguito della sua nomina a cardinale vescovo di Albano. Nel 1274, durante il concilio di Lione, difende l’ordine francescano dagli attacchi di alcuni prelati e poi si dimette dalla carica di ministro generale. Muore nel luglio dello stesso anno.
Nel suo complesso l’opera di Bonaventura sembra strutturata intorno a una doppia operazione culturale diretta verso l’interno e l’esterno dell’ordine francescano. Verso l’esterno il compito che l’autore si assume, sia nei confronti delle contestazioni dei maestri secolari dell’Università di Parigi, sia verso coloro che, ad esempio nel concilio di Lione del 1274, chiedevano la scomparsa dell’ordine francescano, è quello di mostrare che il francescanesimo ha una propria filosofia e che, nonostante il carattere “illetterato” del fondatore e dei suoi primi seguaci, dalla loro esperienza discende una visione dell’uomo e del mondo che costituisce il fondamento su cui costruire un’originale riflessione filosofica e teologica. Da questa constatazione prende avvio l’operazione culturale che Bonaventura indirizza verso l’interno dell’ordine che guiderà per 17 anni.
Essa serve a mostrare che si è veramente fedeli all’insegnamento di Francesco non mantenendosi “illetterati”, ma accettando di sviluppare la ricerca filosofica e teologica in piena coerenza con l’ispirazione originaria, senza indulgere alla vana curiositas di matrice pagana, ma al contempo valorizzando gli strumenti della scientia nel percorso che conduce alla vera sapientia.
In questo senso, come attesta la sua stessa biografia, la riflessione di Bonaventura si costituisce attorno a tre cardini fondamentali: l’indagine filosofico-teologica, la visione contemplativa e l’ispirazione francescana, intesi tuttavia non come elementi separati ma come momenti che, attraverso la loro reciproca e costante relazione, contribuiscono a definire un ininterrotto processo. Per questo l’immagine che meglio designa il complesso della riflessione bonaventuriana è quella dell’itinerario, che riprende il titolo della sua opera forse più nota (Itinerarium mentis in Deum), scandito, anche in virtù del debito profondo, sempre ricordato dal maestro francescano, nei confronti del pensiero di Agostino, dai tre momenti della memoria, dell’intelletto e della volontà.
Bonaventura non si limita, in più di una occasione, a ricordare il proprio debito nei confronti di Agostino, ma costruisce per intero la propria speculazione filosofica intorno a due presupposti di chiarissima derivazione agostiniana: i concetti di dinamicità e analogia.
Queste due linee guida si trovano a fondamento sia dell’analisi della realtà e della sua relazione con il creatore, sia dell’esame delle modalità con cui l’uomo sviluppa la propria azione conoscitiva. Il punto di partenza per analizzare la realtà è costituito da una metafora, che Bonaventura condivide con buona parte del pensiero medievale, secondo la quale il mondo è un libro nel quale è possibile leggere la presenza, la traccia del creatore: “il mondo creato è come un libro, in cui risplende, si manifesta in forme sensibili e si legge la Trinità creatrice” (Breviloquium, II.12.1). Su questo piano si gioca la somiglianza fra le creature e il creatore: da un lato si rifiuta qualsiasi comunanza di essenza fra Dio e le cose (nessuna imitazione dell’infinito da parte del finito è possibile per Bonaventura), dall’altro queste ultime sono trasformate nel primo gradino del percorso che conduce la mente umana fino a Dio. Vestigia Dei è dunque il termine corretto per caratterizzare le cose sensibili che, come ogni altra realtà, sono composte di materia e forma secondo la nota dottrina dell’ilemorfismo universale. Le cose, tuttavia, non sono solo inserite nell’itinerario conoscitivo che muove l’uomo verso il proprio creatore, ma sono anche caratterizzate da un dinamismo interno; Bonaventura infatti, contrapponendosi agli aristotelici a lui contemporanei e in primo luogo a Tommaso d’Aquino, ritiene che non sia unica la forma che, in unione con la materia prima, realizza completamente ogni essere, caratterizzato invece da una pluralità di forme, ciascuna delle quali determina un compimento e al tempo stesso apre verso ulteriori perfezioni. Questa tensione presente, secondo il maestro francescano, già nella materia primordiale, anch’essa dunque non priva di una determinazione formale per quanto ancora incompleta, è il marchio dell’“attesa universale di Dio” presente, secondo la nota affermazione di Étienne Gilson, nel cuore stesso delle sostanze.
Fin dall’inizio dunque alla materia è unita la forma sostanziale della luce che è la più attiva e perfetta fra le forme; in questo modo Bonaventura sembra ereditare alcuni elementi della metafisica della luce proposta qualche decennio prima a Oxford da Roberto Grossatesta ponendola in connessione con il racconto biblico della Creazione. La luce attualizza i corpi predisponendoli a ricevere ogni successiva determinazione e al tempo stesso gerarchizza gli enti: “la luce è la forma sostanziale dei corpi che hanno l’essere in modo più vero e più degno nel genere degli enti in virtù della maggiore o minore partecipazione alla luce stessa” (II Sent, d. 13, a. 2, q. 2, resp). È proprio a causa di questa diversificata partecipazione alla natura della luce che ““ogni creatura narra la sapienza del creatore. Tutto il mondo infatti è come uno specchio pieno di luci, come il carbone splende di luce”” (In Hexaëmeron, 2.3).
L’uomo è l’unico ente in grado di leggere questa narrazione e di avviare quel percorso di risalita verso Dio di cui Bonaventura parla in molte sue opere; a fondamento di questa azione si trovano ancora una volta le idee guida del pensiero bonaventuriano: analogia e univocità. Solo l’uomo infatti può riconoscere la presenza del creatore all’interno della realtà naturale e il particolare ritmo trinitario che a essa è stato impresso (“Tu hai regolato ogni cosa in numero, misura e peso”, Sap. 11,21), in virtù dell’analoga relazione che si instaura fra le diverse facoltà interne alla sua anima: memoria, intelletto e volontà. Proprio questo fa dell’uomo, unica fra le realtà create, non un semplice vestigium ma una vera imago Dei. In questo processo di ascesa che prende inizio dalla realtà sensibile, punto di partenza imprescindibile della conoscenza umana secondo il maestro francescano (“l’anima creata è come una tabula rasa ”, II Sent., d. 1, p. 2, a. 1, q. 2, ad 2-3), l’uomo è sostenuto dalla luce della verità la cui indiscutibile esistenza è il necessario fondamento di ogni ricerca. Oltre che all’esistenza dei dati sensibili la conoscenza è infatti resa possibile dall’immediata presenza all’anima dell’uomo di un criterio, una legge che permette di fondare i giudizi dell’intelletto in cui si esplica l’attività conoscitiva. Questo criterio di giudizio, che Bonaventura chiama naturale iudicatorium, non può tuttavia far venir meno l’esperienza e per questo si presenta come criterio formale del giudizio dell’intelletto e non come immanente presenza a esso delle species conoscitive.
Il criterio di verità è dunque innato, poiché senza di esso neppure sarebbe possibile il pensiero come, con significativa coincidenza con la dimostrazione aristotelica del principio di non contraddizione, afferma il maestro francescano: ““La luce dell’anima è la verità; questa luce non conosce tramonto. Infatti con tanta forza illumina l’anima, che neppure si può pensare né dire che non sia, senza che l’uomo si contraddica. Poiché, se la verità non è, è vero che la verità non è; dunque qualcosa è vero; e se qualcosa è vero, è vero che la verità è; dunque se la verità non è, la verità è”” (In Hexaëmeron, 4.1). In questo modo Dio, in precedenza identificato con la fonte dell’essere, assume ora anche la funzione di fonte della verità, sulla base di una significativa sovrapposizione fra ordine ontologico e ordine gnoseologico, pur percorsi in due direzioni opposte. L’indagine filosofica, giunta in precedenza a dimostrare l’esistenza di Dio, come causa degli enti reali, non autosufficienti rispetto all’esistenza, ottiene ora lo stesso risultato indicando Dio come presupposto innato dell’aspirazione alla verità propria dell’anima. Si è così realizzato un significativo passaggio dall’esteriorità all’interiorità, premessa indispensabile della tensione verso l’alto che costituisce l’ultimo momento della conoscenza razionale: ““Dal momento che è possibile conoscere Dio non solo fuori di noi, ma anche dentro di noi, deve essere possibile conoscerlo anche in quanto è superiore a noi: fuori di noi per mezzo delle tracce, dentro di noi per mezzo delle immagini, sopra di noi per mezzo della luce presente come segno al di sopra della nostra mente”” (Itininerarium mentis in Deum, V.1).
Risulta confermato sia il presupposto agostiniano, fatto proprio da Bonaventura, dell’anima umana come sede della verità, sia la complessa interazione fra la mente dell’uomo e la Verità che svolge la funzione di principio regolativo dell’attività conoscitiva, in analogia con la funzione che la luce svolge nell’azione del vedere. Ciò è confermato dall’identificazione della coppia verità/luce con l’essere del quale il maestro francescano a più riprese sostiene che “è ciò che per primo viene concepito dall’intelletto” (Itinerarium mentis in Deum, V.3), precedenza che, riferita all’ordo perfectionis, non può tuttavia riguardare l’azione conoscitiva segnata e limitata dalla particolare condizione dell’uomo che gli impedisce qualsiasi conoscenza immediata di Dio.
A questo punto, attraverso l’azione conoscitiva dell’anima, sono poste le premesse perché sia possibile all’uomo l’esperienza di Dio, ma le condizioni del viator fanno valere tutta la forza del loro carattere limitante e rendono impossibile qualsiasi azione diretta a comprehendere Dio. La scientia ha realizzato il proprio compito sorretta da quella tensione verso l’infinito che le impedisce di appagarsi della vana curiositas e la spinge verso la sapientia.
Agostino aveva teorizzato nel De doctrina christiana il carattere funzionale della scientia rispetto alla sapientia, leggendo metaforicamente l’episodio del furto compiuto dagli ebrei al momento della partenza dall’Egitto (Ex 12, 31-36); in particolar modo distinguendo tra fruizione e uso aveva affermato una stretta connessione fra le cose come segni che rimandano a un significato e la scientia come strumento che invita alla sapientia. Bonaventura, collocandosi a pieno titolo all’interno di questa tradizione e in consapevole polemica nei confronti di qualsiasi posizione che aristotelicamente affermi il carattere autonomo della ricerca filosofica, ritiene che solo di Dio si possa godere in senso proprio (solo Deo fruendum est), poiché solo in relazione a lui la fruizione è connessa sia al piacere che alla quiete. È questa la condizione della sapientia, la conoscenza sperimentale di Dio che in qualche caso il maestro francescano chiama docta ignorantia, ottenuta solo in virtù della grazia divina, come è accaduto a Francesco sul monte della Verna. Non è questa la condizione del viator, come risulta evidente dalla mancanza dei due dati caratteristici del pensiero di Bonaventura: la conoscenza sapienziale delle ragioni eterne non si serve dello strumento analogico a cui è invece vincolata la ricerca dell’uomo dopo il peccato originale, e soprattutto essa è caratterizzata da una quiete che placa il dinamismo (l’agostiniana inquietudine del cuore) che sorregge lo slancio conoscitivo dell’uomo sulla terra.
Questa nuova condizione gnoseologica, qualitativamente diversa da quella caratteristica dell’intelligenza filosofica e totalmente consegnata all’azione divina, si realizza a partire dall’itinerario conoscitivo compiuto con i limitati strumenti a disposizione dell’uomo, ma determina uno stacco, una cesura rispetto a esso. Bonaventura per caratterizzarlo ricorre spesso a ossimori costruiti intorno alla coppia luce/tenebre: “lì si trova l’impenetrabile caligine che tuttavia illumina le menti che hanno abbandonato le investigazioni curiose” (In Hexaëmeron, 20.11). La realizzazione di questo passaggio comporta l’abbandono di tutte le operazioni intellettuali e la completa trasformazione del soggetto conoscente che porta a pieno compimento, realizza e invera, il cammino di rientro in sé avviato dalla memoria e che si completa nell’amore.
La ricerca orientata alla sapientia coinvolge l’intero individuo e dunque non solo le sua facoltà conoscitive; l’appartenenza all’ordine francescano e la lunga meditazione sulla vita di Francesco, che trova la propria sintesi nella Legenda maior, danno alla filosofia di Bonaventura un particolare ed essenziale orientamento esistenziale.
Bonaventura è consapevole che, quanto a Francesco è stato possibile, in virtù della sua assimilazione a Cristo, può essere solo lontanamente imitato dall’uomo segnato dal peccato originale. Per realizzare questa pallida imitazione è necessario un sforzo della conoscenza, anche per questo la fedeltà a Francesco consiste nel superamento della condizione di “illetterati” dei suoi primi seguaci, e della volontà.
È proprio in questa facoltà dell’anima umana che si realizza il massimo di vicinanza e di somiglianza con Dio e al tempo stesso la più completa distanza rispetto a lui: la facoltà del volere è infatti pienamente libera nell’uomo come in Dio, se ci si riferisce all’assenza di costrizione, ma è radicalmente diversa in termini di dignità e di potere. Così, per realizzare il proprio fine, cioè l’azione indirizzata verso il bene morale, in piena analogia con quanto avvenuto all’intelletto in ambito conoscitivo, anche la volontà ha ricevuto una naturale inclinazione (naturale quoddam pondus) che la dirige nell’ordine dell’azione e che Bonaventura chiama synderesis. Il ruolo della volontà libera risulta determinante anche per realizzare il percorso conoscitivo dell’uomo, poiché la semplice conoscenza di ciò che è bene non rende inevitabile l’adesione a esso, cosicché il libero arbitrio dell’uomo, che è il frutto del concorso dell’intelletto e della volontà, “incomincia nella ragione e si compie nella volontà” (II Sent.). Ciò rende il passaggio dalla scientia alla sapientia, che per Bonaventura è lo scopo ultimo della ricerca filosofica, non un semplice risultato dell’attività conoscitiva, ma il frutto di una decisione esistenziale.
L’ispirazione di fondo della filosofia bonaventuriana è certamente agostiniana; il maestro francescano non può tuttavia evitare di confrontarsi con le novità introdotte dalla traduzione delle opere aristoteliche che si stavano diffondendo agli inizi del XIII secolo, soprattutto in ambiente parigino. Egli assume, a tratti consapevolmente, termini e concetti di derivazione aristotelica (come risulta evidente ad esempio nella dottrina dell’ilemorfismo universale), ma rifiuta quella che ritiene l’ispirazione di fondo della filosofia aristotelica: la rivendicazione dell’autonomia della ricerca filosofica nell’indagine sull’uomo e su Dio. Ciò risulta evidente nelle ultime opere, su tutte le Collationes in Hexaëmeron, redatte quando il clima istituzionale nei confronti della filosofia aristotelica stava cambiando e le condanne del 1277 erano alle porte. Nella sua polemica antiaristotelica Bonaventura fa leva sulla filosofia di Platone, riletta attraverso le opere di Agostino, in modo particolare sulla teoria della idee ritenuta l’unica metafisica valida, poiché permette di guardare a Dio come causa esemplare di tutte le cose, e non semplicemente come causa efficiente e finale, come avveniva nell’opera di Aristotele. È all’interno di un metafisica di chiara ispirazione platonica che è possibile evidenziare il ruolo del Verbo come parola di Dio nella quale sono contenuti i modelli di tutte le cose, mostrando ancora una volta che la ragione umana, se correttamente inserita nel percorso che dalla scientia conduce alla sapientia, è in grado di cogliere verità fondamentali.