GENOCCHI (Ginocchi), Bonaventura
(Ginocchi), Nacque, probabilmente a Chiavari, intorno al 1586. Il suo nome di battesimo fu probabilmente Giovanni Maria; in seguito, entrato nell'Ordine carmelitano, assunse il nome di fra Bonaventura. Presso i carmelitani il G. studiò teologia, raggiungendo il grado di "baccalaureus". Prima del 1612 svolse per tre anni l'attività di predicatore; si dedicò comunque anche alle lettere e alla poesia.
Nel 1612 si trovava a Padova ed era legato all'inquieto confratello fra Gabriele, alias Giulio Cesare Vanini da Taurisano. I due carmelitani si muovevano continuamente tra Padova e Venezia. Forse proprio per l'eccessiva disinvoltura dei loro spostamenti, che li sottraevano alla rigida disciplina imposta all'Ordine dal generale Enrico Silvio, sia il Vanini sia il G. ebbero un duro scontro col generale, che il 28 febbr. 1612 decise di separare i due frati e di allontanarli dal convento padovano. A questa data, tuttavia, i due carmelitani avevano già preso contatto da quasi un mese con l'ambasciatore inglese a Venezia, sir Dudley Carleton. Secondo quest'ultimo, i due affermavano che i motivi dello scontro col loro generale erano di ordine teologico, non disciplinare, e che temevano di venire condannati al rogo. Soprattutto dichiararono di voler abbandonare la Chiesa cattolica, convertirsi al protestantesimo ed emigrare in Inghilterra, dove avrebbero messo al servizio della Riforma le loro doti di teologi e di letterati. Il Carleton offrì loro la sua protezione e il 7 febbraio scrisse una lettera a George Abbot, arcivescovo di Canterbury e primate della Chiesa anglicana, chiedendogli di assumere i due al suo servizio. Nel frattempo il Vanini e il G., lasciato l'abito carmelitano, vivevano clandestinamente a Bologna, mantenendosi con l'insegnamento e anche grazie a sussidi in denaro inviati loro dal Carleton. L'8 marzo l'Abbot dava risposta affermativa alle richieste dell'ambasciatore e nel giugno del 1612 il Vanini e il G. erano già a Londra.
Durante il soggiorno in Inghilterra il G. assunse (o forse riassunse) il nome di Giovanni Maria, ma cambiò il suo cognome in de Franchis. Il 1° luglio il G. e il Vanini, in una solenne cerimonia presso la chiesa protestante italiana di Londra, abiurarono il cattolicesimo e professarono la loro adesione alla Chiesa d'Inghilterra. Sempre presso la chiesa italiana di Londra, i due parteciparono ai riti riformati e tennero diverse prediche. Dopo un breve soggiorno a Lambeth presso l'Abbot il G. venne inviato per ordine del re al servizio dell'arcivescovo di York. Si divise così dall'amico Vanini, che rimase a Lambeth, pur rimanendo in corrispondenza con lui. A York il G. rimase per un anno, dalla fine di luglio del 1612 all'estate successiva. A questo periodo risale l'epitalamio latino che il G. scrisse in occasione delle nozze di Elisabetta, figlia del re Giacomo I, con Federico V elettore palatino (dicembre 1612). Nel frattempo il G., al pari del Vanini, cominciava a sentire il disagio della sua condizione di rifugiato: in una lettera scritta da York egli riferiva al filosofo di Taurisano che l'arcivescovo gli lesinava i sussidi, che lo costringeva a vivere con lui fuori città - cosa che il G., abituato alla vivacità delle città italiane, mal sopportava - e concludeva firmandosi ironicamente: "Johannes in deserto".
Probabilmente anche queste delusioni fecero vacillare ulteriormente la fede riformata del G. e del Vanini, forse mai del tutto sincera. Già all'inizio del 1613 il Vanini si mise segretamente in contatto con Gerolamo Moravo, cappellano dell'ambasciatore veneziano a Londra Antonio Foscarini. Al Moravo il Vanini chiese di accordarsi col nunzio pontificio in Francia, Roberto Ubaldini, in maniera da ottenere il perdono per l'apostasia e la riconciliazione con la Chiesa di Roma per sé e per il Genocchi. Il 10 apr. 1613 Ubaldini scrisse alla congregazione del S. Uffizio informando delle richieste dei due. Poco dopo, con il pretesto di voler curare la pubblicazione di alcuni suoi scritti, il G. tornava a Londra e poi, dopo un breve periodo di malattia, di nuovo a Lambeth, dove poté ricongiungersi con l'amico. Nell'agosto dello stesso anno il G. e il Vanini inviarono lettere anche all'ambasciatore spagnolo a Londra Diego Sarmiento de Acuña, il quale prese contatti a loro nome con l'inquisitore generale card. Giovanni Garzia Millino, riferendogli che i due erano disposti a riconvertirsi al cattolicesimo.
Il caso dei due ex carmelitani venne discusso dal S. Uffizio il 22 agosto; fu il papa in persona a decidere il loro invio presso il nunzio di Francia o quello di Fiandra. Il nunzio aveva facoltà di accettare la loro spontanea riconversione, di assolverli dalle pene canoniche in cui erano incorsi e di acconsentire alla loro richiesta di uscire dall'Ordine carmelitano, una volta tornati in Italia. Successivamente il G. e il Vanini riabbracciarono segretamente il cattolicesimo dinanzi al cappellano dell'ambasciatore spagnolo, il domenicano Diego de la Fuente. Nel frattempo, però, l'arcivescovo di Canterbury sospettava sempre più della sincerità dei due esuli. I dubbi si trasformarono in certezza dopo che il Vanini venne fatto spiare. Così, tra la fine del 1613 e l'inizio del 1614 il Vanini e il G. vennero incarcerati e interrogati. Il Vanini confessò di essere sempre rimasto cattolico e di essersi convertito soltanto per sfuggire alla punizione del generale carmelitano; sulla confessione del G. possediamo meno dettagli, ma è altamente probabile che la sua posizione fosse identica. Dagli interrogatori emersero altresì non soltanto le trame avviate dal Vanini e dal G. per tornare in Italia, ma anche le loro letture di autori ritenuti empi e immorali tanto dai cattolici quanto dai protestanti, come Machiavelli e l'Aretino.
Nel gennaio del 1614 il G. riuscì a fuggire dalla torre di Lambeth e si mise in viaggio verso Bruxelles, dove giunse in primavera. Poco dopo fu raggiunto dal Vanini, anch'egli evaso. I due si presentarono dinanzi al nunzio Guido Bentivoglio, che eseguì quanto disposto dal pontefice; il procedimento si chiuse con una completa riabilitazione. Dopo questo episodio il solo G. rientrò in Italia; il Vanini si avviava invece verso il suo tragico destino (finirà arso sul rogo a Tolosa nel 1619). Del G. si perdono le tracce e non è nota la data della sua morte.
Anche delle opinioni religiose e filosofiche del G. sappiamo poco. La sua adesione alla Riforma fu temporanea e probabilmente non disinteressata. Ciò, comunque, non gli impedì di incentrare tutto l'epitalamio composto in occasione delle nozze tra Elisabetta e l'elettore palatino su un'aspra invettiva contro la Chiesa romana e il Papato, identificato - secondo un topos della propaganda riformata - con l'Anticristo. Il poema, che in tutto conta ben 597 esametri, è notevolmente appesantito da un apparato mitologico e allegorico tratto dalla letteratura classica. Ciò non dovette risultare troppo gradito al pubblico inglese. In una lettera diretta al Carleton, John Chamberlain scrisse infatti che il poema del G., pur valido da un punto di vista strettamente stilistico, era basato su uno schema vecchio e scontato. Per di più, la lettera dedicatoria che lo precedeva - che sviluppava un paragone tra il mitico anello che re Salomone mostrò alla regina di Saba e l'anello nuziale dei novelli sposi - venne biasimata perché costruita su una tradizione leggendaria e "fratesca" ("frierly"). Non sappiamo se il G. condividesse la filosofia atea e materialistica del Vanini; al pari di quest'ultimo, tuttavia, coltivò l'interesse per l'osservazione spregiudicata dei fenomeni naturali, come attesta lo stesso Vanini in alcuni accenni delle sue opere, in cui il G. viene elogiato come filosofo, oltre che come teologo.
Fonti e Bibl.: G.C. Vanini, Amphiteatrum aeternae Providentiae, Lugduni 1615, p. 304 (attribuisce al G. un trattato De gratia et libero arbitrio, ma è probabile che si tratti di una delle tante opere mai esistite che il Vanini era solito attribuire a sé e a suoi parenti e amici); Id., De admirandis naturae arcanis, Lugduni 1616, pp. 160 (dialogo XXVII), 201 (XXX), 425 (LVI); R. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova 1667, p. 168 (menziona dei Sonetti in lode del Serenissimo Giorgio Centurione, doge di Genova 1621-23, Genova 1622); A. Oldoini, Athenaeum Ligusticum, seu syllabus scriptorum Ligurum, Perusiae 1680, pp. 117, 358 (accenna a non meglio precisati Cantica centum spiritualia in laudem b. Mariae semper Virginis Matris Dei del G.); Bibliotheca carmelitana, notis criticis et dissertationibus illustrata…, I, Aurelianis 1752, col. 298 (segnala un carme latino del G. in lode dell'agostiniano Ambrogio Staibano edito a Napoli nel 1628); G. Porzio, Tutte le opere di Giulio Cesare Vanini tradotte per la prima volta in italiano con prefazioni del traduttore, II, Lecce 1912, pp. CXXXVI, CXLIII s.; V. Spampanato, Sulla soglia del Seicento, Roma 1926, ad ind.; E. Namer, Nuovi documenti su Vanini, in Giorn. critico della filosofia italiana, XIII (1932), 3, pp. 159-198 passim; G. Spini, Vaniniana, in Rinascimento, I (1950), 1, pp. 71, 73-75, 77, 80, 84, 86 s.; L. Corvaglia, Ricognizione delle opere di Giulio Cesare Vanini, ibid., s. 3, XI (1957), p. 467; A. Corsano, Per la storia del pensiero del tardo Rinascimento, II: G.C. Vanini, ibid., XII (1958), pp. 204 s., 207 s., 210, 212, 238; E. Namer, Documents sur la vie de Jules-César Vanini de Taurisano, Bari [1965], passim; A. Corsano, G.C. Vanini ed Enrico Silvio, in Giorn. critico della filosofia italiana, s. 4, I (1970), pp. 211, 214 s.; F. De Paola, Nuovi documenti vaniniani, in Boll. di storia della filosofia dell'Università degli studi di Lecce, I (1973), pp. 353-397, passim; Id., Altri documenti vaniniani, ibid., V (1977), pp. 267-314 passim (l'epitalamio del G. alle pp. 294-314); G. Spini, Ricerca dei libertini. La teoria dell'impostura delle religioni nel Seicento italiano, Firenze 1983, ad indicem.