BONFIGLIO (Bonusfilius, Bonifilius)
Giurista pavese, fiorì nella prima metà del secolo XI. Il suo nome figura tra i sette maggiori giuristi della scuola di Pavia, di cui la Expositio ad Librum legis Langobardorum, altrimenti nota sotto il titolo di Expositio ad Librum Papiensem, ha curato di tramandarci la fama, quasi a somiglianza dei sette sapienti dell'antica Grecia. Gli altri sono Bagelardo, Gualcosio, Guglielmo, Lanfranco, Sigifredo e Ugo. Fu uno, quindi, dei celebri giuristi che svolsero opera d'interpretazione sulle leggi longobarde e il Capitolare italico, in età prebolognese, tra la seconda metà del secolo X e la seconda metà del secolo XI, e che si distinguono in due più importanti indirizzi, quello degli antiqui e quello dei moderni.
Dalle ricerche compiute dal Boretius sappiamo che B. compare per lo piùnei placiti imperiali di Enrico II e di Enrico III, tra gli anni 1014 e 1055. Egli assunse il nome di "Bonusfilius" o di "Bonifilius" con la designazione della funzione con la quale interviene ai placiti e cioè di "iudex sacri palacii". Anzi, a dire il vero, in un placito tenuto nel 1047 "ad Sanctum Marotum, in comitatu Firmano", egli si firma al terzo posto, immediatamente dopo l'imperatore ed il suo "cancellarius": "Ego Bonifilius imperialis iudex et Papiensis interfui", mentre dopo, in altri atti, riassumerà il titolo di "iudex sacri palacii". C'è da credere che l'espressione "Papiensis" sia da intendere, come nel caso di altri giuristi dell'epoca e dopo di questa, dichiarativa della sua origine e non tanto della sua attività d'interprete della scuola di Pavia.
Il ricordo del suo nome ricorre in dodici luoghi della Expositio e precisamente ai capitoli di Rotari 124; 47,3; 153,1; 200,1; di Grimoaldo 2,1; di Liutprando 12,3; di Carlo Magno 129,1 e 2; di Guido 6,23 e di Ottone 1, 1,9; 4,4 e 5. Si tratta di dodici citazioni che raffigurano quasi sempre il giurista nell'atto di contendere con altri giuristi come Guglielmo, Bagelardo e lo stesso Lanfranco. La polemica si rivela sempre cortese, tranne in un caso, sia che si tratti di una vera e propria contentio, e quindi di una contesa per la valutazione di elementi di fatto, ovvero di una questio o di un insieme di questiones che sfiorano gli apici della dottrina giuridica del tempo.
Particolare rilievo assume per noi una questio che gli fu proposta da Lanfranco, divenuto dopo il 1070 arcivescovo di Canterbury, quando era, molto probabilmente, adolescens: sull'età, quindi, dei 25-28 anni ed in tempo per essere ricordato dal suo discepolo Milo Crispino nell'atto di riportare vittoria proprio sui veterani "in actionibus causarum". Il vecchio "iudex Bonifilius", sollecitato da Lanfranco a indicargli una legge che convalidasse una consuetudine da lui affermata propriamente in materia processuale sulla ostensio chartae, finì, in quell'occasione, per non poterne citarre alcuna, mentre Lanfranco chiudeva la questio dimostrandogli che la consuetudine citata era contra legem secondo il prologo delle leggi di Ottone I e dall'imperatore addirittura definita "mos detestabilis in Italia improbusque non imitandus".
B., di fronte alla prontezza e alla sicurezza della citazione fattagli con estrema franchezza dal giovanissimo Lanfranco, rimase turbato e tale dovette essere lo smarrimento che egli subì per la inattesa contestazione d'ordine etico-giuridico, che di lui e soltanto di lui, fra tutti gli insegnanti della scuola di Pavia l'expositor rammenta che "vultu verecundo et inclinato capite recessit". C'è da pensare, anzi, che questo suo "recedere" sia stato decisivo non soltanto di fronte alla momentanea penosa soluzione della questione, ma riguardo all'insegnamento e alla scuola. Egli, ormai, aveva fatto il suo tempo. Le questiones, infatti, che Lanfranco avrà con altri iudices della scuola di Pavia non riguarderanno più B., ma saranno rivolte ai discipuli Bonifilii.
Con questo accenno alle dispute che sostenne e che riguardano istituti di particolare importanza, quali la libertà, gli sponsali, il deposito, le successioni, il furto, le lesioni personali, l'omicidio, il processo per ostensio chartae, i rapportitra consuetudine e legge, è da ritenere che egli per criteri di scelta e per metodo non sia affatto da annoverare tra gli antiqui, come con una certa disinvoltura afferma la maggior parte degli studiosi ripetendosi a vicenda. Ben a ragione il Merkel, oltre un secolo fa, pose B. insieme con Guglielmo in un momento di transizione di tendenze di scuola, e cioè di mezzo tra gli antiqui e i moderni. Questo, secondo noi, è ampiamente attestato da molteplici motivi che emergono dalla impostazione delle questiones e delle contentiones, nelle quali egli compare con una nota di individualità tutta propria. Nella famosa contentio, ad esempio, sul cap. 152 di Rotari, che riguarda la successione legittima, e che Bagelardo voleva forzare nella interpretazione del testo genuino per seguire le esigenze del tempo, B., invece, pur adottando la impostazione (storicamente non erronea) data dagli antiqui, che cioè il cap. 152 di Rotari concernesse solo la successione agnatizia, se ne distacca mostrando una piena e reale comprensione dei motivi storici che avevano portato alla modificazione della norma. B., infatti, avverte che la stessa norma, nonostante le contraddizioni prospettategli da Bagelardo, si doveva conchiudere nel senso che le era proprio, e cioè di escludere le donne longobarde dalla successione. Rotari soltanto in un secondo momento, "pietate commotus", ammise per "subsequentes leges" le figlie e le sorelle alla chiamata alla successione in concorrenza con i parenti. Incidentalmente, ma non senza una qualche riflessione sulla diretta relazione che corre tra la Expositio ed il testo della discussione effettivamente avvenuta tra B. e Bagelardo, qui si avverte che la espressione "pietate commotus" realmente dovette essere proferita da B. e rientrare nell'ordine di espressione del suo pensiero. Infatti in un placito, tenuto da Enrico III "extra urbem Ravennae in palatio imperiali" il 7 apr. 1047, il "clementissimus Augustus", sedendo nell'atto di rendere giustizia a tutti, trascorsi i termini, che erano stati fissati per la definizione di una causa, e, data la insistente contumacia della controparte, "pietate commotus" immette nel possesso del castello di Polenta l'abate del monastero di S. Giovanni Evangelista, e B. "iudex Papiensis" è presente tra i personaggi che fanno corona all'imperatore. Ora, l'andamento dell'atto conformato sulla base dell'interessamento imperiale di rendere giustizia, sia pure nel caso concreto, ha una curiosa e discreta assonanza con quanto espone B. a proposito di Rotari, che si decise "pietate commotus" a rendere giustizia legislativamente alle donne, chiamandole alla successione in determinati casi. L'identità della formula e il motivo della sua ispirazione, sentenziale in un caso, legislativo nell'altro, fanno comunque pensare ad un diretto intervento personale e al suggerimento di essi da parte di B., mentre confermano il valore della contentio avvenuta tra Bagelardo e B. con la vittoria di questi, che dall'expositor è presentato per ultimo ad interloquire nella particolare, tormentata diatriba.
Oggigiorno, con l'ammissione che la critica storico-giuridica ha fatto di successive aggiunte alla presunta unità legislativa originaria dell'Editto di Rotari, la tesi di B. ha il sapore di una intuizione e di una dimostrazione della struttura e costruzione storica dell'Editto di Rotari veramente eccezionale. Ciò è tanto più vero, quando si avverta che la vera genuina norma di diritto successorio longobardo, accolta in questa gawarfide, escludeva, come testimoniano gli studi in argomento, la donna dalla successione.
Il temperamento a questa norma consuetudinaria risalentissima avvenne poi, come osserva B., con le ulteriori disposizioni di Rotari nei capitoli 158-161e continuò, come aggiungiamo noi, con le disposizioni di Liutprando nei capitoli 1-5, 14, 145, con il capitolo 10 di Astolfo, fino a che si giungerà con l'expositor ad ammettere alla successione anche i cognati alla pari degli agnati, e ciò in base al diritto novellare di Giustiniano.
Qualche volta vediamo che B. nella interpretazione delle leggi longobarde compie ed ha compiuto un notevole passo innanzi in confronto degli antiqui edegli antiquissimi. Essi, infatti, erano sempre rimasti attaccati al testo della legge, soprattutto quando questa corrispondeva ad una antiqua littera, nonostante qualche duro strappo avvenuto già nell'epoca carolingia nella revisione dei testi delle leggi germaniche, come è stato da me dimostrato per il testo degli editti dei re longobardi (G. Moschetti, Primordi esegetici sullalegislazione longobarda..., Spoleto 1954, pp. 143 ss.). Nell'epoca degli antiqui si tendeva, invece, a dar credito al testo, che non poteva essere discusso nella sua dizione, quasi questa facesse parte di un criterio d'ordine universale non alterabile. B., seguendo un impulso d'ordine critico, che rivela anche in questo la sua autonomia dagli antiqui, sente la necessità di sottoporre il testo ad un vaglio personale, ed anche quando esso corrisponde ad una antiqua littera lo corregge, se trova giuridicamente logico emendarlo. In tal maniera egli si distacca dagli antiqui e anticipa il movimento della più libera interpretazione delle norme longobarde, che successivamente avverrà con maggiore sistematicità con i moderni. Un esempio si riscontra nella Expositio al cap. 2 di Grimoaldo in tema di usucapione della libertà con il trascorrere di un periodo trentennale. L'expositor trova opportuno richiamarsi al cap. 55 del Capitolare di Ludovico il Pio annotando che il passo: "sed si de ingenuo patre et matre sunt nati, aut cartam ostendant" era stato chiarito da B. sulla littera antiqua che dava "aut" invece di "et", attraverso la correzione: "sed Bonifilius dicitur apposuisse et loco aut". La sua lettura parve immediatamente migliore di quella offerta dai codici, tanto che Guglielmo confermò la dizione data da B. come quella da doversi accettare.
Di particolare rilievo, per il suo tempo, è la posizione assunta da B. riguardo alla figura del depositario che, appropriatosi della cosa depositata, nel giudizio per pugnam stabilito dal cap. 4 del Capitolare di Ottone I, rimanga convictus, e, quindi, rispetto ad un istituto come quello del depositum, che, salvo una speciale disposizione di re Liutprando che lo concerneva (cap. 131 dell'anno 733), denotava una arretratezza di norme che male si adattavano all'importanza che esso veniva assumendo con lo sviluppo della civiltà commerciale del sec. XI.
Il capitolo ottoniano (dell'anno 967) si esprimeva per di più in una norma imperfetta, in quanto non stabiliva alcuna sanzione, e B. pone il suo ingegno nel cercare di superare tale difficoltà di pratica applicazione del testo, studiando il modo con cui si poteva giungere alla soluzione dell'obbligazione di componere debitum. Egli inquadra la fattispecie nel sistema giuridico del tempo, secondo cui si stabilirebbe una sanzione diversa per il depositario longobardo e per quello romano, poggiando la sua teoria sul principio della personalità della legge. Nel primo caso, il depositario longobardo si sarebbe dovuto attenere al disposto del cap. 151 di re Liutprando "sicut ille qui res alienas malo tulit", mentre il depositario romano avrebbe dovuto comporre pro furto in analogia al disposto delle Istituzioni di Giustiniano, 2.1.16.
In tutto questo si scorge il tentativo da parte di B. di sussumere la fattispecie di un negozio giuridico, non altrimenti prevista dalle leggi longobarde, secondo una impostazione di carattere generale, che tende cioè a superare le difficoltà della singola norma secondo un criterio d'ordine teorico e scientifico. Si tratta, come si vede, di uno sforzo d'interpretazione, che, pure basandosi sopra il principio inedievale della personalità della legge, mirava a togliere le lacune della legge e recare la certezza del diritto.
Non sappiamo quanto abbia prevalso questa dottrina, ma è certo che i sapientes della stessa generazione di B., tra cui Guglielmo, e un po' più tardi suo figlio Ugo, impugnano questa soluzione dimostrandone tutta la fragilità, giacché il cap. 151 di re Liutprando, citato da B. per analogia, non tratta del deposito, ma "de rebus ablatis", e similmente il passo delle Istituzioni si riferisce al furto di animali da cortile. Guglielmo e Ugo, contestando il principio dell'analogia, di cui cercava di avvantaggiarsi B. e giovandosi, invece, del criterio già diffuso dalla dottrina degli antiqui che la lex romana si deve considerare come lex omnium generalis (cfr. Expositio ad Wid., cap. 5, 4), quale regolatrice di rapporti non previsti o non completamente regolati dalla lex longobarda, sostengono che nella fattispecie presa in esame i depositari, sia romani sia longobardi, ricadono sotto le sanzioni delle norme contenute nel Codice di Giustiniano e delle Istituzioni.
Con questa visuale il depositum, attraverso la stessa scuola longobardistica, si appresta ad uscire dalla stretta sfera degli istituti regolati dalle leggi personali e ciò è dovuto soprattutto alla più ampia applicazione che esso viene assumendo con le necessità dei traffici e l'esigenza della tranquillità dei rapporti della nuova società, che non può più fondarsi sulla ormai antistorica e tempestosa problematica delle leggi personali.
La critica e l'urgenza della nuova realtà della vita hanno demolito la teorica del deposito sostenuta da B., ma a lui spetta il merito di aver agitato il problema e di aver cercato una soluzione d'ordine superiore, come era nell'ansia del suo spirito di vedere oltre le disposizioni delle singole norme.
Fonti e Bibl.: Expositio ad Librum legis Langobardorum Papiensem dictum, ed. A. Boretius, in Mon. Germaniae Hist., Legum, IV, Hannoverae 1868, pp. 290 ss.; G. Merkel, Appunti per la storia del diritto longobardo, in F. Savigny, Storia del diritto romano nel Medio Evo, trad. ital. di E. Bollati, Torino 1859, III, Appendice, pp. 11-16, 29-49; A. Boretius, Praefatio ad Librum Papiensem, in Mon. Germ. Hist., Legum, IV, Hannoverae 1868, pp. XCIV-XCV; A. Pertile, Storia del diritto italiano dalla caduta dell'Impero romano alla codificazione, I, Storia del diritto pubblico e delle fonti, Torino 1896, pp. 399 s.; F. Schupfer, Manuale di storia del diritto italiano. Le fonti. Leggi e scienza, Città di Castello 1904, pp. 242-259; E. Besta, La Expositio al Liber Papiensis, Pisa 1911, pp. 82-87; Id., Fonti, in Storia del diritto italiano, a cura di P. Del Giudice, I, 1, Milano 1923, pp. 317-319; G. Astuti, Lezioni di storia del diritto italiano. Le fonti. Età romano-barbarica, Padova 1953, pp. 361-376; F. Calasso, Il Medio Evo del diritto, I, Le fonti, Milano 1954, pp. 305-315; P. S. Leicht, Storia del diritto italiano. Le fonti, Milano 1956, pp. 91-99; B. Paradisi, Storia del diritto italiano. Le fonti dal sec. X fino alle soglie dell'età bolognese, III, Napoli 1966, pp. 401-417.