FIESCHI, Bonifacio
Nato in data imprecisata nella prima metà del sec. XIII da Ugolino, apparteneva al ramo parmense della famiglia dei conti di Lavagna, meno conosciuto di quello genovese dal quale discendevano invece Innocenzo IV e i cardinali Guglielmo, Ottobono (papa Adriano V) e, più tardi, Luca.
Sono state proposte diverse ipotesi genealogiche per stabilire un legame tra i due gruppi familiari. Da queste proposte emerge però che la parentela dei Fieschi di Parma con i Fieschi di Genova, che pure sembra evidente, non è documentata da nessuna fonte in modo chiaro: Per quel che riguarda il F., nonostante i suoi parenti e nipoti si individuino abbastanza bene nei documenti, è difficile distinguere i suoi antenati, poiché nella famiglia ricorrono spesso gli stessi nomi, anche nella medesima generazione. Il F. aveva almeno due fratelli, Ugolino, arcidiacono di Parma e canonico di Meaux, e Guido, conte di Lavagna, detto anche Guido di Codonio dal suo feudo vicino a Parma, e padre di Bella, Margherita e Saladino. Il fatto che il F. avesse anche un altro nipote, Opizzo di Lavagna, studente a Bologna e nominato tra gli eredi nel testamento, potrebbe fare pensare all'esistenza di un terzo fratello. Era suo nipote ed erede anche Tedisio di Canali, canonico di Meaux, il che lascia presumere che una sorella del F. avesse sposato un membro di questa nota famiglia parmense. A questo gruppo di parenti bisogna aggiungere Francesco di Lavagna, camerario del F. quando era arcivescovo di Ravenna, anche se i legami di parentela non sono chiari. Lo stesso vale per Guido di Canali, investito di un canonicato a Meaux, e per Antonio e Ugerio di Codonio, entrambi notai ed appartenenti al seguito del Fieschi.
Le poche informazioni sulla vita del F. prima della sua nomina ad arcivescovo riguardano il suo ingresso nell'Ordine domenicano, deciso, come afferma il Federici, contro il parere di papa Innocenzo IV. Testamento e atto di donazione mostrano quanto fosse legato al convento di S. Savino a Piacenza e al convento di S. Giacomo a Parigi. A quest'ultimo lasciò in eredità tutti gli oggetti posseduti prima che diventasse arcivescovo il che potrebbe far pensare che il F. vi avesse compiuto i suoi studi. Nel 1273 il F. seguì papa Gregorio X a Lione dove si sarebbe tenuto il II concilio generale e nel 1275 accompagnò il cardinale Pietro di Tarantasia, vescovo di Ostia e futuro papa Innocenzo V, nella legazione inviata a Filippo l'Ardito di Francia.
Durante il viaggio di ritorno in Italia dopo il concilio, a Beaucaire nel settembre 1275 il papa decise di provvedere alla sede di Ravenna rimasta vacante da quando era morto l'arcivescovo Filippo da Pistoia nel 1270. Nonostante Clemente IV avesse precedentemente riservato alla S. Sede la nomina del successore, il capitolo aveva eletto due candidati, Percivalle Fieschi, fratello del cardinale Ottobono, e Ruggero Ubaldini, arcidiacono di Bologna, appartenente alla famiglia del cardinale Ottaviano Ubaldini, il cui nipote omonimo era allora vescovo di Bologna. Gregorio X annullò la doppia elezione e nominò il F., apparentemente d'accordo col Sacro Collegio.
In un primo momento il F. mandò un procuratore, Filippo di Pomonte, a prendere possesso dei beni della mensa arciepiscopale con l'aiuto, richiesto dal papa, dei vescovi di Pavia e di Comacchio e del notaio pontificio Benedetto Caetani. Ma la morte di Gregorio X nel gennaio 1276 mise il nuovo arcivescovo in una situazione precaria che incoraggiò le speranze dei due candidati scartati. Innocenzo V intervenne in modo decisivo, confermando la nomina fatta dal suo predecessore e il mandato ai due vescovi suffraganei; oltre a ciò accordò al F. la giurisdizione sui benefici vacanti della sua diocesi solitamente riservati alla S. Sede. Infine nel 1276 il F. ricevette il titolo di legato con il quale è ricordato fino al pontificato di Niccolò III.
Le bolle pontificie mostrano infatti che la vacanza prolungata della sede vescovile, che possedeva uno dei più grandi patrimoni fondiari d'Italia, aveva incoraggiato molte alienazioni. Uno dei primi compiti che attendeva il nuovo presule era infatti quello di ristabilire la Chiesa di Ravenna nei suoi beni e diritti. Questa lenta riconquista del patrimonio ravennate occupò buona parte dell'episcopato del F., ma il suo intervento rimase debole, poiché era costantemente contrastato da ambizioni comunali, lotte dei partiti, guerre, impedimenti giuridici. Le tappe della ricostruzione del patrimonio erano strettamente legate alla sorte dei Comuni, alle alterne vicende della lotta tra guelfi e ghibellini e, anche pur in grado minore, all'intervento delle autorità pontificie.
Lo stile personale del F. fu chiaro sin dai primi anni in cui si trovava in Romagna: si impegnò, sembra con successo, a conquistarsi la fiducia dei membri del capitolo di Ravenna e delle élites comunali, scelse collaboratori fidati nel contesto delle proprietà che doveva amministrare privilegiando i componenti del suo più stretto seguito familiare. La stabilità che caratterizza le cariche conferite ai suoi diretti collaboratori e la preferenza manifestata dagli amministrati per la giurisdizione episcopale contro l'invadenza degli amministratori pontifici danno un'idea della stima di cui godeva e dei successi raggiunti.
I suoi primi atti sono significativi. Nel gennaio 1276 fu riconosciuto arbitro dai Comuni di Ravenna e Rimini. Un primo accordo nel 1277 con Obizzo d'Este e il Comune di Ferrara gli permise di recuperare Argenta, sede della curia, tradizionale centro dell'amministrazione diocesana. Nel 1278 cedette una parte del patrimonio a Matteo da Fogliano riprendendo la tradizione dell'enfiteusi concessa ai Traversari dei quali Matteo era l'erede. Nel corso del sinodo provinciale di Imola, nel gennaio 1279, riuscì a mobilitare tutti i suoi suffraganti nella lotta contro l'alienazione dei beni ecclesiastici. Gli interventi del legato Latino Malabranca e del rettore Bertoldo Orsini in questo stesso anno, gli permisero di frenare le ambizioni del Comune di Rimini e di recuperare il castrum di Lugo. Infine la restituzione al legittimo proprietario del palazzo arcivescovile di Ravenna, "ceduto" nel 1280 dal Comune al suo proprietario, testimonia delle buone relazioni esistenti tra le due autorità locali.Il pontificato di Martino IV segnò un cambiamento di rotta. Il papa era deciso a lottare con tutte le sue forze contro Guido da Montefeltro e i ghibellini di Romagna. Il F. partecipò attivamente a questa nuova politica. Il nuovo rettore in temporalibus, Jean d'Eppe, consigliere di Carlo d'Angiò, riconquistò una dopo l'altra tutte le piazzeforti occupate da Guido da Montefeltro dopo la disfatta dei guelfi a San Procolo (1275), cioè Cervia, Comacchio e Faenza. Il F. esercitò anche la carica di podestà in due castra recuperati: a Bagnacavallo nel 1283 e a Castrocaro nel 1284. Dopo la presa di Meldola e Forlì, la disfatta di Guido fu consacrata dalla solenne condanna pronunciata da Martino IV contro di lui nel 1284. Ne approfittarono soprattutto i Polentani ai quali il F. si era appoggiato favorendone l'accesso alle cariche comunali. Inoltre il papa nel 1283 cedette loro alcuni beni confiscati per ringraziarli del loro aiuto. Il Parlamento di Imola, convocato dall'Eppe e da G. Durand, vicario "in spiritualibus", ratificò in presenza del F. i risultati acquisiti, frutto di una collaborazione tra le forze presenti sul posto, locali e curiali, guelfe e angioine. Il bilancio poteva sembrare positivo, ma era in realtà precario.
Negli anni 1285-1286, nel pieno esercizio delle sue prerogative, il F. intervenne nella vita della provincia concedendo alla società degli Ammannati di Pistoia il diritto di zecca a Ravenna per tre anni. Questo privilegio, che apparteneva agli arcivescovi, avrebbe dovuto favorire il commercio di Ravenna in concorrenza con Venezia. Inoltre, per evitare una nuova aggressione, si adoperò affinché il Comune di Faenza stipulasse un accordo con i Malatesta e i da Polenta, accordo che fu firmato in sua presenza. Nello stesso periodo donò al capitolo di Ravenna un terreno alle porte della città, del quale fissò con precisione l'utilizzo delle rendite. Ad Argenta fece distribuire il grano dai granai della sua curia e nel 1293 fondò l'o"spedale della Misericordia a Ravenna, conquistando così quella fama di generosità che si diffuse dopo la sua morte. Il sinodo di Forlì (luglio 1286) testimonia, con la presenza di sette vescovi suffraganei, l'autorità riconosciuta al F. in tutta la sua diocesi.
Accanto alle misure disciplinari riguardanti la vita dei chierici il F. cercò di ristabilire l'immunità ecclesiastica e la giurisdizione penale dell'arcivescovo. Queste rivendicazioni, che si basavano su antichi privilegi imperiali, avevano lo scopo di difendere i diritti della Chiesa di Ravenna più nei confronti del rettore pontificio che dei Comuni; almeno è questa l'impressione che si ricava dai due atti attraverso i quali, in assenza del F., il suo camerario rivendicò il diritto di giudicare due criminali già arrestati, uno dei quali era stato già giudicato dai magistrati del rettore (1288).
Alla fine dell'anno 1286, il papa Onorio IV nominò il F. e l'arcivescovo di Monreale, Pietro Guerra, nunzi in Francia e in Spagna per assistere nel nome della S. Sede, all'arbitrato del re d'Inghilterra nel conflitto tra il re francese e quello aragonese apertosi in seguito al Vespro siciliano e alla cattura del principe di Salerno, il figlio di Carlo d'Angiò. Il F., prevedendo che la sua assenza si sarebbe protratta a lungo, confermò la donazione fatta al capitolo nel 1284, e nominò un vicario, lasciò al suo camerario Guardino il disbrigo degli affari di ordinaria amministrazione ad Argenta. La missione in Francia infatti si concluse solo nel 1289.
I due nunzi lasciarono l'Italia nel novembre 1286, muniti del pieno potere di accettare e firmare in nome del papa la tregua che Edoardo I avrebbe proposto ai re di Francia e di Aragona, le cui condizioni erano fissate dal papa. La morte di Onorio IV interruppe i negoziati, sempre che fossero iniziati, e il F. nel novembre 1287 era a Béziers, in attesa dell'elezione del nuovo papa. I negoziati ripresero con l'elezione di Niccolò IV nel marzo 1288, secondo i nuovi orientamenti della diplomazia pontificia che puntava soprattutto alla liberazione di Carlo d'Angiò. A questa data i due nunzi si incontrarono con Edoardo I a Bordeaux, dove il F. fece testamento "anche se si trovava in buona salute". A novembre, a Oloron in Béarn, venne firmato l'accordo sulle condizioni della liberazione di Carlo. A dicembre mentre si preparava a tornare in Curia, il F. si ammalò a Tolosa, dove si trovava privo di risorse economiche. Verso aprile o maggio 1289 Edoardo I gli inviò dei fondi, e altri arrivarono dalla Curia; in Romagna una tassa speciale fu riscossa per lui in agosto. Dopo il loro ritorno i due nunzi probabilmente soggiornarono per qualche tempo nella Curia pontificia. La presenza del F. in Romagna, infatti, è attestata solo nell'ottobre 1289.
La situazione che il F. trovò al suo ritorno in Romagna si era molto evoluta: i rapporti tra gli ufficiali pontifici e i loro amministrati erano andati sempre più deteriorandosi sotto l'effetto del rinforzarsi dell'autonomia comunale e delle pressioni esercitate dalle due famiglie in grande ascesa, i Malatesta e soprattutto i Polentani. Già nel 1286 Pietro Stefaneschi, cugino di Onorio IV, aveva suscitato l'ostilità generale che aveva preso la forma di una lega, che il rettore affrontò militarmente; e nel contempo le misure fiscali erano sempre meno sopportate. Stefano Colonna, che gli successe come rettore sotto Niccolò IV nel 1289, si trovò a fronteggiare un rifiuto categorico di pagare la tallia militum che gli avrebbe permesso di mantenere una guarnigione militare. Questa era la posizione e lo stato d'animo dei partecipanti al Parlamento di Forli, al quale fu presente il F. nell'ottobre 1289. Non si sa quale fu la sua reazione alla notizia della cattura del rettore e della sua familia nel novembre 1290 a Ravenna, ma è chiaro che disapprovò il trasferimento a Pietro Colonna disposto dal rettore dei beni dei Traversari che lo stesso aveva ceduto in enfiteusi a Matteo da Fogliano, erede dei Traversari. La cattura del rettore, incoraggiò immediatamente i Comuni a riprendersi la loro libertà e creò discredito e confusione, costringendo il papa a farvi fronte con la nomina di Ildebrandino da Romeno, vescovo di Arezzo, come rettore della provincia.
In un primo tempo la dura repressione produsse gli effetti attesi: la liberazione di Stefano Colonna e dei suoi compagni e il pagamento di 3.000 fiorini d'oro, la cui garanzia impegnava la maggior parte dei Comuni di Romagna. Tuttavia l'opposizione al rettore non tardò a manifestarsi nuovamente sotto diverse forme, fino a provocare l'isolamento di Ildebrandino, che cercò appoggio presso i Bolognesi e il Fieschi. Il vescovo di Arezzo annullò pubblicamente le sentenze contro l'arcivescovo e il suo camerario, in ringraziamento per l'aiuto che il F. gli aveva portato. In questo frangente sembra che il F. abbia tenuto un atteggiamento assai cauto, per difendere i suoi amministrati dal peso delle tasse e per evitare di prendere posizione contro i rappresentanti pontifici, tranne quando si trattava di proteggere i suoi beni o i suoi diritti.
Dopo la partenza di Ildebrandino, nell'ottobre 1294, il F., si recò alla Curia presso Celestino V, ma sulla strada del ritorno si spense nel castello di Oriolo, presso Faenza il 24 dic. 1294.
Tre documenti contengono le disposizioni prese dal F. in previsione della sua morte. Il suo testamento, redatto a Bordeaux nel marzo 1288 e confermato ad Argenta nel luglio 1290, elenca i suoi beni in Italia e in Francia che sarebbero stati affidati a due gruppi di esecutori testamentari. I legatari erano soprattutto Ordini religiosi: domenicani, francescani, cistercensi, con una netta prevalenza dei domenicani; seguivano il fratello Guido, conte di Lavagna, e la sua familia. Una clausola speciale riguardava Guido da Polenta, che doveva assumere l'amministrazione di Argenta (cioè della curia arcivescovile) durante la vacanza che avrebbe fatto seguito alla sua morte.
Facevano parte del lascito libri di diritto, vasi d'argento, la sua casa e del denaro. Già al momento del suo ritorno in Romagna il F. aveva stipulato un atto con la società degli Scotti a Pistoia, atto con il quale lasciò una somma di denaro in deposito alla stessa società, in favore di suo fratello Ugolino e dei suoi tre nipoti, Opizzo di Lavagna, Tedisio di Canali e Saladino di Lavagna, figli dell'altro suo fratello Guido: il tutto in modo che, in caso di decesso degli eredi, il denaro rimanesse agli Scotti e fosse ceduto in ultima istanza al maestro generale dei domenicani. In un altro documento ancora, il F. aveva espresso la volontà che tre mesi dopo la sua morte fosse affidata a Opizzo di Lavagna a Bologna una serie di ornamenti e vasi sacri.
Due sono gli aspetti più importanti della politica seguita dal Fieschi. Uno riguarda l'amministrazione del patrimonio arcivescovile ravennate, frutto di un paziente e costante sforzo di ricostruzione, della cui conservazione e integrità egli si era preoccupato. Il secondo riguarda i suoi rapporti con la famiglia dei Polentani, in un primo tempo da lui sostenuta, la cui ascesa alla signoria negli ultimi anni non aveva potuto però frenare. Si nota inoltre la preferenza del F. per le persone originarie della provincia e gli appartenenti alla sua familia più stretta, mentre si coglie una certa indifferenza nei confronti dei rappresentanti dei Fieschi di Genova ancora potenti in Curia, Percivalle, Alberto, Leonardo e Brancaleone.
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Si veda ancora: H. Rubei, Historiarum Ravennatum libri decem, Venetiis 1590, pp. 448-486; F. Federici, Della famiglia Fiesca, Genova [1646], p. 21; G. Fabri, Le sagre memorie di Ravenna antica, Venetiis 1664, pp. 508-510; I. A. Amadesii In antistitum ... cit., III, pp. 57-59; F. Ughelli-N. Coleti, Italia sacra, II, Venezia 1717, p. 381; G. Levi, Aica Traversari. Anedoto Salimbeniano, in Atti e mem. della R. Deputaz. di storia patria per le prov. modenesi, s. 3, V (1887), pp. 466 s.; F. Bernini, Innocenzo IV e il suo parentado, in Nuova Rivista storica, XXIV (1940), p. 180; A. Torre, Le controversie fra l'arcivescovo di Ravenna e Rimini nel sec. XIII, in Studi romagnoli, II (1951), pp. 333-355; G. Rossini, Un'antica controversia per il possesso di Lugo e S. Polito, ibid., III (1952), p. 117; A. Torre, Le contese fra gli arcivescovi di Ravenna e Cesena nel sec. XIII, ibid., V (1954), pp. 427-442; R. Davidsohn, Storia di Firenze, II, Firenze 1956, pp. 122, 405; A. Vasina, L'elezione degli arcivescovi ravennati del sec. XIII nei rapporti con la Santa Sede, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, X (1956), pp. 49-89; A. Torre, Gli arcivescovi di Ravenna e il monastero di S. Ellerio di Gallatea, in Studi romagnoli, X, (1959), pp. 97-113; A. Vasina, I Romagnoli fra autonomia cittadina e accentramento papale nell'età di Dante, Firenze 1960, pp. 12, 37-40, 48, 52-57, 64, 75 s., 83, 103, 108, 122, 132-140, 151, 154, 179, 209, 229-232, 244-248, 250, 254 s., 298; A. Torre, I Polentani fino al tempo di Dante, Firenze 1966, pp. 69 s., 74-77, 83-88, 90, 93-95, 98-100, 107, 113-117, 119 s., 123, 128, 135, 170; A. Sisto, Genova nel Duecento. Il capitolo di S. Lorenzo, Genova 1979, pp. 87-89; Storia di Ravenna, III, Dal Mille..., a cura di A. Vasina, Venezia 1993, ad Ind.; Dict. d'hist. et de géogr. eccl., XVI, coll. 1430-32.