Bonifacio (Bonifazio) VIII
Non pare che prima del 1280 l'alto prelato, non ancora cardinale, Benedetto Caetani (il futuro B., nato ad Anagni verso il 1235) sia entrato in qualche connessione con Firenze, e quindi con l'ambiente dantesco. Può essere che, per avere condotto nel 1280, insieme col cardinale Matteo Rosso Orsini, le trattative fra Carlo I d'Angiò e Rodolfo d'Asburgo, egli avesse acquisita qualche notorietà presso i Fiorentini, interessatissimi a quelle trattative, dato che il re dei Romani, per più di un segno, intendeva far valere i diritti dell'Impero sulla Toscana, in evidente contrasto con l'Angioino, che ne era vicario imperiale, ma per nomina papale, visto che il papa si sentiva autorizzato a farlo per il tempo in cui l'Impero rimanesse vacante. Ma non è più che un'ipotesi.
Poi, per un decennio, non pare che l'attività, pur molto intensa, del nuovo cardinale (dal 23 marzo 1281) toccasse gl'interessi fiorentini né che su di lui fosse particolarmente richiamata la loro attenzione. La situazione cambia dal 1291. Il 10 luglio di quell'anno Niccolò IV incaricava il cardinale Caetani di assumere la procura di Margherita Aldobrandeschi, - la " contessa rossa, dai molti mariti e dalle molte tresche " (Dupré) - e il controllo della regione, cioè di una regione della Toscana meridionale che rientrava negli interessi politici fiorentini, in quanto variamente legata con l'azione politica ed economica (commercio del sale) con Orvieto e specialmente con Siena, e per riflesso anche con Firenze. Il cardinale Caetani già nell'aprile dello stesso anno 1291 è implicato, come delegato papale, nella politica in questa parte della Tuscia romana (ora nei rapporti con Viterbo). Sembra che la curia romana lo ritenga particolarmente versato nelle intricatissime vicende aldobrandesche, che ora e più poi come papa B. cercherà di sciogliere a profitto della sua casata.
Oscura è la parte da lui avuta sia nell'elezione, dopo lunghissima vacanza di ben 27 mesi (4 aprile 1292-5 luglio 1294) dell'eremita Pietro del Morrone (Celestino V), sia nell'abdicazione di lui, dopo appena cinque mesi di papato (12 dicembre 1294). Ove si consideri che principale promotore dell'elezione di Celestino V fu il cardinale Latino Malabranca, stretto parente degli Orsini, morto poco dopo, e che quindi quell'elezione poté essere interpretata come uno scacco della fazione opposta dei Colonna, non è improbabile che il cardinale Caetani, avverso ai Colonna per contrasti tra le due casate nella Campagna e nella Marittima, si schierasse a pro dell'eremita, ripromettendosi di manovrarlo a suo agio. Nel collegio cardinalizio si riproduceva la grande rivalità allora aperta per la Sicilia fra gli Angioini di Napoli e gli Aragonesi, favoriti i primi dalla fazione orsina, i secondi da quella colonnese. E infatti, pur nella sua totale inesperienza politica, l'azione di Celestino V in quei pochi mesi fu sostanzialmente filoangioina (e filo-francese), come si poté vedere nella grande elezione di cardinali del 18 settembre 1294: su 13 cardinali ben 7 erano francesi e 3 del regno di Napoli.
Pochi giorni dopo l'abdicazione di Celestino, già al terzo scrutinio, nel conclave tenuto significativamente a Napoli, il cardinale Caetani risultava eletto (23 dicembre 1294). L'orientamento filo-angioino attribuito al nuovo pontefice trova conferma anche nel fatto che, immediatamente dopo l'elezione, i governanti fiorentini si affrettano a rivolgersi al neo-eletto perché designi il podestà per il 1295. Il designato fu il romano Pietro Stefani, già stato podestà di Firenze nel 1280, il quale però, questa volta, non accettò l'ufficio. Ciò non toglie che Firenze continuasse a vedere nel nuovo pontefice un protettore: specialmente nel marzo-aprile 1295, contro la pretesa del vicario imperiale in Toscana, Giovanni di Chalon, il quale, tra l'altro, chiedeva anche la restituzione di diritti e di beni già da tempo, talvolta immemorabile, passati in mano del comune e di privati. La pretesa aveva suscitato nella città molta eccitazione: un'ambasceria era andata a Roma a trattare. Nel giugno, a ogni buon conto, in una dieta tenuta a Empoli, è rinnovata - anche contro lo Chalon - la lega delle città toscane guelfe. Nella faccenda si manifestò la rapacità, la prepotenza, la spregiudicatezza politica del nuovo papa, perché nel luglio 1295, lui pronubo, si venne, sì, a un accordo fra la lega guelfa e lo Chalon, ma la somma pattuita, di ben 80.000 fiorini, fu confiscata dal papa, con lo specioso argomento che, essendo l'Impero vacante (Adolfo di Nassau, re dei Romani, infatti non era stato incoronato) la somma spettava alla Santa Sede. Non c'è dubbio che in quell'imbroglio fossero interessati anche banchieri fiorentini: non per nulla proprio in quei giorni i fiorentini Spini e Mozzi e i pistoiesi Chiarenti erano nominati unici mercanti camerari della Chiesa. È oramai stretta un'alleanza di interessi fra questi ceti bancari fiorentini e il pontefice. Ora, questi ceti sono quelli stessi che a Firenze hanno condotto la lotta contro le riforme democratiche di Giano della Bella (gli Ordinamenti di Giustizia) e che ne hanno provocato il bando come ‛ seminatore di discordie ' (5 marzo 1295) e ottenuta un'attenuazione degli Ordinamenti stessi (6-7 luglio 1295). Sulla fine dello stesso anno, tuttavia, si manifesta in Firenze un movimento inteso a richiamare l'esule capo-popolo; ma B., sollecitato dai banchieri fiorentini, con una solenne bolla del 23 gennaio 1296, diffida i Fiorentini dall'insistere nel richiamo, che infatti non ha luogo.
Tuttavia, nonostante questi legami di interessi, non è che il papa sia poi sempre disponibile per il guelfismo del ceto magnatizio fiorentino, in cui quegl'interessi bancari erano largamente rappresentati: così, nell'aprile 1297, per quanto dissuaso dal governo fiorentino, egli accetta le richieste dei fuorusciti ghibellini di Prato e, fattosi arbitro, ottiene il ritorno di una parte almeno di essi. Ma sono momenti di eccezione. Sostanzialmente, l'intesa fra B. e i governi fiorentini del tempo regge costante. Così, apertosi il celebre conflitto fra il papa e i cardinali di casa Colonna (Pietro e Iacopo: maggio 1297), il Consiglio fiorentino dei Cento (26 giugno 1297) con larghissima maggioranza accede alle richieste del papa di concedere per due mesi (che poi divennero diciotto) un aiuto militare contro i Colonna, anche se poi, nelle proroghe, si manifesti una qualche maggiore resistenza. È probabile che questa resistenza alla politica papale, che era patentemente ispirata, anche e principalmente, a interessi della sua casata, trovasse voce nella fazione che sarà, in breve, detta dei Bianchi: è significativo che nell'azione condotta (maggio 1299) contro il malgoverno e la corruzione del podestà Monfiorito da Treviso, divenuto strumento della fazione di Corso Donati (dei Neri), il papa si schierasse a favore di quest'ultimo. Bandito Corso da Firenze, il papa lo nomina podestà di Orvieto e poi rettore della Massa Trabaria.
Sono questi gli anni in cui D. entra a partecipare alla vita pubblica della sua città. Ma non si hanno elementi per poter affermare che già in questi anni avesse preso fermo contorno nella sua mente e nel suo animo l'avversione alla politica papale, e non solo di quel papa, ma addirittura della Chiesa, tralignata in quanto potenza politica, e non solo spirituale. Impossibile dire, ad esempio, se fra quella opposizione nei Consigli fiorentini alla politica papale e a ogni concorso di uomini e di mezzi a essa da parte di Firenze, si debba iscrivere già ora anche Dante. Può darsi, ma resta molto ipotetico, che solo sui primi del 1300 gli si aprissero gli occhi: quando, cioè, il papa scoperse agli ambasciatori tedeschi di Alberto d'Asburgo un suo piano: avrebbe attenuato la sua opposizione al nuovo re dei Romani e soprattutto al suo recente accordo con l'odiato re di Francia Filippo il Bello (trattato di Vaucouleurs, dicembre 1299), se l'Impero avesse ceduto al papa i suoi diritti sulla Toscana, della quale il papa avrebbe voluto fare, pare, un regno per un membro della famiglia Caetani. A parte il fatto che gli ambasciatori prima e il re dei Romani poi si rifiutarono di entrare in quest'ordine di idee, c'era molto di chimerico in questo piano. Il parallelismo con la Romagna, ceduta dall'Impero al papa dal padre dell'attuale re dei Romani, non reggeva: del tutto diversi erano i presupposti storico-giuridici rispetto alle due regioni. Né si capisce perché il papa, se veramente voleva ritagliare un regno per uno della sua casata, non realizzasse questo piano con la Romagna, che già gli apparteneva, e non con la Toscana, che non era ancora della Chiesa. Se poi questo piano ebbe una certa consistenza, non è detto che i contemporanei in Toscana ne fossero a conoscenza e che uomini come D. potessero regolare su ciò la loro visione politica rispetto a Bonifacio. Altra cosa è il sospetto, anzi la certezza, che ci fossero dei legami fra il papa e i capi della fazione dei Donati (i Neri). Questo pensiero dovette essere presente ai governanti fiorentini, prevalentemente della fazione dei Cerchi (Bianchi) nella primavera del 1300. Altrimenti non si spiegherebbe come nell'aprile del 1300 mandassero a Roma un'ambasceria a indagare, in seguito alla quale furono condannati in contumacia tre Fiorentini residenti alla corte papale e protetti dal pontefice. Invano il papa chiese la revoca della condanna. Non perciò la situazione fra i governanti bianchi di Firenze e B. è ancora tesa: lo prova il fatto della missione di D. a San Gimignano e probabilmente in altre cittadine della Valdelsa per ottenere da esse l'aumento del loro contributo militare proprio a favore del pontefice, ma nella sua azione contro gli Aldobrandeschi di Maremma. Ma che le ambizioni del papa (resta da vedere se come papa o anche e principalmente come capo di casa Caetani) fossero senza limiti, Firenze doveva esperimentare proprio in quei giorni, in anticipo sui famosi punti della Unam Sanctam. Già in lettera al vescovo e all'inquisitore di Firenze del 15 maggio 1300, il pontefice affermava la suprema autorità papale su tutti gli uomini, e tanto più sulla Toscana, della quale si considerava vicario imperiale. Nell'incertezza sui piani del papa e sulle possibilità sue di realizzarli, si capisce come in Firenze crescessero i sospetti: che, cioè, il papa, sostenendo la fazione dei Neri, in realtà volesse aprirsi la strada per un dominio sulla città. Anche la missione apparentemente neutrale e pacificatrice del legato papale cardinale Matteo d'Acquasparta dava adito a sospetti: non si osa contrastarlo apertamente, ma si cerca in ogni modo di limitare quanto più possibile la sua ingerenza nel governo della città. Il 13 giugno 1300, alla vigilia dell'entrata in ufficio del priorato a cui appartenne anche D., i Consigli fiorentini cercano di restringere l'ingerenza giudiziaria del legato papale ai soli casi per i quali già la legislazione vigente assicurava all'inquisitore l'ausilio del braccio secolare (cioè ai casi di natura religiosa, non politica). Anche durante i due mesi del priorato di D. (15 giugno-15 agosto 1300) il contrasto latente col legato papale si manifesta: la proposta di lui di introdurre un nuovo sistema di elezione dei priori, che avrebbe favorito i Neri, incontrò la più ferma opposizione dei priori in carica e il colpo fallito di balestra contro il cardinale mostra quale fosse la tensione a Firenze in quei giorni. I priori si affrettarono a mandargli una commissione a scusarsi; ma nella sostanza, D. e i suoi compagni di priorato e quelli del priorato successivo tennero fermo; e il cardinale, infectis rebus, lasciò indignato la città, scagliando la scomunica contro i priori (non del priorato di D., ma del priorato successivo: fine settembre - primi ottobre 1300). Solo a novembre il papa si lasciò un poco rabbonire da un'ambasceria composta non solo di Fiorentini, ma anche di alleati guelfi dei Fiorentini, Bolognesi, Lucchesi, Senesi, ecc.
In realtà, in quei giorni i piani papali si erano allargati: si trattava non solo di piegare i protervi Fiorentini Bianchi, ma di tagliare netta la questione siciliana, dove Federico III d'Aragona, sostenuto dagl'isolani, rifiutava di abbandonare l'isola agli Angioini, conformemente ai patti di Anagni patrocinati dal papa. Strumento di questo vasto piano doveva essere il fratello del re di Francia, Carlo di Valois: piegare il governo dei Bianchi fiorentini era solo una parte di un programma più vasto. Il governo fiorentino cerca di giocare d'astuzia: si dichiara pronto a dare aiuti militari al papa per la guerra contro gli Aldobrandeschi e anche per la spedizione di Carlo di Valois in Sicilia, così sperando di stornare la minaccia papale sul proprio capo. Di fronte a nuove richieste del papa, nel giugno 1301, D. in Consiglio dei Cento si oppone: ma nella votazione rimane soccombente (44 voti contro 32). Non conosciamo le ragioni che ispirarono l'opposizione di D. e con lui di un certo numero di consiglieri. Si può supporre che preferissero un atteggiamento aperto di resistenza piuttosto che quella politica ambigua, che da un lato appoggiava il papa e dall'altro cercava con limitazioni e sotterfugi di togliere il concesso. Ma il momento era veramente difficile, specie nell'agosto 1301, quando Carlo di Valois, con un buon numero di armati, attraversò la Toscana, evitando però Firenze, avviato all'inutile impresa di Sicilia (che per ora non andò oltre Anagni). E proprio questo doveva impensierire i governanti fiorentini, che, cioè, quei contigenti militari fossero impiegati non contro la Sicilia, ma contro Firenze. A Roma, ai primi di settembre, il Valois ottiene fra i molti titoli anche quello, di ambigua interpretazione, di ‛ paciere della Toscana '. È in questo tempo o nell'ottobre successivo (1301) che cadrebbe l'ambasceria di D. presso B. (sulla quale molte sono le incertezze per la discutibile attendibilità delle fonti), ambasceria inviata da un priorato piuttosto scolorito, che si fa, con buona dose di ingenuità, interprete di una politica remissiva, pronto ad accogliere a Firenze il Valois, anche se circondato, o si direbbe piuttosto circuito, dai capi della fazione dei Neri, in parte ancora fuorusciti, in parte in città. Infatti, il 1° novembre 1301, il Valois entra in Firenze non con forze imponenti (pare non raggiungessero i mille cavalieri, che era sempre una forza ragguardevole per i tempi, e poi non fuori ma dentro la città) in una città divisa, non bene risoluta a difendersi. I Donateschi Neri hanno buon gioco: sotto gli occhi del ‛ paciere ' possono sfogare le loro vendette contro i Bianchi. I priori si dimettono (7 novembre) e i nuovi si rimettono alla volontà del Valois, il quale, richiesto, nomina podestà (cioè, in questo caso sotto apparenza legale, l'esecutore delle vendette dei Neri) Cante dei Gabrielli da Gubbio. Il Valois, tranne un breve soggiorno a Roma, si trattiene a Firenze fino ai primi di aprile del 1302: solo allora si decide alla spedizione di Sicilia. Cadono in questo tempo le prime condanne in contumacia contro i Bianchi sconfitti; anche contro D. (27 gennaio 1302). Ma non è dato di vedere in ciò una precisa influenza di B. e nemmeno del suo legato Matteo d'Acquasparta tornato a Firenze. Un'influenza indiretta sì, nel senso che i Neri, tornati vincitori sotto le bandiere del Valois, hanno mano libera per trarre le loro vendette. Ma non si può scoprire nemmeno un accenno di esecuzione del piano nepotistico su Firenze e sulla Toscana attribuito al pontefice. Eppure, sarebbe stato questo il momento più opportuno. Ma nulla di ciò, il che lascia qualche ombra di dubbio sulla reale esistenza di quel piano.
Certo, in questo momento, B. ha sulle braccia una più grossa questione: il conflitto con Filippo il Bello. Nel febbraio 1302 il re sfida il pontefice stracciando e bruciando la bolla Ausculta fili, proprio mentre il papa subisce umiliazioni al suo prestigio anche in Polonia e in Danimarca e perfino nella stessa Toscana, quasi a monito di ciò che anche i Bianchi fiorentini avrebbero potuto fare e non fecero: i Bianchi pistoiesi, infatti, resistono validamente al Valois dietro le mura della loro piccola città, forse, allora, appena la quarta o quinta parte di Firenze. Non è il momento per attuare vasti piani in Toscana, anzi si direbbe che da questo tempo B. si disinteressi della Toscana. Vero è che, d'altra parte, la pace di Caltabellotta (31 agosto 1302) trae il pontefice dalle complicazioni siciliane e, in teoria, renderebbe disponibile Carlo di Valois per eventuali nuove azioni in Toscana. Ma il Valois è pur sempre il fratello del re di Francia e da lui richiamato in patria. Il suo passaggio per Firenze nel dicembre 1302 non ha più interessi politico-militari, ma solo meschini e controversi interessi finanziari personali con i Neri vincitori. Le mire caetanesche sulla Toscana, se mai veramente ci furono, devono rettificare il tiro: si restringono alla contea aldobrandesca e alla promessa strappata al re dei Romani, che per un quinquennio egli non avrebbe nominato vicari imperiali né in Lombardia né in Toscana. Forse, una porta aperta sull'avvenire, la base giuridica per far sentire il peso della potenza anche politica papale su queste due regioni; ma siamo ben lontani da piani nepotistici di più vasta portata.
Intanto, il conflitto con Filippo il Bello si inasprisce: a metà giugno 1303 a Parigi una grande assemblea, anche di ecclesiastici, apre la controffensiva; il conflitto passa dalla polemica verbale e scritta agli atti di violenza. Nell'estate, e proprio in Toscana, nel castello di Staggia, fra Siena e Firenze, castello di proprietà dei fiorentini Franzesi della fazione nera e legatissimi alla casa di Francia, Guglielmo di Nogaret, emissario di Filippo il Bello, organizza l'oltraggio di Anagni, consumato il 7 settembre 1303. Nemmeno un mese dopo (11 ottobre 1303) il tremendo pontefice muore.
Questi fatti trascendono il panorama politico fiorentino e tanto più la figura, politicamente modesta di D., che vi ha una parte meramente episodica, prima di resistente alla politica papale, non in persona propria ma come esponente di un gruppo, sia pure minoritario nella politica fiorentina del tempo; poi, come vittima e infine come spettatore portato a esprimere un suo giudizio sulla figura, comunque, prepotentemente rilevata del pontefice. Si sa che non è un giudizio benevolo. L'avere collocato B. potenzialmente fra i simoniaci (If XIX 52-57), cioè tra i trafficanti delle cose sacre, fa ritenere che D. ritenesse B. non immune da questa colpa sia per il modo come egli sarebbe salito su su per i gradi della gerarchia ecclesiastica fino al vertice supremo (col che accoglierebbe i sospetti diffusi sull'abdicazione di Celestino V e la successione a lui), sia per il modo come il pontefice amministrò i beni sacri, con spiccato spirito di nepotismo; nepotismo - parola non ancora in corso - che per D. sarebbe incluso nel peccato di simonia. Non perciò B. è agli occhi di D. un papa illegittimo; egli è pur sempre il vicario di Cristo (Pg XX 87), ma un papa indegno (Pd XXVII 22-26). È per questo, proprio perché gli riconosce la figura di vicario di Cristo, che D. si indigna per l'oltraggio fattogli ad Anagni, nonostante tutte le ragioni, anche personali, che egli nutriva per detestare quel papa, il principe d'i novi Farisei (If XXVII 85). A lui attribuisce la causa del suo esilio (Pd XVII 49-50), non per malevolenza personale di B. contro D., che per il papa era, evidentemente, uno dei tanti che si opponevano alla sua politica, ma come conseguenza della vittoria dei Neri promossa dal papa, tal che testé piaggia (If VI 69), se il riferimento, come pare, è a B. e non a Carlo di Valois; e anche se fosse a Carlo di Valois, la causa prima sarebbe sempre il papa. Gli altri accenni a B. toccano aspetti della sua politica astuta, insidiosa, sleale, ingannatrice, spregiudicata, che D. nella sua rettitudine moralistica condanna: le alternative di apparente amicizia e di ostilità aperta con Filippo il Bello (se a lui allude la piuttosto oscura allegoria della puttana sciolta e del gigante, in Pg XXXII 148 e 152) e l'aver sollecitato e accolto il consiglio fraudolento di Guido da Montefeltro per abbattere i Colonna (If XXVII 70 ss.).
La figura di B. non è mai presentata direttamente nell'opera dantesca, e soprattutto, ovviamente, nella Commedia, data la collocazione temporale del viaggio di D., vivente quindi il Caetani. Ciò contribuisce senza dubbio a rendere più ambigua, tenebrosa, sinistra l'immagine di lui, esecrata da un papa, da un frate, dal trisavolo del poeta, infine dallo stesso s. Pietro, in una serie di obliqui scorci di ritratto e d'invettiva dai quali il nemico è sentito in tutta la sua proterva e nefanda possanza, ma anche, in specie nel canto dei simoniaci, in una previsione (laggiù nell'Inferno, capofitto come pal) che ha bagliori di feroce sarcasmo: " Così la dannazione preventiva di Bonifazio è colorita nel modo il più drammatico e il più umoristico. Il tiro è fatto: il mondano e ambizioso pontefice corruttor della Chiesa, il disturbatore della Toscana, il protettore dei peggiori Fiorentini contro i migliori, il maggior colpevole dell'esilio di Dante, è servito " (D'Ovidio). Non meno fosco il ricordo di B. nella bolgia dei consiglieri di frode, dove il papa appare nella luce di un corruttore di coscienze oltre che di un capo temporale spietato: " Quel ghigno che si sente nell'offendere la memoria di Celestino V, quella logica falsa degli argomenti gravi hanno veramente del diabolico, e capiamo perché Dante ha così ingrandito la figura del pontefice: non per farne un personaggio capace di quei sentimenti di rivolta che, anche in chi ha intrapreso la via del male, possono rivelare qualche cosa di altamente umano. In Bonifazio la vita morale è così ottusa che egli non appare nemmeno sfiorato dal pensiero che il peccato esista; il suo è un cinismo che disumana, e se, a questo punto, un altro passo della Commedia torna alla mente del lettore, sono i versi del Paradiso (XXIX 118-120) nei quali dentro il cappuccio dei predicatori di ciance che ingannano il volgo dei fedeli s'intravede la figura sinistra del demonio " (Bonora).
Entro tali linee s'è mossa tutta la critica moderna nel chiosare i due celebri episodi dell'Inferno, e v'è anche chi, come il Cosmo, ha voluto scorgere nel secondo di essi quasi un riflesso dell'incontro che D. ebbe col papa: " Così Dante si trovò finalmente di fronte all'uomo che in nome del Dio ond'era sacerdote si proclamava padrone del mondo. Non gli rimangono più che la lingua e gli occhi ', diceva il cardinal Landolfo, quia in aliis partibus totus est putrefactus. Ma quella lingua tagliava, quegli occhi foravano. E l'impressione che da quel colloquio il poeta trasse di quell'uomo, ironico, sarcastico, satanicamente tentatore, è rimasta in alcuni atteggiamenti di una scena famosa dell'Inferno ". Che è suggestione non priva di fascino, pur se la fantasia di D. avesse avuto veramente necessità di documentarsi sulla ‛ cosa vista ' in un così corposo e drammatico scenario qual è quello che è alla base dell'incontro di B. con Guido da Montefeltro: suggestione che comunque dà giusto peso all'importanza che quegli incontri tra l'impotente e ingannato ambasciatore fiorentino e il grande pontefice ebbero nel segnare in D. una terribile traccia di ricordi e di rancori. **
Bibl. - Registres de Boniface VIII, a c. di G. Digard e altri, Parigi 1884-1939 (con aggiunte di R. Weiss, in " Rivista di Storia della Chiesa in Italia " III [1949] 157-164; di A. Maier, ibid., 344-364, e di F. Scandone, in " Arch. Stor. Prov. Napoletane " LXXX [1961] 221-236); H. Finke, Aus den Tagen Bonifaz. VIII, Monaco 1902; ID., Acta Aragonensia, Berlino 1908; T.S.R. Boase, Boniface VIII, Londra 1933; P. Fedele, Rassegna delle pubblicazioni su B. VIII, in " Arch. Soc. Romana St. Patria " XLIV (1921); G. Gaetani, Domus Caietana, I, San Casciano 1927 ; G. Falco, Sulla formazione e la costituzione della signoria dei Caetani, in " Rivista Stor. Ital. " XLV (1928), rist. in Albori d'Europa, Roma 1947; M. Seidlmayer, Papst Bonifaz VIII und der Kirchenstaat, in " Historische Jahrbuch " LX (1940); L. Mohler, Die Kardinàle Jakob und Peter Colonna, Paderborn 1914; R. Neumann, Die Colonna und ihre Politik, 1288-1328, Monaco 1916; P. Fedele, Per la storia dell'attentato di Anagni, in " Bull. Ist. Stor. Medio Evo " XLI (1921); J. Rivière, Le problème de l'église et de l'état au temps de Philippe le Bel, Lovanio 1926; M. Curley, The conflict between Pope Boniface VIII and the King Philip IV the Fair, Washington 1927; G. Digard, Philippe le Bel et le Saint-Siège, Parigi 1926 (e inoltre R. Fawtier, in " Mélanges d'archéologie et d'histoire " LV [1938] 153-179; M. Melville, in " Revue d'hisstoire ecclésiastique " XLV [1950] 56-66; G.J. Beck, in " Catholic historical Review " XXXII [1946] 190-220; G. Martini, Per la storia dei pontificati di Niccolò IV e B. VIII, in " Rivista Stor. Ital. " LVIII (1941) 3-40; A. Niemeier, Untersuchungen iiber die Beziehungen Albrechts I' zu Bonifaz VIII, Paderborn 1900; M. Lintzel, Das Blindnis Albrechts I. ùnd B. VIII, in " Historische Zeitschrift " CL (1935) 457-485; A. Frugoni, Il giubileo di B. VIII, in " Bull. Ist. Stor. Medio Evo " LXII (1950). Più specificamente, per il rapporto D.-B., dopo I. Del Lungo, Da B. VIII ad Arrigo VII. Pagine di storia fiorentina per la vita di D., Milano 1899; U. Cosmo, Vita di D., Bari 1930, Firenze 19653, 87-89, e i commentatori e lettori di If XIX e XXVII (tra i quali, particolarmente importanti, F. D'ovidio, in Lett. dant. 347-379; A. Pagliaro, in Lect. Scaligera I 619-668; E. Bonora, ibid. 967-992), è fondamentale Davidsohn, Storia ad indicem.