«La personalità di B[onifacio] VIII è indubbiamente fra le più rilevanti nella storia del Papato medievale. [...] Figura di sanguigna umanità, ebbe meriti e demeriti ugualmente spiccati [...]. Fra i lati positivi, è da rilevare l’incrollabile fede nella Chiesa [...] e la profonda convinzione che essa si impersoni nel papa [...]. Come sovrano e capo di Stato, lo distingue una visione essenzialmente 'politica' del mondo» (Dupré-Theseider 1960, p. 166). Il Liber Sextus, la Unam sanctam, la bolla di indizione del giubileo del 1300 marcano, in modo indelebile, il suo pontificato.
Nato molto probabilmente ad Anagni intorno al 1230 (Paravicini Bagliani 2003, pp. 12-13), di Benedetto Caetani, il futuro papa Bonifacio VIII, non abbiamo notizia fino al 1250, quando risulta essere stato canonico del capitolo nella cattedrale di Anagni. Per volontà di Alessandro IV ottiene un secondo canonicato a Todi, nel 1260: è qui che il giovane Benedetto riceve i primi insegnamenti giuridici, insegnamenti che molto probabilmente approfondirà nello Studio bolognese. Inviato più volte in missione in Francia e Inghilterra, si fa molto apprezzare: il che gli consente una rapida carriera curiale. Nominato il 12 aprile 1281 cardinale diacono di S. Nicola in Carcere, il 22 settembre 1291 viene promosso a cardinale prete di S. Martino ai Monti.
Il conclave del 1292-93, indetto in seguito alla morte di Niccolò IV, vede il sacro collegio profondamente diviso. Alla ripresa del conclave (Perugia, 5 luglio 1294) viene eletto Pietro del Morrone, papa Celestino V, che, com’è noto, pochi mesi dopo rinuncia al pontificato. Il 24 dicembre, nel conclave svoltosi a Napoli, i cardinali eleggono al terzo scrutinio Benedetto Caetani, che assume il nome di Bonifacio VIII. Il nuovo papa il 17 gennaio 1295 entra a Roma, dove il 23 gennaio viene incoronato in Laterano.
I suoi primi provvedimenti, formalmente segnati dal richiamo all’unità della Chiesa, riguardano il riordino della Curia e l’abolizione di molti dei provvedimenti adottati dal suo predecessore. Inizia una vera e propria attività politico-diplomatica a favore degli Angioini, mentre, da un punto di vista interno, si apre un conflitto con i cardinali Giacomo e Pietro Colonna che si concretizza nella deposizione dei due prelati (10 maggio 1297) e nella successiva loro scomunica (23 maggio). Il papa tenta di risolvere la questione delle immunità fiscali del clero con l’emanazione della bolla Clericis laicos (24 febbraio 1296), disponendo che ogni tassazione gravante sui bona ecclesiastica debba essere autorizzata dalla Sede apostolica: si apre così un contrasto con l’Inghilterra ma, più marcatamente, con il Regno di Francia, che sfocerà nella pubblicazione di numerosi provvedimenti a sostegno delle rispettive tesi e che si concluderà, da parte di Bonifacio VIII, con l’emanazione della Unam sanctam (1302).
Nella tempestosa e tormentata vita del pontefice, il giubileo del 1300 rappresenta una breve ma felice parentesi. Il 22 febbraio di quell'anno, con la bolla Antiquorum habet fida relatio, Bonifacio VIII proclama l’indulgenza giubilare, resa retroattiva a partire dal 25 dicembre 1299 e valida fino al 24 dicembre 1300.
Nel corso del 1303 (durante il quale Bonifacio VIII fonda lo studium Urbis) si riapre l’offensiva da parte del re di Francia, Filippo IV detto il Bello, attraverso la proposizione di accuse contro il papa, fra le quali la più grave è quella di eresia. Il papa, indignato, reagisce con la celebre bolla Super Petri solio, destinata a essere resa pubblica con l’affissione l’8 settembre sulla porta della cattedrale di Anagni. Avutane notizia, il vicecancelliere del re di Francia, Guillaume de Nogaret, insieme a Sciarra Colonna muove verso la città laziale: qui avviene la cattura del pontefice, con l’episodio del celebre 'schiaffo'. Pochi giorni dopo la popolazione anagnina caccia gli assalitori e libera il papa. Bonifacio VIII torna a Roma, dove muore l’11 ottobre dello stesso anno.
Che Bonifacio VIII fosse sensibile alle problematiche giuridiche è ormai un dato acclarato. Lo dimostra soprattutto la pubblicazione del Liber Sextus, raccolta di decretali che si pone in ideale continuazione del Liber Extra di Gregorio IX.
Il papa, per riordinare la legislazione successiva al pontificato gregoriano, nomina una commissione composta da Guillaume de Mandagout, Bérenger Frédol e Riccardo Petroni. Il metodo seguito è, però, almeno in parte diverso da quello utilizzato da Raimundo de Peñafort, che aveva provveduto a redigere il Liber Extra. Questi aveva conservato molte delle decretali precedenti, estraendone i passaggi e il dispositivo che erano da assumere come ius generale, e indicando contestualmente, con l’espressione et infra, lo spazio lasciato vuoto a causa dei tagli compiuti. Un’operazione solo in parte simile viene compiuta dai redattori del Liber Sextus, i quali eliminano molte decretali successive al 1234. Essi recepiscono, lasciandole nella loro integrità testuale, decretali di Innocenzo IV e Gregorio X, ma, e questa è la grande novità, a differenza del penitenziere pontificio catalano, riscrivono tutte le altre mutandone la struttura formale e sostanziale, anche per eliminare dubbi e risolvere contraddizioni. Non più, dunque, una «raccolta di decisioni dove la regola risultava dal resecatis superfluis et adiectis propriis statutis, ma una nuova organizzazione della volontà del legislatore che delle precedenti decretali recepiva non il testo genuino ma soltanto il senso e l’adattava alle contingenze del ius condendum» (Liotta 1999, pp. 118-19).
Le caratteristiche del Sextus erano identiche a quelle volute da Gregorio IX per il Liber Extra: autenticità (che attribuiva ai testi in esso recepiti la forza e l'inderogabilità della norma), unità (nel senso che le norme in essa contenute entravano in vigore contemporaneamente), esclusività (con la quale si abrogavano tutte le decretali apparse successivamente al Liber Extra di Gregorio IX), universalità. Al termine dell’opera furono aggiunte 88 regulae iuris molto probabilmente da parte di Dino Rossoni (Dino del Mugello; Stickler 1950, p. 262; Rambaud 1965, pp. 247-251).
Malgrado le indiscutibili assonanze sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, l’epoca di Bonifacio era però profondamente diversa da quella nella quale avevano operato i grandi legislatori suoi predecessori e conterranei. Il papato doveva ora confrontarsi con una realtà politico-istituzionale che era certamente difforme da quella di Innocenzo III o di Gregorio IX.
Filippo il Bello, spinto dal bisogno di denaro, si era rivolto ai concili provinciali per avere una decima ogni due anni, a partire dal 1° marzo 1294. Nel 1295 aveva preteso un’imposta di un centesimo sui beni personali degli ecclesiastici; all’inizio del 1296 un’assemblea di nobili e prelati aveva accettato un prelievo di un cinquantesimo su tutti i patrimoni, sia di laici sia di ecclesiastici, che si aggiungeva, per questi ultimi, a quello della decima. Queste tassazioni non erano state indolori: oltre alle ovvie proteste, alcuni avevano richiesto l’assenso del papa, che non tardò a far sentire la sua voce. Con la bolla Clericis laicos, che riprendeva le disposizioni già assunte dai concili lateranensi del 1179 e del 1215, Bonifacio VIII proibiva al clero di versare contributi economici ai poteri laici senza la preventiva autorizzazione pontificia: la violazione della disposizione avrebbe comportato la scomunica per i laici e la deposizione per gli ecclesiastici. La risposta del papa, lungi dal risolvere la questione, aprì una vertenza, che si sarebbe lungamente protratta, tutta tesa a definire gli ambiti di intervento delle due autorità e i rispettivi limiti: un contrasto che sarebbe sfociato nella promulgazione da parte del pontefice della Unam sanctam.
Il 18 novembre 1302, nella festa della Dedicazione delle basiliche di Pietro e Paolo, a chiusura di un sinodo al quale avevano partecipato una quarantina di vescovi, Bonifacio promulga la Unam sanctam: un testo dogmatico, di valore universale, ritenuto da gran parte della storiografia l’espressione più completa e più chiara della teocrazia pontificia.
Il testo, sicuramente autentico, nel quale confluiscono numerosi passi scritturistici ma anche il pensiero, per es., di Bernardo di Chiaravalle, Gregorio VII, Ugo di San Vittore, Egidio Romano, Tommaso d’Aquino, Innocenzo III e Innocenzo IV (la bolla Eger cui lenia del 1245), necessita di essere brevemente esaminato.
La prima parte del documento, che costituisce una vera e propria premessa ecclesiologica, è realizzata sulla base di una serie di passi della Scrittura. Dalla loro lettura deriva l’affermazione che la Chiesa è una, santa, cattolica e apostolica, e che fuori di essa non c’è salvezza né remissione dei peccati («Unam sanctam ecclesiam catholicam et ipsam apostolicam [...] extra quam nec salus est, nec remissio peccatorum»).
Ma è soprattutto la caratteristica dell’unità della Chiesa che viene sottolineata in questa prima parte. Ne sono la prova evidente i continui e insistenti richiami ai lemmi unus, una, unum, estratti dai brani della Scrittura, con riferimento, per es., al Cantico dei Cantici («Una est columba mea, perfecta mea. Una est matri suae, electa genitrici suae, quae unum corpus mysticum repraesentat» [6, 9]), e all’epistola di Paolo agli Efesini («Unus Dominus, una fides, unum baptisma» [4, 4-6]). Un'unità che non può essere spezzata, perché nemmeno la tunica inconsutile di Cristo venne divisa ma, come narra il Vangelo di Giovanni (19, 23), estratta a sorte dai soldati nel giorno della passione; perché uno solo ne è il timoniere (come Noè, gubernator et rector dell’arca [Genesi 6,16]), perché, infine, uno solo deve esserne il capo («Igitur ecclesiae unius et unicae unum corpus, unum caput non duo capita, quasi monstrum, Christus videlicet et Christi vicarius Petrus, Petrique successor»), come lo è il pastore dell’unico gregge («Dicente Domino in Ioanne, unum ovile et unicum esse pastorem» [Giovanni 10, 16]).
Nella prima parte della Unam sanctam emerge con particolare evidenza anche il carattere dell'universalità («Dicente domino ipsi Petro: “Pasce oves meas” [Giovanni 21, 15-17]. Meas, inquit, et generaliter, non singulariter has vel illas: per quod commisisse sibi intelligitur universas»): un diritto-dovere, quello di pastore universale, derivante al pontefice dall’imperativo del Cristo direttamente rivolto a Pietro, e quindi ai suoi successori.
Con queste premesse, il discorso dell’Unam sanctam procede e si sviluppa coinvolgendo la metafora delle due spade (quella spirituale e quella temporale) entrambe appartenenti alla Chiesa, la quale avrebbe esercitato la sua potestà direttamente (attraverso la spada spirituale) e indirettamente (attraverso la spada temporale).
Su questo punto del testo bonifaciano sono fiorite, subito dopo la sua apparizione, numerose interpretazioni dottrinali, talché, in alcune occasioni, è sembrato riprodursi, anche da parte della storiografia, il tono di alcuni polemisti coevi del papa anagnino. La stessa esistenza di più apparati esegetici al testo dell’Unam sanctam, con interpretazioni diametralmente opposte o comunque sostanzialmente dissenzienti, sembrano segnarne indelebilmente il destino. Ma seguiamo il filo del discorso del papa.
Nella Chiesa, che è composta di un solo gregge, e che ha a capo un solo pastore («Dicente domino in Ioanne, unum ovile et unicum esse pastorem») esistono due spade: una spirituale, a essa affidata, e una temporale, consegnata ai re e ai cavalieri «ad nutum et patientiam sacerdotis». Ne deriva, pertanto, che una spada deve essere sottomessa all’altra; è l’autorità temporale che deve essere sottoposta a quella spirituale («Oportet autem gladium esse sub gladio, et temporalem auctoritatem spirituali subiici potestati»), perché non esiste un potere se non quello derivante direttamente da Dio in un ordo universalis, da Lui creato, che verrebbe violato se l’una spada non fosse sottomessa all’altra, in un rapporto gerarchico che vede primeggiare per dignità e nobiltà il potere spirituale. È quest’ultimo che deve instituere il potere terreno, è quest’ultimo che, sulla base della profezia di Geremia («Ecce constitui te hodie super gentes et regna» [Geremia 1, 10]), ha la potestas di giudicarlo perché «non est potestas nisi a Deo; quae autem sunt, a Deo ordinata sunt» (Paolo, Romani 13, 1). È il pontefice romano, il successore di Pietro, al quale è stato dato il potere di «legare e di sciogliere», l’uomo spirituale che può giudicare tutte le cose senza essere sottomesso al giudizio di alcuno: «testante Apostolo “Spiritualis homo iudicat omnia, ipse autem a nemine iudicatur” (1 Corinzi 2,15)».
Una lettura della Unam sanctam, scevra dal contesto storico nel quale venne pensata e promulgata, attorcigliata in distinguo propri di una letteratura che volesse giungere a dimostrare tesi ierocratiche precostituite, e soprattutto disgiunta da un’attenta considerazione della parte iniziale, nella quale si manifesta lo scopo del papa, quello cioè di affermare con forza l’unità della Chiesa, porterebbe inevitabilmente a riproporre le argomentazioni polemiche che, fin dagli anni immediatamente successivi alla sua promulgazione, caratterizzarono le interpretazioni di questo testo.
Appare del tutto evidente, infatti, che il tentativo di interpretare le affermazioni del pontefice deve essere condotto gettando lo sguardo a un mondo, quello medioevale, del quale Bonifacio è forse l’ultimo grande rappresentante; a una tradizione secolare, che ha visto artefici dell’unità politico-religiosa dell’Occidente cristiano le due grandi potestà universali; a un ordo giuridico-politico universale nel quale «la discretio fra lo spirituale ed il temporale, frutto del pensiero cristiano, ha per suo fine ut simul regale genus et sacerdotale subsistant» (Quaglioni 1995, p. 13); alle affermazioni di principio, formulate dai pontefici precedenti, che possono essere racchiuse nella professione di fede formulata da Innocenzo III nel Concilio Lateranense IV: «Una est Ecclesia: extra Ecclesiam nulla salus».
Forse la storiografia non riuscirà mai a dire una parola definitiva sulla Unam sanctam: un documento redatto in un’epoca caratterizzata da dissensi così marcati fra l’autorità ecclesiastica e le autorità laiche da indurre lo storico a una lettura esclusivamente politica del documento pontificio, e condotta sulla base di categorie giuridiche (come, per es., quella di Stato) quasi del tutto ignote all’epoca bonifaciana o tutt’al più ancora in fieri. Se lo farà, dovrà necessariamente ripensare tutta la vicenda, approfondendone i contorni, meditando filologicamente la trama di quel testo, senza dimenticare, proprio sotto il profilo politico, che per gli uomini del Medioevo «si può parlare veramente di un diritto senza Stato (se per Stato si intendono le teorizzazioni del XIX e del XX secolo), giacché l’ordinamento, per l’uomo medievale, discende da una concezione metafisica della città terrena» (Liotta 1999, p. 124; vedi anche Grossi 1995, p. 35).
Ma la Unam sanctam, pur rappresentando un testo che, portato alle estreme conseguenze, comporta necessariamente, nella sua pratica applicazione, valutazioni di tipo politico, appare in realtà come portatore di una definizione dogmatica dell’auctoritas e della potestas pontificia nell’ambito della Chiesa, unica e universale.
La visione di Bonifacio VIII, fondata su principi ormai consolidati (unum ius, una ecclesia, unum caput) - secondo la reductio ad unum aristotelica filtrata nella coscienza dell'uomo del Medioevo per il tramite delle dottrine di Alberto Magno e di Tommaso d'Aquino -, individua nel romano pontefice il destinatario del munus petrinum, il quale gli impone la cura pastorale dell’unica Chiesa, attraverso l’adozione di provvedimenti aventi valore universale. La Unam sanctam fu quindi un richiamo forte e energico all’unità della Chiesa, al di fuori della quale non vi era la salus animarum. Qualora, infine, si volesse fare una lettura esclusivamente politica della Unam sanctam, non sarà superfluo ricordare che il sinodo conclusosi con la promulgazione della bolla era stato esplicitamente limitato ai prelati francesi. Ciò che Bonifacio voleva certamente evitare era il rischio dello scisma di una Chiesa gallicana, sotto il controllo del sovrano, staccata dall’unico ovile e dall’unico pastore. Non si spiegherebbe, infatti, l’uso metaforico della tunica inconsutile. Bonifacio VIII sapeva assai bene che da un punto di vista politico la realtà medioevale era formata da tante entità particolari, da tanti ordinamenti che, pur mantenendo i propri tratti autonomi, contribuivano a formare una realtà unitaria: l’ordinamento universale.
Quell’immagine, pertanto, proprio perché espressione di una tessitura «unica», e non un insieme di realtà istituzionali cucite tra loro per formare un «unum corpus», mal si attagliava alle categorie politiche dell’età medioevale. In realtà, riferendosi alla tunica del Cristo egli aveva davanti agli occhi l’unità della Chiesa sotto il profilo gerarchico e pastorale: un'unità che, come quel sacro panno, non poteva e non doveva essere lacerata dal comportamento di un sovrano il quale, ingerendosi in materie fino ad allora ritenute di competenza ecclesiastica, avrebbe potuto generare una dolorosa separazione della Chiesa francese. Con ciò Bonifacio VIII riaffermava la sua auctoritas e la sua potestas sui bona ecclesiastica temporalia et spiritualia. Ma proprio qui si generava il dissenso con il sovrano francese e la vicenda finiva per colorarsi di toni dal profilo quasi esclusivamente politico: era il concetto di iurisdictio, inteso come l’ambito di intervento delle due potestà e il limite invalicabile di ciascuna, che veniva diversamente inteso e sostanzialmente determinato. Come ha autorevolmente affermato Alfons M. Stickler (1977, pp. 42-43): «qui già si scontrano due concezioni [...] di cose ecclesiastiche e statali, di competenza dell’autorità spirituale e temporale: la concezione medievale e quella moderna».
Per il testo del Liber Sextus si deve ricorrere al Corpus iuris canonici, editio lipsiensis secunda, hrsg. E. Friedberg, 2° vol., Decretalium collectiones, Leipzig 1897 (rist. Graz 1959), coll. 929-1124.
La bibliografia su Bonifacio VIII è amplissima. Numerosissime indicazioni bibliografiche in A. Paravicini Bagliani, Il papato nel secolo XIII. Cent’anni di bibliografia (1875-2009), Firenze 2010.
Si vedano comunque:
A.M. Stickler, Historia juris canonici latini. Institutiones academicae, 1° vol., Historia fontium, Roma 1950.
E. Dupré-Theseider, Bonifacio VIII, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 12° vol., Roma 1960, ad vocem.
J. Rambaud, Boniface VIII: le "Sexte", in Histoire du droit et des institutions de l’Eglise en Occident, 7° vol., L’âge classique (1140-1378). Sources et théorie du droit, éd. G. Le Bras, C. Lefebvre, J. Rambaud, Paris 1965, pp. 247-51.
A.M. Stickler, Il giubileo di Bonifacio VIII. Aspetti giuridico-pastorali, Roma 1977.
B. Guillemain, Bonifacio VIII e la teocrazia pontificia, in Storia della Chiesa, diretta da A. Fliche, V. Martin, poi da G.B. Duroselle, E. Jarry, 11° vol., La crisi del Trecento e il papato avignonese (1274-1378), a cura di D. Quaglioni, Torino 1994, pp. 142-58.
P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari 1995.
D. Quaglioni, Politica e diritto al tempo di Federico II. L’"Oculus pastoralis" (1222) e la ‘sapienza civile’, in Federico II e le nuove culture, Atti del XXXI Convegno storico internazionale, Todi 9-12 ottobre 1994, Spoleto 1995, pp. 1-26.
F. Liotta, I papi anagnini e lo sviluppo del diritto canonico classico: tratti salienti, in Studi di storia del diritto medioevale e moderno, a cura di F. Liotta, Bologna 1999, pp. 107-28.
A. Paravicini Bagliani, Bonifacio VIII, Torino 2003.
Bonifacio VIII, Atti del XXXIX Convegno storico internazionale, Todi 13-16 ottobre 2002, Spoleto 2003.
F. Liotta, Tra compilazione e codificazione. L’opera legislativa di Gregorio IX e Bonifacio VIII, in Studi di Storia del diritto medioevale e moderno, a cura di F. Liotta, 2° vol., Bologna 2007, pp. 21-39.
G. Minnucci, La "Unam sanctam": tra ecclesiologia e diritto, in I poteri universali e la fondazione dello Studium Urbis, Atti del Convegno di studi, Roma-Anagni 9-10 maggio 2003, a cura di G. Minnucci, Bologna 2008, pp. 89-106.