UBERTI, Bonifazio
(Fazio) degli. – Discendente dell’illustre famiglia ghibellina bandita da Firenze fin dai tempi del bisnonno Manente, detto Farinata (1267), nacque verosimilmente a Pisa nel primo decennio del XIV secolo, dove fu tenuto a battesimo da Bonifazio della Gherardesca, secondo quanto lo stesso Uberti dichiara nel suo Dittamondo («Madonna, rispuos’io, l’antico Fazio, / conte di Pisa e nato di Gherardo, / [...] mi die’ il suo nome [...]», II, XXXI, 106-109).
Era figlio di Taddeo di Lapo Farinata, come ci conferma una rubrica del codice Laurenziano 42.38, c. 24r, mentre sconosciuto rimane il nome delle madre. Ignoriamo la data precisa della sua nascita, che Giuseppe Corsi (Il Dittamondo..., 1952, II, p. 169 nota), sulla base dell’interpretazione di una complessa metafora astrologica posta in apertura del Dittamondo (I, I, 16-18), fa risalire al 1301 (ma Rodolfo Renier [Liriche edite ed inedite..., 1883, p. CLVI] proponeva invece, secondo diverso calcolo, un anno tra il 1305 e il 1309). Ebbe un fratello, Leopardo, che visse a lungo in Veneto, dapprima a Padova (qui nel 1333 sposò una Bartola di Francesco Ubaldini), e poi a Venezia, dove morì nell’aprile del 1361, come indicato sulla pietra sepolcrale che si conserva presso il chiostro dell’ex convento di S. Maria Gloriosa dei Frari (p. CXIII).
Il padre Taddeo era stato, con il cugino Lapo e altri due membri della famiglia (Ghino e Azzolino), tra i firmatari del compromesso con gli Ubaldini per la guerra del Mugello nella riunione di San Godenzo dell’8 giugno 1302, a cui partecipò anche Dante (p. CXI; Alighieri, 2016). Il 18 giugno dell’anno seguente tutti e quattro risultano a Bologna tra i sottoscrittori di un contratto di mutuo per finanziare le spese di guerra dei guelfi bianchi a Bologna (Orioli, 1896, pp. 10-13). Taddeo fu poi a Milano nel 1311 per salutare il passaggio di Enrico VII, e nel 1313 a Pisa, prima di trasferirsi stabilmente al Nord. Fu senz’altro a lungo a Verona, dove già suo padre Lapo era stato podestà negli anni 1301, 1302 e 1306: in un documento del 24 aprile 1331 Taddeo è tra i giurati per parte scaligera di un patto fra il patriarca di Aquileia e i signori Alberto II e Mastino II («Tadeus de Ubertis de Florentia»: Verci, 1788); successivamente la sua presenza è attestata a Padova e a Treviso, città dove ricoprì la carica di podestà rispettivamente nel 1332 e nel 1335.
Non abbiamo notizia alcuna sulla giovinezza di Fazio, e anche molte delle informazioni relative agli anni successivi della sua vita sono inferibili quasi esclusivamente dalle sue opere poetiche. Nel 1336 era senz’altro a Verona, presso gli Scaligeri, dove è probabile si fosse trasferito al seguito del padre, come detto già in stretto contatto con i signori della città veneta. Nella frottola O tu che leggi, infatti, prende strenuamente le parti di Mastino II della Scala nella contesa tra Verona e Firenze per il possesso di Lucca: quest’ultima nel novembre del 1335 era venuta nelle mani dei Rossi di Parma, che l’avevano poi venduta a Mastino, il quale si era impegnato a cederla ai fiorentini. Firenze si affrettò dunque a mandare a Verona sei ambasciatori per trattare, ma Mastino dapprima richiese un riscatto elevatissimo e poi rinnegò gli accordi. Tra gli ambasciatori fiorentini c’era Alessio Rinucci, a cui Fazio consegnò la frottola «di sua mano», stando alla rubrica del citato codice Laurenziano 42.38, anche se è assai probabile, tenuto conto di alcuni riferimenti interni, che in realtà il testo risalga alla primavera del 1336, quando Rinucci era già stato richiamato a Firenze dopo aver abbandonato la trattativa, e che Fazio abbia retrodatato fittiziamente l’invettiva (Fazio degli Uberti, Rime, a cura di C. Lorenzi, 2013, p. 333).
Difficile dire quando Uberti si spostasse da Verona. A metà degli anni Quaranta, comunque, si trovava a Milano, presso la corte viscontea: è lo stesso poeta nel Dittamondo a fornirci notizia indiretta di una sua missione per conto di Luchino («Io ero stato al tempo de la guerra / de lo doge da Murta per que’ valli, / sì ch’io sapea ’l cammin di serra in serra», III, V, 85-87), che sarà da collocare senza dubbio nel 1345, quando il doge Giovanni di Murta realizzò la pacificazione tra le fazioni nobiliari della città ligure proprio attraverso la mediazione milanese.
D’altronde, proprio con Luchino e con il suo figliastro Bruzio i rapporti dovettero essere molto stretti anche sul piano personale, come ci testimonia lo scambio di sonetti con i due Visconti (perduta è però la risposta di Bruzio), testi nei quali emergono dettagli che dimostrano la familiarità di Uberti con gli ambienti di corte milanesi: nel sonetto rivolto a Bruzio (Non so chi sia, ma non fa ben colui) il poeta si professa suo «amico», mentre in quello a Luchino (Fam’à di voi, signor, che siete giusto) addirittura si lamenta per alcune spettanze non saldate dal signore.
Di un’altra possibile missione per i Visconti nel Comasco troviamo poi traccia nel sonetto Ohi lasso me, quanto forte divaria, in cui, secondo la prassi del genere del plazer-enueg, vengono elencate le opposte peculiarità di Milano, ricca e raffinata città medievale, e di Como, luogo insalubre e poco ospitale. Uberti rimase a Milano alle dipendenze dei Visconti molto probabilmente anche dopo la morte di Luchino (1349), durante gli anni della signoria dell’arcivescovo Giovanni Visconti, ampiamente elogiato in Dittamondo III, IV, 71-75, e forse fin oltre la nomina a reggitori della città di Bernabò e Galeazzo (1354), ai quali alla fine del 1355 dedicò la canzone L’utile intendo più che lla rettorica, contenente una serie di precetti per il buon governo.
Tra il 1358 e il 1359 Uberti era certamente a Bologna, presso Giovanni Visconti d’Oleggio. È stato supposto (Sighinolfi, 1901, p. 7), ma senza prova alcuna, che vi fosse giunto su invito di Bruzio Visconti, il quale dopo la morte del padre era riparato a Bologna (in tal caso l’arrivo di Uberti andrebbe collocato ante 1356, quando il figliastro di Luchino venne bandito da Giovanni), oppure per intercessione di Rizardo Uberti, forse suo lontano parente (di un ramo della famiglia che si era da tempo stabilito in Emilia) e uomo di fiducia di Visconti d’Oleggio. Il nome di Fazio compare dunque in una serie di quattro documenti notarili, che confermano come egli svolse alcune missioni, non solo nel contado ma anche presso altre città, su mandato del signore di Bologna, anche se spesso non incaricato direttamente da lui: nell’agosto del 1358 fu inviato con Rizardo e con Albizzo degli Ubaldini presso il castello di Capreno per non meglio specificate necessità di Visconti d’Oleggio; tra il gennaio e il febbraio del 1359 si recò per un mese a Mantova «in s(er)vicio d(omi)ni [...] et co(mun)is Bon(onie)» e poi, con il vicario generale Giovanni di Minuccio e altri, per quattro giorni a Ferrara; infine, nell’agosto del 1359 fece parte, sempre con il solito Rizardo, di una delegazione deputata a controllare il canale della Muzza, in vista di imminenti lavori di fortificazione (Archivio di Stato di Bologna, Comune e governo, Riformagioni e provvigioni, reg. 31, c. 69r; reg. 32, cc. 10r, 69v, 74v). È assai probabile che con l’uscita di scena nel 1360 di Visconti d’Oleggio anche Uberti abbandonasse Bologna, ma non è dato sapere dove riparasse.
Probabili nel corso della sua vita sono altre temporanee dimore tra Veneto e Lombardia (Treviso, Padova, Mantova, Venezia), di cui tuttavia non resta traccia, a meno di non dar credito a due brevi annotazioni, per la verità assai tarde e poco attendibili, contenute rispettivamente nel cod. Vittorio Emanuele 1147 della Biblioteca nazionale di Roma e in Conventi Soppressi 122 della Laurenziana di Firenze: nel primo codice si annota in calce alla canzone Vegiendo quasi spenta ogni largeça, erroneamente attribuita a Uberti, «Façio degl’Uberti dimorò a Mantova»; nel secondo la rubrica della canzone I’ guardo in fra l’erbett’e per li prati sostiene che essa fu «fatta in Vinegia a dì ... di maggio annj domini...» (restano vuoti gli spazi contenenti la data di composizione del testo).
Morì e fu sepolto a Verona, secondo quanto registra Filippo Villani (Liber de origine civitatis Florentie et eiusdem civibus, a cura di G. Tanturli, Padova 1997, p. 146); ignota è la data di morte, che sarà però da collocare poco oltre il 1367, dato cronologico più recente che si ricava dal Dittamondo, rimasto incompiuto (Il Dittamondo..., cit., p. CXCVII; Liriche edite ed inedite..., cit., p. 171). Dalla moglie, forse una Pellegrini di Verona, ebbe un figlio, Francesco, che dal 1370 si stabilì ad Alcenago, dove la madre aveva dei possedimenti (Farinati degli Uberti, 1898, p. 216).
Nutrita è la produzione lirica di Fazio, che conta, escludendo un paio di pezzi dubbi, sedici canzoni, quattordici sonetti, un capitolo ternario e una frottola, a cui si possono aggiungere altre sei canzoni a lui attribuibili. Si tratta di testi che, a parte qualche rara eccezione, ebbero vastissima diffusione (oltre centosessanta testimoni manoscritti registra l’edizione critica di Cristiano Lorenzi del 2013, pp. 38-122), certificando il successo di questo rimatore almeno fino alla prima metà del Cinquecento. D’altro canto, Uberti è figura centrale nel panorama poetico poststilnovista, sia per il suo influsso su altri rimatori coevi e successivi (non solo minori: tra di essi, probabilmente, anche lo stesso Francesco Petrarca), sia per il suo ruolo di fondamentale tramite per la divulgazione al Nord della tradizione lirica toscana (pp. 8-14).
Due sono i nuclei tematici principali del suo corpus: quello amoroso, che propone la riattualizzazione di spunti e stilemi stilnovistici entro un quadro di marca ormai tardogotica (si vedano in particolare le canzoni Nel tempo che s’infiora e cuopre d’erba, I’ guardo in fra l’erbett’e per li prati, Io guardo i crespi e i biondi capelli, S’i’ savessi formar quanto son begli), e quello politico, con i reiterati inviti a Ludovico il Bavaro perché scenda in Italia (Se ligittimo nulla nulla è, Tanto son volti i ciel’ di parte in parte), che confermano una forte e sincera partecipazione alla causa ghibellina. Non mancano infine anche esperienze poetiche diverse: una ‘disperata’ (Lasso, che quando immaginando vegno), che costituisce uno dei primi esempi del genere; testi di natura religiosa (una lauda e una corona di sonetti sui vizi capitali); e vari sonetti di corrispondenza e di occasione, dai toni più salaci o giocosi. Come detto, specie nei testi erotici rivolti all’amata Ghidda Malaspina (designata con il senhal della «spina»), frequenti sono gli agganci con la tradizione stilnovistica, anche se, più in generale, nel dettato di Fazio spicca soprattutto la lezione dantesca: in tutte le sue rime la presenza del Dante sia comico sia lirico (anche petroso) è dunque assai ampia e manifesta (Lorenzi, 2010).
Entro la produzione di Uberti, alle pregevoli liriche – scalate lungo un ampio arco cronologico che va, almeno per i testi politici, databili con più certezza, dagli anni Trenta alla fine degli anni Cinquanta – si affianca un poema didattico in terza rima di imitazione dantesca, il Dittamondo (cioè Dicta mundi), composto a partire dal 1345 e, come detto, rimasto interrotto (al canto XIV del libro VI), oltre che non completamente rivisto (Il Dittamondo..., cit., II, pp. 168 s.). Il poeta affronta un viaggio tutto mondano attraverso i tre continenti noti al mondo medievale – Europa, Africa, Asia –, accompagnato, sul modello della Commedia, da una guida, il geografo antico Caio Giulio Solino. Il risultato è senz’altro piuttosto modesto: nel poema prevale infatti «l’interesse per i contenuti didascalico-eruditi», che per di più vengono «riversati in una versificazione di tono medio, generalmente decorsa, ma incline all’andamento prosaico» (Ciociola, 1995, pp. 438 s.); il che comunque non impedì al Dittamondo di godere di ampia fortuna sia in epoca antica (si contano quasi sessanta testimoni manoscritti) sia più di recente (nella prima metà dell’Ottocento, in particolare, suscitò l’interesse, soprattutto linguistico e filologico, di Vincenzo Monti e Giulio Perticari).
Opere. Per le sue rime, a stampa fin dal Cinquecento (tre sue canzoni compaiono nella Giuntina di rime antiche del 1527), disponiamo ora di una recente edizione critica: Rime, a cura di C. Lorenzi, Pisa 2013, che rende ormai superate le precedenti edizioni complessive, Liriche edite ed inedite di Fazio Degli Uberti, a cura di R. Renier, Firenze 1883, e Il Dittamondo e le rime, a cura di G. Corsi, I-II, Bari 1952 (quest’ultima è però ancora fondamentale per il testo del Dittamondo).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Bologna, Comune e governo, Riformagioni e provvigioni, reg. 31, c. 69r; reg. 32 cc. 10r, 69v, 74v; Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 42.38, c. 24r; Conventi Soppressi, 122, c. 71r; Roma, Biblioteca nazionale, Vittorio Emanuele, 1147, c. 22v.
G.B. Verci, Storia della Marca trevigiana e veronese, X, Venezia 1788, p. 129 (sez. documenti); R. Renier, Alcuni versi greci del «Dittamondo», in Rivista di filologia romanza, III (1880), pp. 18-33; Id., Sui brani in lingua d’oc del «Dittamondo» e delle «Leandreide», in Giornale storico della letteratura italiana, XXV (1889), pp. 311-337; E. Orioli, Documenti bolognesi sulla fazione dei Bianchi, in Atti e memorie della R. Deputazione di storia patria per la Romagna, s. 3, XIV (1896), pp. 1-13; G.A. Farinati degli Uberti, Ricerche storico-genealogiche sulla famiglia degli Uberti, in Giornale araldico-genealogico-diplomatico, XXVI (1898), pp. 173-224; L. Sighinolfi, Gli Uberti in Bologna durante il primo dominio visconteo, Bologna 1901; A. Pellizzari, Il Dittamondo e la Divina Commedia. Saggio sulle fonti del Dittamondo e sulla imitazione dantesca nel sec. XIV, Pisa 1905; E. Cavallari, La fortuna di Dante nel Trecento, Firenze 1921, pp. 286-296; B. Croce, Poesia popolare e poesia d’arte. Studi sulla poesia italiana dal Tre al Cinquecento, Bari 1933 (nuova ed. Napoli 1991), pp. 107-116; Storia letteraria d’Italia, V, Il Trecento, a cura di N. Sapegno, Milano 1933, pp. 460-464; L. Zambarelli, L’imitazione dantesca nel Dittamondo e nelle liriche morali di Fazio degli Uberti, Roma 1942; M. Casali, La lirica di Fazio degli Uberti, Domodossola 1949; G. Petrocchi, Cultura e poesia del Trecento, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Cecchi - N. Sapegno, II, Il Trecento, Milano 1965 (nuova ed. 1976), pp. 609-611, 709-712; Rimatori del Trecento, a cura di G. Corsi, Torino 1969, pp. 224-318; A. Tartaro, Forme poetiche del Trecento, Bari 1971, pp. 87-111; C.F. Goffis, Uberti, Fazio degli, in Enciclopedia dantesca, V, Roma 1976, pp. 781 s.; V. Dornetti, Aspetti e figure della poesia minore trecentesca, Padova 1984, pp. 28-39; E. Ragni, Fazio degli Uberti, in Dizionario critico della letteratura italiana, diretta da V. Branca, II, Torino 1986, pp. 224-229; C. Ciociola, Poesia gnomica, d’arte, di corte, allegorica e didattica, in Storia della letteratura italiana, diretta da E. Malato, II, Il Trecento, Roma 1995, pp. 382-387, 437-442; W. Schwickard, «Burgari, Rossi e Bracchi». Toponimi ed etnici nel «Dittamondo» di Fazio degli Uberti, in Medioevo letterario d’Italia, III (2006), pp. 77-88; J. Bartuschat, La forma allegorica del «Tesoretto» e il «Dittamondo» di Fazio degli Uberti, in A scuola con ser Brunetto. Indagini sulla ricezione di Brunetto Latini dal Medioevo al Rinascimento, a cura di I. Maffia Scariati, Firenze 2008, pp. 417-436; B. Basile, Fazio degli Uberti e il basilisco, in Filologia e critica, XXXIV (2009), pp. 116-122; D. Paniagua, «Soccorri me, che solo non so ire». Solino in aiuto di Fazio degli Uberti, in CentoPagine, III (2009), pp. 10-19; C. Lorenzi, Echi danteschi (e stilnovistici) nelle rime di Fazio degli Uberti, in Italianistica, XXXIX (2010), pp. 95-113; Id., Introduzione a Fazio degli Uberti, Rime, Pisa 2013, pp. 1-35; F. Canaccini, Gli Uberti di Firenze: dall’apice al tracollo, in La Fusta. Journal of Italian literature and culture, XXII (2014); Valorosa vipera gentile. Poesia e letteratura in volgare attorno ai Visconti fra Trecento e primo Quattrocento, a cura di S. Albonico - M. Limongelli - B. Pagliari, Roma 2014 (in partic. C. Lorenzi, Fazio degli Uberti a Milano (con una nota sulla tradizione settentrionale di alcune rime), pp. 23-36; N. Belliato, I Visconti nel «Dittamondo» di Fazio degli Uberti, pp. 37-56); N. Belliato, Per un commento al «Dittamondo»: il Paradiso terrestre e la personificazione di Roma (I xi), in Quaderni di italianistica 2015, Pisa 2015, pp. 33-48; S. Grimaldi, Su un manoscritto veronese del «Dittamondo» di Fazio degli Uberti, in Letteratura italiana antica, XVI (2015), pp. 391-398; D. Alighieri, Le opere, VIII, Opere di dubbia attribuzione e altri documenti danteschi, III, Codice diplomatico dantesco, a cura di T. De Robertis et al., Roma 2016, pp. 221-223; C. Lorenzi, Un nuovo testimone per le rime di Fazio degli Uberti, in Studi e problemi di critica testuale, XCII (2016), pp. 11-23.