Bonifazio (Fieschi)
Espia il peccato di gola nel penultimo girone del sacro monte (Pg XXIV 28-30) con Ubaldin da la Pila e molti altri. Il poeta lo fissa nell'atto di masticar a vuoto (per fame a vòto usar li denti), e ne determina l'identità, con arguzia allusiva intonata alle contigue presentazioni di papa Martino e messer Marchese degli Orgogliosi, dicendo di lui che pasturò col rocco molte genti: indubbio riferimento - attestato da tutti i commentatori antichi - a B., che fu arcivescovo di Ravenna dal settembre 1275 al dicembre 1294: personaggio di notevole rilievo nella storia di Romagna, in quel periodo di graduale trapasso di poteri da Rodolfo d'Asburgo alla curia pontificia, come nel più largo ambito della politica e della diplomazia filoangioine dei papi, che lo impegnarono a lungo in delicate mansioni lontano dalla sua sede metropolitica: in Italia, in Ispagna e specialmente in Francia.
Che fosse dei conti di Lavagna, cioè un Fieschi della potente famiglia di Innocenzo IV e Adriano V, sta scritto nei brevi pontifici di nomina e di insediamento. Che appartenesse al ramo parmense di quell'insigne casato (natione Parmensis), lo afferma fra Salimbene - conterraneo, coetaneo, che di lui ebbe, con ogni probabilità, conoscenza diretta almeno nel periodo della sua permanenza a Ravenna e a Faenza - in un abbozzo di giudizio quanto mai pertinente (" nunc archiepiscopus est, magnus et ipse prolocutor et partem ecclesiasticam firmiter tenens ") e in una cronaca esposta al facile riscontro dei contemporanei. Il testamento di Margherita Fieschi, citato dall'Affò, la presenza di buon numero di Parmensi al seguito dell'arcivescovo e altri indizi, concorrono ad avvalorare la notizia di Salimbene.
Dalla quale, è vero, discordano chiosatori, biografi, cronisti, facendo, di B., gli uni un figlio di Ubaldino o Ugolino della Pila (Lana, Pietro, Buti, Anonimo fiorentino, Vellutello), altri un genovese (particolarmente i ravennati Fabri e S. Pasolini), altri ancora un " gallicus ", o " francioso ", o " francigena " (Benvenuto, Serravalle, Landino): voci tutte inattendibili, o inesatte. Nessun Bonifazio ricorre nell'albero degli Ubaldini, dove invece è frequente il nome di Ugolino, proprio del padre e di un figlio di Ubaldino, e accertato per il padre di B.; di più, tale attribuzione è smentita espressamente da Benvenuto e dal Serravalle. Quanto agli studiosi del secondo gruppo, è probabile che essi abbiano equivocato tra luogo di nascita di B. e luogo d'origine dei conti di Lavagna (Lavagna, appunto, sulla riviera ligure), da cui si diramarono e i Fieschi di Genova e quelli di Parma. Né può, infine, sorprendere l'attributo di " francioso ", se si pensa alle replicate permanenze del presule in terra di Francia, e ad altri fatti o moventi che poterono accreditare codesta voce: frate " predicatore ", aveva studiato a Parigi presso il convento di San Domenico; da Gregorio X, di cui era cappellano e col quale aveva preso parte nel '74 al Concilio di Lione, fu eletto, nel '75, a reggere l'archidiocesi di Ravenna mentre ancora si trovava di là dalle Alpi; la sua nomina riuscì, sulle prime, sgradita a quella comunità ecclesiale, che lo sentiva estraneo e imposto (contro un antico privilegio) e che in effetti ostacolò il suo insediamento; a tacere del suo atteggiamento verso la casa d'Angiò (Nicolò III lo indirizzava, nel '78, a Carlo I come " exaltationis regiae praecipuum zelatorem ").
Presso studiosi del Cinque e del Settecento, l'accusa di golosità mossa a un personaggio di così alto prestigio trovò scarso credito, e apparve in ogni caso soverchiata dall'elogio della sua ben nota liberalità (" Non desunt " così il Rossi, " qui huius Bonifacii Archiepiscopi meminisse, cum de abdominis voluptatibus addictis verba facit, in altera sui operis parte Dantem putent. Sed fuit Bonifacius Christiana liberalitate maxime insignis... ": e cita una famosa elargizione di granaglie disposta dal presule in tempo di carestia a favore dell'intera popolazione di Argenta); quando non indusse (v. l'Affò) a escludere recisamente l'identificazione del B. dantesco con l'arcivescovo ravennate. Invero manca a codesta accusa il conforto di testimonianze documentarie ineccepibili: non potendo, a rigore, valer come tale un invito, spesso citato dai dantisti, rivolto dal presule nel 1281 alla comunità savignanese per l'offerta del consueto, lauto pranzo - tributo di vassallaggio ricorrente a scadenza fissa - che non è " se non un semplice appello al rispetto integrale di formalità, consuetudini e tradizioni invalse nel clima medievale " (Vasina). Chi peraltro rilegga la chiosa dell'Imolese (" praelati maxime laborant morbo gulae ") col rimando a un'aneddotica circolante nel ravennate sul conto dell'arcivescovo (" de cuius gula autor audiverat multa, dum staret Ravennae "); e richiami certo sfondo romagnolo folto di pittoresche intemperanze conviviali (" Provincia ista pomposa est nimis fallax, et adeo prodiga " scrive il rettore, poi arcivescovo di. Ravenna, Aimerico di Chàteluz, " quod in Epulis et fallaciis parum differt ab Anglica; et nisi quilibet Rector splendidissime vivat faciendo convivia, excellenter expendat, et comitivam magnam retineat, ab omnibus deridetur "): lo sfondo cui attingeva Salimbene, rievocando in tono burlesco una " spiccata predilezione dell'arcivescovo Filippo, predecessore del nostro, per alcuni speciali e pregiati vini "; e infine si riconduca ai versi del Purgatorio, alla menzione di papa Martino, di cui s'usava " motteggiare l'arrendevolezza a certe squisite cibarie " e che " non fu, certamente " osserva il Mattalia " solo il grasso ecclesiastico e il pacioso gaudente che par farne il poeta " (papa " magnanimo e di grande cuore nei fatti della Chiesa " lo ricorda il Villani); non stenta a convincersi che, nella scelta dei golosi icasticamente profilati prima del colloquio con Bonagiunta, D. fu guidato in buona misura dalla fama popolare e da un'aneddotica ad essa associata non sempre o non del tutto gratuite. Questo criterio di lettura, di chiara evidenza per papa Martino e messer Marchese, si addice pure a B., inducendo nel pasturò - del v. 30 un'allusione arguta, quanto discreta, alla dovizia e splendidezza conviviale del presule - fors'anche, alla sua celebrata munificenza annonaria -, in antitesi con l'inedia-appetizione espressa al v. 28 nell'atto espiatorio di menar a vuoto le mascelle (che sottende, senza esplicitarla, la memoria della sua personale ghiottoneria).
Alcuni riferiscono il verso che pasturò col rocco molte genti semplicemente al governo ‛ spirituale ' dell'estesissima provincia ecclesiastica di Ravenna (16 diocesi suffraganee: ab Arimino usque Parmam). Ma il verbo pasturò - un hapax nella Commedia, dove il sostantivo ‛ pastura ' ha preminente significato di cibo materiale - cadendo in un preciso contesto figurativo, tra i vv. 24 e 31-32, e subito dopo il v. 28, non può non colorirsi di arguzia allusiva e va letto, come il Carducci lo leggeva, in chiave squisitamente epigrammatica. " Ebbe molte genti sotto 'l suo arcivescovado ", parafrasava il Buti; ma anche " pascette molte genti col suo beneficio, imperò che tenea grande famiglia o corte; e come era goloso egli, così molti ne pascea ingordamente ".
Un diretto riferimento al B. dantesco (" genovese "! ) s'incontra nella dannunziana Francesca da Rimini (atto I).
Bibl. - Per i dati biografici e i documenti storico-diplomatici relativi al Fieschi, si vedano le bibliografie in appendice ai volumi di A. Vasina, citati oltre, e quella in calce alla voce Fieschi, B., di E. Ragni, in Diction. d'hist. et de géogr. ecclésiastiques, XVI, Parigi 1967, coll. 1430-1432. Più largo spazio dedicano invece al personaggio dantesco e alla sua più o meno discussa identificazione col Fieschi: F. Savini, Sul verso relativo a B. arciv. di Ravenna, in " Giorn. d. " I (1893) 171-172; E. Casorati, B. Fieschi di Lavagna, arciv. di Ravenna, Argenta 1894; A. Regoli, Interpretazione storico-critica del v. 30 del c. XXIV del Purgatorio, in " Giorn. d. " n.s. XI (1903) 70 ss.; L. Filomusi-Guelfi, Paralipomeni danteschi, Città di Castello 1914, 65-75; E. Levi, Piccarda e Gentucca, Bologna 1921, 20 ss., 78 ss.; Barbi, Problemi I 230; F. Bernini, Innocenzo IV e il suo parentado, in " Nuova Rivista Storica " XXIV (1940) 178-199; Salimbene De Adam, Cronica, II, Bari 1942, 116; A. Vasina, B. F. di Lavagna, tesi Univ. di Bologna, 1952-53; ID., L'elezione degli arcivescovi ravennati del sec. XIII in rapporto con la S. Sede, in " Rivista di Storia della Chiesa in Italia " X (1956) 78-84; A. Simonini, La Chiesa ravennate..., Faenza 1964, 320 ss.; A. Vasina, I Romagnoli fra autonomie cittadine e accentramento papale nell'età di D., Firenze 1964; C. Ricci, L'ultimo rifugio di D., nuova ediz., Ravenna 1965, 107-108, 198, 526; A. Torre, I Polentani fino al tempo di D., Firenze 1966, ad indicem.