BONVESIN da La Riva (Bonvicinus de Ripa)
Le uniche notizie che abbiamo su B. ci vengono dalle sue opere e da una decina di documenti scaglionati fra il 1290 ed il 1315 (cfr. P. Pecchiai, I documenti sulla biografia di Buonvicino della Riva, in Giornale stor. d. letter. italiana, LXXVIII [1921], pp. 96-127, articolo questo di importanza capitale per lo studio della sua vita).
Discordi sono le testimonianze sul suo nome; la forma da la Riva compare nel codice più autorevole, Ital. qu.26 della Deutsche Staatsbibliothek di Berlino e fu adottata e difesa da L. Biadene, Carmina de mensibus di B. da la Riva, in Studi di filologia romanza, IX (1901), pp. 19-20, ed accolta poi da G. Contini, Le opere volgari di B. da la Riva, Roma 1941, vol. I (solo uscito), p. XXXXIII, n. 2. Da Riva, invece, figura negli altri codici volgari, per "semplificazione latineggiante" (Contini). La forma più corrente, de la Riva, è quella latina dei documenti coevi e posteriori (de Lariua o de Laripa) cui si alterna l'altra, più esatta, di de Ripa (o de Rippa) dei due suoi componimenti latini, De vita scolastica e De magnalibus urbis Mediolani, nonché dell'epigrafe tombale scomparsa verso la fine del '600, ma trascritta da antiquari e storici dello stesso secolo (cfr. A. Ratti, B. della Riva appartenne al terz'ordine degli Umiliati, o al terz'ordine di S. Francesco?, in Rendic. d. R. Ist. lombardo di scienze e lettere, s. 2, XXXIV [1901], p. 831). Diverse anche le forme, sempre nei testi latini coevi o di poco posteriori, del nome: Bonus Vicinus, Bonvicinus e, per influenza della pronuncia volgare, Bonvecinus (testamento del 1313), Bovecinus (atto del 9 sett. 1296; cfr. A. Ratti, B. della Riva e i Frati Gerosolimitani, in Arch. stor. lombardo, XIX[1903], p. 193), Bonvisinus, Bonvesinus (Galvano Fiamma), ecc.
B. sembra sia nato a Milano (la Riva è quella di Porta Ticinese) prima del 1250 (per la dimostrazione si veda Contini, p. XXXXIV). Dei genitori non sappiamo nulla tranne il nome del padre, Petrus de Laripa. Fu "magister" o "doctor gramatice" (atto del 9 sett. 1296; "doctor de grammatica" nell'epigrafe) a Legnano (cfr. De quinquaginta curialitatibus ad mensam, v. 1, dove si nomina già "frate", del terzo ordine, quindi laico) e più tardi a Milano, dove sembra si sia trasferito prima del 1288 (anno di composizione del De magnalibus, per cui furono senza dubbio necessarie ampie e minuziose indagini in loco). Oltre al De quinquaginta curialitatibus risalgono ai primi anni della sua attività letteraria le Expositiones Catonis (scritte col medesimo schema strofico, quartine di alessandrini rimati AABB, della prima) e forse anche il Libro delle Tre Scritture, se veramente s'ha da vedere nel Sermone di Pietro da Bescapé (1274) un plagio del poemetto bonvesiniano. Sempre a questo periodo infine va ascritto molto probabilmente il suo intervento a favore dell'Ospizio di S. Erasmo a Legnano cui fanno riferimento l'epigrafe tombale (che gli attribuisce addirittura la sua "costruzione") e i due testamenti (dove però si fa cenno unicamente a certi obblighi, contratti da quell'Ospizio nei suoi confronti). Appartenne sicuramente al terz'ordine degli Umiliati (cfr. la dimostrazione fornitane da L. Zanoni, Fra Bonvesin della Riva fu Umiliato o Terziario Francescano?, in Il Libro e la Stampa, VIII[1914], pp. 141-48, e soprattutto la conferma definitiva nell'art. di P. Pecchiai) e come tale partecipò all'amministrazione di varie istituzioni di carità; attività questa di cui è un'eco nel Vulgare de elymosinis, vv. 245-276 ("Anchora è grand lemosina ke deblan fí aiai Quii hospedhai ke teneno l'infirm abandonai, E plu spicïalmente quii k'en desasïai, Li quai per si no pon se i no fin sustentai..."). Il 2 febbr. 1290 dona 200 lire ai frati dell'Ospedale della Colombetta di Milano, ottenendo in compenso una congrua rendita annuale per sé e la moglie Benghedice. Il documento, molto importante anche per quel che riguarda i rapporti con l'altro ospizio di S. Erasmo, ci prova che il poeta doveva avere raggiunto oramai una certa agiatezza. L'anno seguente (26 marzo 1291) acquista anche uno stabile a Porta Ticinese (parrocchia di S. Vito), dove poi risiederà sino alla morte, tenendovi scuola quanto meno fino a tutto il 1304. Il 9 sett. 1296 viene ricevuto in confratello dall'Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme a Porta Romana. Per gli anni 1303-1305 abbiamo quattro verbali notarili dai quali risulta che era entrato a far parte del Collegio dei decani dell'Ospedale Nuovo o di Donna Bona; ed è proprio nella sede dell'Ospedale Nuovo che B. detta il suo primo testamento (18 ott. 1304). Il poeta, oramai vecchio, lega buona parte dei suoi averi, compresi cattedra, banchi, libri, ecc., alle istituzioni già da lui beneficate, lasciando il resto alla sua nuova moglie Floramonte. Nel secondo testamento, che è del 5 genn. 1313, compaiono nuovi stabili da lui acquistati fuori Porta Tosa, ma non è più fatto il nome di Floramonte, che doveva essere quindi morta nel frattempo, né si accenna a banchi, libri, ecc.: segno questo che il poeta s'era oramai ritirato dall'insegnamento e che aveva già venduto o donato tutte le suppellettili della scuola. La morte deve essere sopravvenuta poco dopo, perché il 13 marzo 1315 Matteo Visconti, signore di Milano, nell'esentare dai fodri passati presenti e futuri lo stabile di Porta Ticinese lasciato da B. ai frati della Colombetta di Milano, parla del poeta come di persona defunta già da un certo tempo.
Fu sepolto, per sua volontà, nel chiostro della chiesa di S. Francesco, per cui non è escluso che abbia appartenuto anche al terz'ordine dei Minori. Ed eccone l'epigrafe: "Hic jacet Frater Bonvicinus de Ripa de ordine/tertio Humiliatorum, Doctor in Grammatica qui/construxit Hospitale de Legniano, qui composuit/multa vulgaria, qui primo fecit pulsari Campanas/ad Ave Maria Mediolani et in Comitatu. Dicatur Ave Maria pro anima eius".
La produzione letteraria di B. comprende opere in latino ed in volgare. Tre sono le opere latine a noi pervenute, due in versi ed una in prosa: i Carmina (o Controversia) de mensibus, in esametri, sul tema, diffusissimo nell'arte e nella letteratura medievali, dei mesi, il De vita scolastica (oppure De discipulorum preceptorumque moribus, o ancora Scolastica moralis)in distici elegiaci tranne gli otto miracula pro exemplo che sono in prosa, opera questa che ebbe larghissima fortuna ancora nel Rinascimento, come dimostrato dalle numerose edizioni, circa una ventina, uscite fra il 1479 ed il 1555, ed infine il De magnalibus urbis Mediolani. Quest'ultimo componimento, scritto in età matura a celebrare i fasti della metropoli lombarda secondo un genere molto comune della letteratura storico-letteraria medioevale, ha un precedente illustre nel Versum de Mediolano civitate (sec. VIII), dove si ritrova fra l'altro il motivo della laboriosità, ricchezza e generosità dei Milanesi.
Dei Carmina de mensibus abbiamo l'edizione (non priva di mende) di L. Biadene pubblicata in Studi di filologia romanza, IX (1901), pp. 1-130, cui segue un importante excursus sul tema dei mesi nell'arte e nella letteratura dell'Antichità e del Medioevo. Notevolissime le correzioni proposte da G. Paris in Romania, XXX (1901), pp. 597-602, come confermato più tardi dalla scoperta del codice Lat. 527 (B 393) della Bibl. di Lucca, indipendente e parallelo di quello usato dal Biadene (Vat. Lat. 3113); cfr. L. Biadene, Un altro manoscritto dei "Carmina de mensibus'' di Bonvesin da la Riva, in Giorn. stor. d. letter. ital., XLIV (1904), pp. 269-74. Per il De vita scolastica, oltre all'edizione di E. Franceschini, Padova 1943, si dispone ora dell'edizione critica a cura di A. Vidmanová Schinidtová: Quinque Claves Sapientiae...,Bonvicini de Ripa. Vita scolastica (Leipzig 1969), pp. 37-113; cfr. la bibliografia fornita da Contini, pp. XXXII s., e dalla Vidmanová-Schmidtová, pp. XXII-XL. Il De magnalibus è stato pubblicato da F. Novati, De Magnalibus urbis Mediolani, in Bullett. d. Ist. stor. ital., XX (1898), pp. 1-188, su di un codice compilato da due amanuensi (Gervasio Corio ed un altro sconosciuto) ora nella Biblioteca Nazionale di Madrid, X, 165, e tradotto poi da E. Verga, Le meraviglie di Milano, Milano 1921. Una nuova edizione, sulla base del testo di Novati, con alcune correzioni e nuova traduzione, fornisce ora A. Paredi in B. de la Riva, Grandezze di Milano..., Milano 1967.
Tranne forse il De quinquaginta curialitatibus ad mensam (N), le Expositiones Catonis (V)e pochi altri componimenti di maggior impegno letterario, i "volgari" di B. erano destinati per lo più alla recitazione ed al canto. "Eo Bonvesin dra Riva mo' voio fà melodia, Quilò voio far sermon dra Vergene Maria". Con questi versi si aprono le Laudes de Virgine Maria (L) e con espressioni dello stesso genere iniziano ancora altri componimenti come ad esempio il De scriptura aurea del Libro (S, III, vv. 1-4), la Disputatio mensium (T, v. 1), ecc. Dati i precedenti della letteratura, quella cioè in quartine monorime di alessandrini, cui appartengono (tranne il De quinquaginta e le Expositiones)i "volgari" bonvesiniani, l'esecuzione orale era in un certo senso d'obbligo. Basti qui ricordarne le applicazioni giullaresche in Francia, dove questa strofa fu usata per la prima volta ad imitazione del tetrastico monocolo di asclepiadei minori della letteratura mediolatina, e quelle sempre giullaresche, ma di tipo particolare, in Spagna, dove, ad iniziativa forse di Gonzalo de Berceo, essa divenne sin dall'inizio del sec. XIII la strofa caratteristica del "mester de clerecía". Sotto questo punto di vista, B. non fa che conformarsi ad una tradizione.
Il "genere" dei componimenti in quartine di alessandrini, diffusosi dalla Francia al resto dell'Europa, ha trovato echi in letterature anche lontane, come in quella islamica della penisola iberica (Poema de Yúcuf), in quella giudeo-francese (lamento del 1288, forse di "R. Jacob, fils de Juda de Lotra") e più tardi in quella inglese (ad esempio The Debate and stryfe betwene Somer and Wynter, traduzione del francese Débat de l'Yver et de l'Esté). Giunta in Italia tramite versioni ed adattamenti (cfr. ad esempio il Chastiemusart, tradotto e parafrasato nei Proverbia quae dicuntur super natura feminarum), o ancora tramite imitazioni (in francese), fra cui importantissima la Preghiera a san Marco (1274-5) di Martino da Canale, la quartina monorima di alessandrini presenta dunque anche nel B. tutti i luoghi comuni e, quel che più conta, la struttura caratteristica di una poesia destinata prevalentemente alla recitazione ed al canto. Frequentissime ad esempio appaiono le "riprese" da una strofa all'altra, come nella poesia epica (cfr. Laudes, vv.397 ss.), e le iterazioni sinonimiche di senso da una strofa all'altra secondo la tecnica delle laisses similaires (cfr. Laudes, vv. 201-8, con ripetizione "a specchio"). Ma questo non basta, perché del genere accoglie anche i temi fondamentali. Tra B. ed i maggiori rappresentanti di questa letteratura in Francia ed in Spagna, l'anonimo autore ad esempio del Poème moral vallone e Gonzalo de Berceo, non esistono sotto questo rispetto differenze sostanziali. Tutti e tre sono soprattutto dei traduttori o meglio dei volgarizzatori della letteratura didattico-agiografica mediolatina, tutti e tre aspirano ad interessare un pubblico più vasto e meno differenziato coi mezzi propri della produzione giullaresca. Di qui il carattere particolare della loro opera e, nel caso delle redazioni bilingui di B. (ad esempio la Disputatio), la precedenza, non solo ideale, della redazione latina nei confronti di quella volgare.
I "volgari" bonvesiniani sono tradizionalmente contrassegnati con le sigle (dalla A alla V) loro attribuita da A. Mussafia sull'inizio della sua Darstellung (pp. 5-40) in base all'edizione semidiplomatica del manoscritto berlinese procurata da I. Bekker (cfr. Bericht der zur Bekanntmachung geeigneten Verhandlungen der k. preussischen Akademie der Wissenschaften zu Berlin, 1850, pp. 322-34, 379-90, 438-64, 478-91, e 1851, pp. 3-16, 85-97, 132-46, 209-20). Quanto alla letteratura medievale in quartine monorime di alessandrini si rimanda a d'A. S. Avalle, Le origini della quartina monorima di alessandrini estratto da Saggi e ricerche in memoria di Ettore Li Gotti, Palermo 1961. La dipendenza dell'opera volgare di B. da quella latina "in caso di redazioni bilingui" è stata dimostrata da Contini, p. XXXXIII.
I "volgari" bonvesiniani sono stati divisi dal Contini in tre gruppi. Al primo gruppo appartengono i contrasti: Disputatio mensium (T), De Sathana cum Virgine (A), De peccatore cum Virgine (I), De anima cum corpore (E, F), Disputatio rose cum viola (G), Disputatio musce cum formica (H). Al secondo gruppo i volgari espositivi e narrativi: Libro delle tre scritture (S), De falsis excusationibus (Q), De vanitatibus (R), De quindecim miraculis (C), De die iudicii (D), Laudes de Virgine Maria (L), Rationes quare Virgo tenetur diligere peccatores (M), Vulgare de elymosinis (B), Vulgare de passione sancti Iob (O), Vita beati Alexii (P). Al terzo infine i volgari didattici: De quinquaginta curialitatibus ad mensam (N), e le Expositiones Catonis (V). Come si vede, E ed F appaiono qui uniti assieme. Per L invece il Salvioni ha sostenuto la necessità di separare le Laudes vere e proprie dal De miraculis Virginis (vv. 97 ss.). "La questione - scrive il Contini, p. XXXXVI - ha tuttavia, nella sua applicazione letterale, importanza limitatissima, poiché è indubbio che Bonvesin concatenava idealmente alcuni suoi volgari". La materia e soprattutto l'ispirazione appaiono infatti sostanzialmente le stesse nelle diverse opere tanto da rendere se non altro problematico qualsiasi tentativo di individuarvi strutture letterarie autosufficienti. La tradizione qui ha peso preponderante e l'apporto personale appare ridotto al solo aspetto tecnico-formale e subordinatamente linguistico della esposizione. Gli auctores sono i Testi Sacri (ad esempio Giobbe, D, v. 25, Matteo, B, vv. 393-96, Paolo, S III, v. 18, Atti degli Apostoli, B, v. 369), i Padri (ad esempio s. Agostino, A, v. 470, e S III, v. 392, s. Gerolamo, C, v. 4), s. Gregorio, B, v. 541, S. Bernardo, A, v. 467, la letteratura religiosa, soprattutto di ispirazione mariana, e quella didattica tanto latina quanto volgare. Le immagini dal canto loro sono derivate dal repertorio dei predicatori. Si veda ad esempio quella della vita terrena che prende dal noto luogo di Giobbe (XIV, 2), "quasi flos egreditur et conteritur" (cfr. De scriptura nigra, S I, vv. 97 ss., "La rosa molta fiadha ke da maitin resplende, Lo so color da sira delengua e dessomente: Cotal si è la vita...", come già nel Poème moral, vv. 1710-11, "Mut at curte duree; il resemble la flur Ki ui est, demain chiet") ed ancora "fugit velut umbra" (cfr. Q, v. 237, "L'offensïon terrena, k'è pur un'ombra leve", S I, v. 109. "Azò k'el no's confidhe in questa ombria vana, Ilcosse transitorie...", ed R dove la parola "ombria" ritorna con insistenza ossessiva), oppure l'altro topos dell'ineffabile (Verg. Aen., VI, 625-27, "Non, mihi si linguae centum sint oraque centum, Ferrea vox, omnes scelerum comprehendere formas, Omnia poenarum percurrere nomina possim"; Visio S. Pauli, "Et si essent centum viri loquentes ab initio mundi, et unusquisque centum linguas ferreas haberet, non possent dinumerare genera penarum inferni", ed infine il B., S I, vv. 281-2, "Se tut le lengu' dei homini k'il mond se pon trovar, De quelle pen grandissime prendessen a parlar, Pur la millesma parte non aven recuintar") da semplice figura retorica divenuto centro addirittura di ispirazione nella prima e nell'ultima parte del Libro, ecosì via.
Altrettanto scarso l'apporto personale nella rappresentazione dei protagonisti degli exempla. Come già nel Poème moral ed in buona parte della letteratura edificante medievale l'impressione che se ne ricava è di un appiattimento psicologico, per cui la lotta fra il bene ed il male finisce con l'ipostatizzarsi in immagini estrinseche, categoriali, sostanzialmente prive di umailità e di verità poetica. Impossibile qui distinguere fra santi e peccatori; tutti parlano lo stesso linguaggio della devozione monastica come ad esempio in L, dove alla conversione dei secondi non manca che il tocco finale di una grazia largita in partenza per la loro devozione a Maria (si veda il malvagio castellano capo di ladroni, il pirata naufragato e tenuto miracolosamente in vita da Maria perché possa confessarsi, Maria Egiziaca ridotta a pura animalità, prima tutta ardori sensuali poi vecchia e macilenta nel deserto). Qualcosa di più si trova forse in B, dove la materia essendo in gran parte autobiografica (cfr. gli accenni all'importanza della devozione per Maria, della confessione e soprattutto delle elemosine) è esposta con maggiore vivacità. Anche in questo caso però il male è riportato più che alle radici della coscienza, all'intervento, tutto esterno, del maligno (travestito da "mal servo" nel De milite, come già da "canevé" nel De castellano di L, oppure ancora da "peregrin" nel De patre cuiusdam Sancti Donati) con la sola eccezione del De ortulano, forse il migliore per certa sua aderenza ad una umanità più umile e quotidiana.
Se dunque B. è incapace di creare personaggi vivi con un loro mondo particolare di affetti e di sentimenti, non si potrà d'altro canto negargli una certa ricchezza di invenzione nelle parti descrittive. Qui egli si mostra per quello che fu veramente, un decoratore, di gusto forse "primitivo", ma non per questo meno efficace soprattutto nella rappresentazione di paesaggi e di scenette non dissimili nella loro ingenuità da certi dipinti due e trecenteschi brulicanti di eremiti, frati ed anacoreti rapiti in estatiche visioni o, più prosaicamente, intenti nelle loro occupazioni quotidiane. Si vedano ad esempio i due ultimi miracoli di L, del monaco a cavallo, accompagnato da una "bellissima dona", che, invisibile, raccoglie sotto la sua barba con un gran panno candido le "rose marine, (gli Ave-Maria) che uscivano dalla sua bocca, od ancora delle lettere dorate incise sui petali di un bellissimo fiore che affonda le sue radici nel cuore del monaco Ave-Maria; lo stesso dicasi della descrizione delle gioie del paradiso nella Scriptura aurea, dove a città di sogno seguono visioni di angeli e di beati in lunghe teorie di volti radiosi e di vesti splendenti, scene di feste e di banchetti, giullari che suonano "versit de cortesia", angeli servizievoli, paesaggi di erbe e di fiori, profumi e melodie. Tutti motivi questi, indubbiamente di maniera, che si ritrovano puntualmente altrove, come ad esempio nella prima parte dei Millagros del Berceo o nel De Ierusalem di Giacomino da Verona (e più tardi in Dante), ma lavorati con finezza eduna artigianale onestà che ricorda l'arte di certe predelle d'altare del primo Trecento lombardo.
Fonti e Bibl.: Per il testo dei "volgari" bonvesiniani cfr. G. Contini, Le opere volgari di Bonvesin da la Riva, cit. Edizioni parziali a cura del Contini in Saggio d'un'edizione critica di Bonvesin da la Riva, in Mem. d. R. Ist. lombardo di scienze e lettere (classe di lettere) XXIV (1935), pp. 237-72 (edizione e commento linguistico filologico di B), in Cinque volgari di Bonvesin da la Riva, Modena 1937 (edizione di A, H, C, M e N con glossario) ed infine nei Poeti del Duecento, Milano-Napoli 1960, I, pp. 667-712 (edizione commentata di G, L ed N). Per edizioni precedenti cfr. la bibliografia di queste opere e Poeti del Duecento, II, pp. 845-46. Studi importanti sulla lingua di B. sono A. Mussafia, Darstellung der altmailändischen Mundart nach Bonvesin's Schriften, in Sitzungsberichte der k. k. Akademie der Wissenschaften in Wien, Phil.-hist. Klasse, LIX (1868), pp. 5-40 e C. Salvioni, Osservazioni sull'antico vocalismo milanese desunte dal metro e dalla rima del codice berlinese di Bonvesin da Riva, in Studi letterari e linguistici dedicati a Pio Rajna, Firenze 1911, pp. 367-88; Id., Bricciche bonvesiniane, in Miscell. di studi critici edita in onore di A. Graf, Bergamo 1903, pp. 391-404 e G. Contini, Per il trattamento delle vocali d'uscita in antico lombardo, in Italia dialettale, XI (1935). Sul lessico cfr. A. Seifert, Glossar zu den Gedichten des Bonvesin da Riva, Berlin 1886 (importante recensione di C. Salvioni, in Giornale storico della letteratura ital., VIII[1886], pp. 410-24). Sull'opera del B. in generale, vedi A. Rossi, Poesia didattica e poesia popolare del Nord, in Storia della lett. ital., I, Milano 1965, pp. 470-486, 508; A. Potthast, Rep. fontium hist. Medii Aevi, II, pp. 562 s.