Borghesia
'Borghesia' e 'borghese' sono termini che mirano a denominare, nell'uso oggi corrente, un gruppo sociale storico proprio della civiltà europea e occidentale, germinato in età basso-medievale, e tuttavia tipico soprattutto dell'età moderna e contemporanea. Nell'età contemporanea la borghesia sarebbe divenuta addirittura gruppo sociale dominante, tale da caratterizzare l'insieme della società e persino i prodotti culturali di questa. Ma le parole 'borghesia' e 'borghese' tendono a denominare anche un mondo di valori, di mentalità, di stili, di abitudini sociali, di maniere. E questo viene assunto come punto di gravitazione culturale e morale di comportamenti e di atteggiamenti adottati anche da soggetti di altri gruppi (per cui si parla di atteggiamento, mentalità, stile, ecc. 'borghese', da chiunque adottato, o, più in generale, di 'imborghesimento', poniamo, della nobiltà o, su versante opposto, della classe operaia o di parti di tali gruppi sociali).Nell'un caso - riferimento a un gruppo sociale staticamente inteso - diremo qui, convenzionalmente, che si tratta di una nozione 'realistica' di borghesia (come è proprio della nozione di classe borghese nel senso di Marx, che la incardina al principio della proprietà - libera e negoziabile - dei mezzi di produzione e a un livello tecnico evoluto e industriale di questi). Nell'altro caso - riferimento a spirito, mentalità, stile, ecc. - ne parleremo, sempre convenzionalmente, come nozione 'simbolica' di borghesia. Nell'uso storiografico è infatti frequente l'espressione 'spirito borghese', specie sulla scia dell'opera di Max Weber che associò l'etica protestante alla formazione del Geist des Kapitalismus, o l'altra espressione 'mentalità borghese', che ha però, nel suo uso più comune, un senso piuttosto diverso. L'espressione, nel suo uso simbolico, può essere infatti caricata di significati che hanno oscillazioni di grande ampiezza: da un sottinteso quasi eroico, come nel Marx del Manifesto del partito comunista, o nella citata opera weberiana, alla marcata volontà di evocazione, frequentissima, specie in letteratura - saggistica, narrativa e teatro -, di una angustia di orizzonti (l'esempio d'obbligo è Flaubert: "J'appelle bourgeois quiconque pense bassement"). È singolare come possa anche associarsi, in uno stesso autore, una visione eroica del ruolo della borghesia-classe a una visione sprezzante della borghesia-mentalità: tipico un Guizot, di cui faremo cenno più avanti come apologeta fra i massimi, nelle sue opere storiche, del ruolo della borghesia, il quale però definisce, in altra sede, il mondo spirituale di quest'ultima "quella regione media delle esistenze dove spesso tutto è volgare senza che niente sia semplice" (v. Pozzi, 1974).
È bene sottolineare, in ogni caso, come né nell'ambito della nozione realistica, né in quello della nozione simbolica, ci si trovi di fronte a determinazioni univoche, nonostante la singolare sicurezza con la quale il termine, nella forma sostantivale come in quella aggettivale, viene per lo più usato. Si è parlato e si parla spessissimo di 'società borghese', 'civiltà borghese', 'età della borghesia', 'rivoluzione borghese', 'dominio della borghesia', 'Stato borghese', oppure di 'spirito borghese', 'ideologia borghese', 'arte borghese', 'romanzo borghese', ecc., e, persino, di "comportamenti indiscutibilmente borghesi" (v. Gay, 1984), evocando impressionisticamente un mondo di connotazioni che spesso, a una ispezione fattuale e/o analitica, non trovano poi soddisfacenti riscontri.Ciò ha dato e dà luogo, assai spesso, a confusioni ed errori di valutazione e di giudizio nelle scienze sociali e storiche. Ne sono derivate anche critiche all'uso del termine, di varia autorità e impostazione. Fra le prime e più note è da registrare quella di Benedetto Croce (v., 1931), il quale appare propenso, tuttavia, ad ammettere l'impiego della parola 'borghese' come "concetto economico", per designare "il possessore degli strumenti di produzione"; o, anche, l'uso di essa "in senso sociale" per definire, "quel che non è né troppo alto né troppo basso, il 'mediocre' nel sentire, nel costume, nel pensare" (quindi, sia in un uso realistico che simbolico - per rifarsi alle formule qui adottate - purché circoscritto). Croce condannava, invece, la propensione a usare il termine per "intendere una personalità spirituale intera e, correlativamente, un'epoca storica, in cui tale formazione spirituale domini o predomini" (l'occasione era data al filosofo napoletano dall'uscita di un'opera di Bernard Groethuysen - v., 1927 - sulle origini dello "spirito borghese" in Francia). Croce fa risalire l'impiego allargato del termine al mondo delle polemiche post-rivoluzionarie del primo Ottocento e ne menziona come capostipite Saint-Simon, attraverso il quale lo vede introdotto nella storiografia (Croce pensava probabilmente al sansimoniano Thierry, storico del Terzo Stato; è vero, comunque, che Saint-Simon era approdato all'uso di questo termine: v. Gruner, 1986. Non si tratta quindi di una svista crociana, come taluno ha ritenuto: v. Garosci, 1966).
In ogni caso le ambiguità nell'uso del concetto di 'borghesia' andavano e vanno ben oltre quelle rilevate dal Croce, invadendo lo stesso spazio che a questi pareva legittimo consentire. Le testimonianze ulteriori di un'aggravata crisi semantica al riguardo non mancano. Qualche decennio dopo lo scritto crociano, un altro storico, grande ricercatore e organizzatore di ricerca, quale Ernest Labrousse, inquadrando un programma di lavoro su questo gruppo sociale in età contemporanea, si rifiutava di darne una previa definizione considerandola impresa ardua e dispersiva ("Definir le bourgeois? Nous ne serions pas d'accord [...]. D'abord l'enquete. D'abord l'observation. Nous verrons plus tard pour la definition": v. Labrousse, 1955). Si può continuare a lungo con testimonianze autorevoli di analogo tenore, via via più recenti: ricorderemo quella di un importante storico del pensiero politico ("Il termine 'borghese' [...] è diventato uno dei termini meno determinati negli scritti storici e politici": v. Macpherson, 1962) o quella di uno storico del Rinascimento ("Non ci sono due storici che ormai siano d'accordo sul significato da dare ai termini 'nobile' e 'borghese"': v. Huppert, 1977). Uno storico sociale dell'età contemporanea: "The concept 'middle class' is one of the most enigmatic yet frequent in the social sciences" (v. Stearns, 1979). La parola "non ha mai avuto la buona ventura di essere definita in senso stretto" (v. Gruner, 1986). Storici italiani dell'ultima generazione fortemente impegnati in questo campo di ricerche: "terreno incerto (e, in sé, astratto) di una definizione della categoria di middle class o 'borghesia"' (v. Macry, 1986). "Ogni volta che si prende a parlare di 'borghesia' - o di classi medie, di ceti dirigenti, di élites - si pone preliminarmente un problema di definizione così intricato da esaurire qualsiasi discorso che si possa fare sull'argomento. Il caleidoscopio si infittisce ancora se poi giochiamo agli incroci linguistici: cosa significa middle class in un testo italiano, bourgeoisie in un testo inglese, o espressioni in più lingue in uno stesso testo, come Bürgertum e bourgeoisie che convivono in un testo tedesco, ad esempio nel Manifesto di Marx ed Engels?" (v. Romanelli, 1988).
Sempre in ambiti storiograficamente autorevoli, qualcuno arriva addirittura a sostenere che l'ambiguità del concetto corrisponde a un'ambiguità della cosa: l'identità stessa della borghesia sarebbe incerta, mimetica e traditrice, senza fermezza di mete e di valori. La borghesia eroe di un'epoca e portatrice di valori dovrebbe considerarsi null'altro che un mito, costruito attraverso "la reificazione di un attore esistenziale, il borghese (burgher) urbano del tardo Medioevo in una essenza impalpabile, il borghese che conquista il mondo moderno, che passa da una mano all'altra con una mistificazione relativa alla sua psicologia e alla sua ideologia". Conservatori, liberali e marxisti si sarebbero dati la mano nella costruzione di questo mito dell'individualista e del benthamista. Ma nel mondo moderno l'individualismo sarebbe, sì, una importante realtà sociale, non però la (fondamentale, unica) importante realtà sociale: il capitalismo non sarebbe completamente liberista, individualista, proprietarista, ma solo parzialmente, e questa sola constatazione basterebbe a demistificare quel mito (v. Wallerstein, 1988). E nell'area di un marxismo oltranzisticamente eterodosso: "La mia convinzione [è...] che la categoria della 'borghesia come classe' sia estremamente ambigua [...]. La borghesia ha una sola continuità: quella della funzione del denaro. Del denaro come moneta, non come capitale [...]. Il concetto 'classe borghese' è un concetto apologetico, tutto legato a una particolare fase dello sviluppo capitalistico, quella in cui società civile e Stato hanno trovato un'alleanza specifica" (v. Negri, 1978).
Molte delle difficoltà in questione possono probabilmente ricondursi alla confusione spesso generata dalla sovrapposizione dei due approcci - quello economico-sociale, o realistico, e quello psicologico-sociale, o simbolico - sopra ricordati; molte, invece, a un altro tipo di confusione, il quale ha origine nella sovrapposizione di definizioni forgiate sull'osservazione - magari essa stessa semplificata - delle realtà dell'età contemporanea a contesti storici diversi. Va notato, però, che queste sovrapposizioni non sono sempre evitabili, perché la nozione di borghesia si porta addosso, quasi in ogni distinto momento, tutto il peso della sua storia e par proprio che non possa fare a meno delle evocazioni semantiche di nessuna parte di questa storia.Nella nozione di borghesia, sotto qualsiasi angolo visuale la si consideri, vi è infatti un elemento di storicità particolarmente accentuato. Questa affermazione vale in due sensi. In primo luogo perché, nella plurisecolare e quasi millenaria storia del termine, il referente oggettivo di questo ha mutato volto e il suo uso culturale si è molto diversificato ("Forse non era proprio la stessa borghesia" osservava acutamente Marc Bloch - v., 1949 - di fronte alla corrente imputazione di più atti di nascita, distanziati di secoli, a uno stesso soggetto storico). In secondo luogo perché le determinazioni del concetto si presentano per lo più, nei più diversi contesti, entro una coppia di opposti ("Quasi sempre il concetto di borghese ci si presenta come termine di una dicotomia": v. Romanelli, 1988), quando non, addirittura, entro una doppia coppia simultanea di opposti. Come un opposto, cioè, sia a situazioni e valori radicati nel passato, sia a situazioni e valori radicati nel presente-futuro, nel senso che questi si presumono (o si auspicano) come tendenti a sostituirsi a quelli borghesi, o come un opposto agli uni e agli altri insieme, con una valenza bifronte. La vicenda storica della borghesia, a partire dalla metà del XIX secolo - diciamo dal 1848 - è pertanto concepita per lo più, esplicitamente o implicitamente, come una vicenda di ascesa, egemonia e declino. Nell'ultima parte vedremo però come a questa visione se ne sia potuta, alla fine, contrapporre un'altra, in chiave, viceversa, di mediazione e d'integrazione, non priva, peraltro, di suoi precedenti.Storicità, nel senso anzidetto, vuol dire che la borghesia, il mondo della borghesia, l'età della borghesia sono generalmente considerati latori di una rottura delle pretese di universalità e di stabilità nei ruoli sociali e nel mondo dei valori e quindi come soggetti, essi stessi, a un destino di transitorietà. In questo senso la storicità della condizione borghese è vissuta entro una visione nemetica (una visione nemetica non è solo quella celebre di Marx, ma si trova anche in un Kierkegaard: v. Löwith, 1941), che vendica, cioè, la distruzione di un mondo di sicurezze tradizionali; un tale mondo era però, anche, si potrebbe dire, un mondo tradizionale di sicurezze, cioè un mondo che oggi definiamo tradizionale proprio perché governato dal principio psicologico della sicurezza spirituale. La polemica antiborghese fa registrare pertanto convergenze (fra correnti culturali che si dichiarano eredi del passato e correnti culturali proiettate nel futuro) che si può ipotizzare abbiano origine in questo coinvolgente trauma storico proprio della modernità.
Borghesia è, dunque, come si è detto, nozione fortemente antitetica, che si determina pienamente, cioè, ed essenzialmente, attraverso le negazioni storiche che esprime o che le vengono contrapposte. Tali coppie di opposizioni sono però molteplici e di diversa natura; ed è da notare che non sempre, nel loro porsi come coppie, si presentano come alternative fra loro: possono anche sovrapporsi con intersezioni. Alcune di esse sono strettamente pertinenti a contesti storici del passato, altre appartengono all'uso del presente: l'insieme di esse, tuttavia, sta in un continuo culturale, talché anche significati e contrapposizioni di epoche remote permettono di gettare luce sui significati presenti e, a volte, viceversa.
Talune opposizioni sono relative alla posizione economico-giuridica, altre sono, invece, di mentalità e assunzione di valori. Accenniamo le principali fra le prime: inurbato/rurale; condizione personale libera/condizione personale assoggettata; titolarità/non titolarità del diritto di cittadinanza; presenza civile, partecipativa e sociale/presenza meramente privatistica e anagrafica (come nella contrapposizione bourgeois/citoyen da Rousseau a Hegel); status di privilegio nobiliare/status di distinzione per merito-successo (nell'ancien régime); titolarità libera e mercantile di proprietà/titolarità di possesso derivante, o vincolata, da prerogative feudali; condizione civile/condizione militare; proprietà/non proprietà dei mezzi di produzione e di scambio (in quest'ultimo caso la nozione di borghese viene a coincidere tout court con quella di 'capitalista' quando, però, si associ all'ingaggio di mano d'opera salariata).
Altre opposizioni sono, invece, di mentalità e assunzione di valori, e sono spesso opposizioni non sempre coerenti fra loro: individualismo/solidarismo; razionalità strumentale e utilitaristica/valori non utilitaristici; spirito innovativo/spirito tradizionalistico (ma anche, per contro, quietismo, propensione al pregiudizio, grettezza abitudinaria/spirito d'avventura, disordine creativo e apertura mentale); mentalità acquisitiva/mentalità dissipativa (ma oggi, invece, in diversa contrapposizione, propensione al consumismo/propensione ai valori immateriali).
Tenuto conto della continuità storica che lega i mutamenti nell'uso del termine e che si riflette, tra l'altro, nel riconoscimento retroattivo che la cultura compie dei referenti di nozioni messe a punto successivamente, appare possibile e opportuno tentare un confronto sommario per epoche storiche a tre livelli: di ciò che si è inteso, in ciascuna epoca, per borghesia; dello stato reale delle articolazioni sociali in ogni periodo in base alle conoscenze presenti, ma, per quanto possibile, prescindendo dai nominalismi storiografici; di ciò che la storiografia, invece, esplicitamente denominando e interpretando ha inteso e intende per borghesia relativamente alle singole epoche. Seguendo questa pista si vorrebbe qui pervenire alla conclusione che non sia impossibile, con adeguate chiavi di lettura, decifrare pazientemente le molteplici valenze della usatissima categoria e individuarne usi propri e impropri, significativi e insignificanti, isolando le prevaricazioni concettuali e le mitologie costruite sulla confusione, e restituendo queste ultime, in ogni caso, al loro senso soggettivo, che appartiene esso stesso, ormai, alla storia delle idee. E che sia possibile, con più parsimonia ed entro ambiti forse meno caratterizzanti e comunque meno epocalmente polemici, continuare a servirsene.
Per la prima volta il termine burgensis sarebbe testimoniato nel 1007 in latino e nel 1100 in francese come burgeis (v. Matoré, 1985). Anche se "il senso etimologico non dice più nulla del contenuto moderno, attuale, della parola" (v. Chabod, 1930), esso resta essenziale per la storia. L'etimologia del termine, infatti, non dà luogo a dubbi: essa induce chiaramente ad associare le prime origini della borghesia alla rinascita cittadina verificatasi in Europa sul finire del Medioevo. Dirà, a processo ormai maturato, Salimbene da Parma (XIII secolo) che "i nobili vivono in campagna e nei loro possedimenti, invece i borghesi abitano in città". Sembrerebbe chiarissimo, ma le cose sono un po' più complicate di come appaiono a prima vista.
Il termine burgus appartiene al tardo latino del IV secolo. È termine usato nei secoli con oscillazioni semantiche, nel tempo e nello spazio geografico e linguistico, che includono/escludono volta a volta le idee di fortificazione e intramuralità e che forse riflettono la complessa e non uniforme vicenda di una nuova realtà urbanistico-sociale non militare che si afferma di contro a quella militare-feudale del castello-fortificazione. Da burgus deriva il termine burgensis; questo appare dall'XI secolo, sempre nell'area del Rodano, della Saona e della Loira, per designare l'abitante di un burgus e, in seguito, nei luoghi dove tali burgi vengono privilegiati, per l'abitante di un insediamento privilegiato e reso libero.Con questo punto di partenza si spiega come nell'area di lingua tedesca burgensis divenga la designazione mediolatina dell'uomo di condizione giuridica borghese, che in tedesco si chiama burgaere (poi burger), nonostante che, in quella lingua, si verifichi uno sviluppo contraddittorio: il termine burg è, infatti, sostituito da stadt se ci si riferisce a una città, e alla fine torna in uso solo per designare una fortificazione; burgaere, invece, sopravvive sempre più raramente come designazione dell'abitante del castello, e - in evidente parallelo col mediolatino burgensis e con l'uso dell'area di lingua latina - alla fine indica ormai solo l'abitante della città con la relativa posizione giuridica (burger; v. Ennen, 1972). Anche in Inghilterra, dove assai più tardi si sarebbe sviluppata tutt'altra linea lessicale (con i termini middle-man e middle-class) - ma che non è, poi, fatto meramente lessicale e lo vedremo più avanti - è presente la forma mediolatina: i capifamiglia delle città medievali sono burgesses; e burgage tenure è il titolo di possesso libero e pieno, privo di vincoli (v. Postan, 1972).
È indubbia, quindi, una relazione fra la rinascita bassomedievale del fenomeno cittadino e la comparsa di una figura giuridico-sociale nuova, cui va l'appellativo, ancora marginale, di 'borghese'. Ma la storiografia ha da tempo rettificato l'equivoco di quegli studiosi dell'Ottocento (persistito anche in questo secolo) che, nel desiderio di dare - come disse Gino Luzzatto - una spiegazione economica dell'origine dei comuni cittadini, tesero a presentare questi ultimi come una vittoria del capitale mobile sulla ricchezza immobiliare, della borghesia mercantile sulla nobiltà terriera (v. Luzzatto, 1966) e a fare di un borghese mercantile l'eroe fondatore di quella città raffigurata come luogo e struttura portante della civiltà moderna. Viene invece sempre più sottolineata, nelle origini cittadine e comunali, specie italiane, "la potenza della proprietà terriera, elemento nobiliare nel comune dei primi tempi", e si tende "a sfatare un concetto nel quale gli storici del XIX secolo volevano identificare la natura stessa delle repubbliche cittadine. A loro parere - questa idea estremamente caratteristica è eternata nel Manifesto dei comunisti - il tipico cittadino medievale andrebbe riconosciuto nel burger ('borghese'?), che coltiva i suoi traffici e non la proprietà terriera, e che pensa non già alla sua spada (se non in casi estremi, quando è provocato dalle forze del feudalesimo) bensì al suo guadagno; è il cittadino che come ambiente naturale ha il magazzino e la bottega artigiana, non il castello o la campagna, e i cui cavalli servono a trasportare merci, non a cacciare o a combattere. Ma l'esemplare autentico di questo burger si potrebbe forse rintracciare a Gand, a Lubecca, a Londra (o magari neanche qui?); non si riesce invece a individuarlo nelle città italiane, dove, in larga misura, il fondamento delle libertà politiche e il tono della politica stessa venivano dai proprietari terrieri. Questi nobili, inoltre, erano spesso dediti anch'essi alle industrie e ai commerci; e i cittadini eminenti, anche se personalmente non erano di discendenza 'feudale', derivavano in gran parte la loro mentalità da quelli che lo erano. L'etica del cavaliere permeava la popolazione di città" (v. Waley, 1978²; per un'aggiornata messa a punto v. Rossetti, 1977). "È tempo di ridare alla nobiltà il suo posto" conclude un recente storico del Medioevo italiano che intitola la sua ricostruzione economico-sociale alla "leggenda della borghesia" (v. Jones, 1978).
Oggi, la storiografia rifiuta comunque di considerare il problema delle origini cittadine, come aveva tentato Pirenne (v., 1927), secondo moduli di omogeneità (v. Capitani, 1971). E, in ogni caso, si tende a distinguere fra città dell'Europa settentrionale e città dell'Europa meridionale: "Anche all'interno dei centri urbani dell'Europa meridionale il ruolo trainante fu svolto dal commercio e dalle attività produttive, ma queste città furono caratterizzate dal fatto che la nobiltà rimase prevalentemente al loro interno, oppure venne costretta a trasferirvisi, allorché queste avevano esteso la propria autorità alle campagne circostanti. Mentre la città nell'Europa meridionale aveva un carattere nobiliare-borghese, nel Nord invece essa si distingueva nettamente dalla campagna, in cui vigeva il rapporto nobili-contadini. In altre parole, nel Sud la nobiltà mantenne il proprio carattere anche quando risiedeva in città; nel Nord, invece, in questo caso essa perdette il proprio status nobiliare, imborghesendosi. Al contrario, i ricchi patrizi che avevano acquisito delle signorie terriere entrarono a far parte della nobiltà rurale" (v. Brunner, 1978). Due forme tendenzialmente diverse di intreccio, dunque, ma pur sempre intreccio, fra figure sociali antiche, che si reimpongono con la forza di un super-ego storico, e figure nuove che non riescono a liberarsi del fascino degli antichi modelli di superiorità sociale e quindi dell'aspirazione a trasformare ricchezza fresca (distogliendola dal suo circuito di formazione, caratterizzato da fertile riproduttività) in forme tradizionali di distinzione sociale e di sicurezza, a scarso dinamismo economico. Il crescere di attività economiche che si fanno tipicamente urbane, con dimensioni cospicue e specializzazione, quale il commercio a grande distanza, la banca e le prime manifatture, non dà veramente luogo, in sostanza, al predominio sociale di una figura radicalmente opposta a quella nobiliare: la condizione creata dal guadagno mercantile è piuttosto vissuta come momento transitorio di un itinerario sociale orientato su mete tradizionali; l'emergere stesso di tale condizione è parimenti vissuto come fenomeno che si integra in un assetto sociale tradizionale e non si oppone a esso se non per penetrarvi (con ciò, inevitabilmente, mutandolo, e tuttavia non sopprimendolo). Nel comune di Firenze, già verso la metà del Duecento, comincia a 'democratizzarsi', divenendo oggetto di mercato, la dignità cavalleresca (v. Salvemini, 1899). (Scriverà il Boccaccio che a taluni, però, la cavalleria sta "come la sella al porco").
È stato osservato (v. Wallerstein, 1988) che questa nuova figura sociale, proprio mentre faceva la sua comparsa, era completamente ignorata nella dottrina medievale dei tre ordines della società: i bellatores, cioè gli atti alla milizia, in cui convergono anche funzioni politiche di dirigenza; gli oratores, coloro che pregano, vale a dire il clero; i laboratores, gli addetti, cioè, al lavoro manuale e principalmente alle fatiche campestri (v. Duby, 1978). Le strutture e i valori di questa società tendono a riassorbire socialmente i potenziali embrioni di un nuovo gruppo sociale, pur nel permanere e consolidarsi delle novità economiche. La vera novità sociale è piuttosto la stessa pressione verso l'alto, che dà luogo a un crescente senso di mobilità sociale verticale (naturalmente ancora assai selettiva), una prospettiva di diffusione del privilegio (non della sua soppressione), correlata alle congiunture economiche. I conflitti, collettivamente affrontati quando e dove ci sono, paiono piuttosto conflitti difensivi, per l'autonomia e lo spazio di movimento o, se offensivi, per l'omologazione verso l'alto. Questo resterà un tratto caratteristico e ricorrente delle varie e susseguentisi incarnazioni o mutazioni storiche di ciò che si è successivamente inteso per 'borghesia'.
Ma non è tutto. Se nelle attività mercantili si può riscontrare l'elemento più significativo della nuova realtà cittadina e borghese, non si deve in ogni caso perdere di vista che 'borghese', in quel contesto storico, è sostanzialmente una condizione giuridica, non economica. Chi esercita attività mercantili con successo economico condivide tale condizione sia con operatori economici di più basse fasce di reddito, e anche dediti ad attività manuali, sia con altre figure sociali o professionali: giudici, notai, medici, farmacisti, professori. (E non si dimentichi che il 'giuridico' di un mondo in cui non vige il principio dell'eguaglianza giuridica è sociologicamente cosa diversa dal 'giuridico' in cui quel principio vige). Questa caratteristica composita dell'aggregato 'borghesia' non è solo un fenomeno delle origini: è un altro tratto che ricorre in tempi storici diversi, anche se in modi che variamente riflettono, nell'uso semantico, conflitti e tensioni sociali interne. L'averlo perso talvolta di vista, come si vedrà, è stato fonte di molti equivoci.
È sostanzialmente postuma, quindi, l'attribuzione della qualifica di 'borghese' al personaggio culturalmente innovativo - e addirittura rivoluzionario - che, in questo clima di ambiguità sociale, si affermerebbe nel mondo urbano europeo fra i secoli XV e XVI. In questo mondo, 'borghese' è termine che, dove attecchisce, si riferisce, come si è visto, dapprima a una condizione giuridica, legata a diritti derivanti dalla cittadinanza nei rapporti dell'abitante di città con l'autorità monarchica o signorile, e slitta poi semanticamente verso la parte superiore del coacervo sociale che compone la comunità cittadina: si ha, in pratica, come una espulsione semantica degli strati inferiori, ancorché accomunabili a quelli superiori sotto il profilo giuridico; la qualifica, da giuridica, diviene così, in sostanza, sociale. Tuttavia, nel momento in cui si viene formando una nuova tensione fra alto e basso nella società, si manifesta, altresì, l'aspirazione all'abbandono del rango intermedio da parte delle creste sociali cittadine. È questa, probabilmente, la fase storica relativamente alla quale esiste maggiore non-convergenza tra l'ottica delle auto-rappresentazioni coeve, le funzioni economiche reali e contingenti e le ricostruzioni estrapolative della storiografia.
Considerando questo periodo - ancora la fase iniziale, cioè, dell'età moderna - dobbiamo quindi fare i conti con la sovrapposizione di un uso corrente - che va prendendo forma e facendosi strada lentamente fra i contemporanei (in certe aree europee, dalle quali poi si ramificherà generalizzandosi) e che si polarizza su una connotazione incerta, e anche stagnante, di 'medietà' - e di un uso 'idealistico' suggerito da certa storiografia otto-novecentesca, posteriore a un 'trionfo' (vedremo poi di quali effettivi connotati, esso stesso, dotato) di valori borghesi, e orientata su requisiti di innovatività, avanguardia, creazione di civiltà razionalistico-tecnica.L'eroe di questa storiografia è il titolare dello spirito capitalistico. La teoria dello spirito capitalistico si deve a Max Weber, autore di un'opera fra le più discusse di questo secolo e tuttora, comunque, assai apprezzata, nonostante le riserve della successiva storiografia, per la ricchezza e complessità delle sue implicazioni sociologiche (v. Poggi, 1988). Per Weber, il dato essenziale dello spirito capitalistico si colloca nella nobilitazione etica, cioè meta-utilitaristica, del 'far danaro': "Il guadagno è considerato come scopo della vita dell'uomo e non più come mezzo per soddisfare i suoi bisogni materiali" (v. Weber, 19041905). Questa nobilitazione etica altro non è che l'assunzione del profitto, e dei modi per perseguirlo, a valore professionale-vocazionale-missionario (Beruf), quindi non piratesco e occasionale, ma soggetto invece a regole severe e tale da venire riconosciuto dotato di dignità. "Il summum bonum di quest'etica, il guadagno di denaro e di sempre più denaro, è così spoglio di ogni fine eudemonistico o semplicemente edonistico, è pensato in tanta purezza come scopo a se stesso, che di fronte alla felicità e all'utilità del singolo individuo appare come qualche cosa di interamente trascendente e perfino di irrazionale'. Weber ritiene che una concezione siffatta - che egli trova nitidamente espressa in un autore settecentesco come Benjamin Franklin - avesse bisogno, per affermarsi e aver ragione di opposti o diversi modi di vedere tradizionali 'non in alcuni individui isolati' ma in 'interi gruppi di uomini', di potersi fondare su convinzioni religiose: poi, ma solo poi, avrebbe potuto imporsi con la forza della selezione che esclude gli inadatti e i meno dotati.Quelle convinzioni religiose si sarebbero formate, nell'Europa del Cinquecento e del Seicento, con il calvinismo e la sua etica della predestinazione divina, riconoscibile, questa, dall'uomo nell'esistenza terrena attraverso il successo, considerato come manifestazione e prova della grazia concessa in cielo. Molte e argomentate, come si è detto, le critiche a questa visione weberiana (v. Lüthy, 1965; v. Trevor-Roper, 1967): esse appaiono, però, quando le si legga con attenzione, rivolte ai particolari, poco interessate ai nessi effettivamente sottolineati da Weber, e non tali da poter negare, in ogni caso, l'evidenza storica di macro-correlazioni, che resterebbero comunque da spiegare, fra aree etniche calviniste e aree di iniziativa e di successo capitalistico. Qualcuno (Lüthy, per esempio) inclina a sottolineare, nella ricerca di una spiegazione alternativa, la coincidenza fra religiosità riformata e situazioni o aspirazioni di libertà, che sarebbero il vero ambito propizio all'intraprendenza economica; altri sottolineano l'inclinazione verso attività non tradizionali, effetto, come per gli ebrei, della propensione 'deviante' (come gruppo) nei comportamenti sociali, cui induceva la posizione di minoranze discriminate. Tutto ciò può anche avere un suo fondamento, ma non sta qui il senso profondo della tesi weberiana. Ancorché fosse da assumere solo come mera metafora dei requisiti idealtipici di un capitalismo vincente, essa conserverebbe grande suggestione esplicativa (quanto meno come matrice di più appropriati modelli) per la comprensione di certi fattori selettivi che operano, a livello per l'appunto sociologico, nella storia, tuttora in svolgimento, del confronto e della competizione di economie capitalistiche di aree di differente tradizione religiosa: forte etica del lavoro, legittimazioni retrostanti di spessore religioso, scelte più rigorosamente ispirate a razionalismo strumentale.
Questa analisi weberiana è stata considerata parte di una visione d'assieme della 'storia sociale della borghesia occidentale' (v. Poggi, 1988) che si troverebbe principalmente nel saggio La città (v. Weber, 1922) di cui L'etica protestante costituirebbe idealmente un capitolo. La visione weberiana è tuttora da considerarsi del più grande interesse (le obsolescenze indicate da Pietro Rossi - v., 1987 - riguardano gli orizzonti della modellistica comparata delle città in un'ottica mondiale, non la storia della Bürgertum) perché evidenzia, con la peculiare intelligenza sociologica propria di questo autore, giuridicamente disciplinata e dotata di forte senso storico, gli elementi che permettono di orientarsi in un mondo che non conosce le nostre distinzioni concettuali (per esempio, e principalmente, quelle fra politico ed economico o fra pubblico e privato o fra sociale e religioso). Senza tali distinzioni però, noi rischiamo sempre di ricostruire il passato in un linguaggio non tradotto, cioè di non ricostruirlo affatto (pericolo inverso, ma non minore, rispetto a quello di appiattirlo intrinsecamente su moduli del presente: spesso, poi, le due cose si sommano).
Weber individua, in sostanza, tre fasi nella storia (originaria e cittadina) della borghesia. In una prima fase costitutiva (X-XI secolo) l'elemento significativo sarebbe una sorta di conjuratio (affratellamento giurato) fra cittadini, che usurpano (per lo più gradualmente, attraverso compromessi successivi) la facoltà di rottura del diritto signorile, quella che è la "grande innovazione sostanzialmente rivoluzionaria della città occidentale del Medioevo rispetto a tutte le altre". È un tratto distintivo di questa usurpazione il suo fondarsi su un rituale cristiano che, come tale, fa capo a individui (donde una conferma dell'importanza epocale dell'individualismo cristiano) e non a gruppi (etnici, tribali, castali) secondo un "vincolo magico animistico" (tutt'altra cosa da un totem essendo, poniamo, il 'santo patrono cittadino' delle città italiane, il quale svolgeva, purtuttavia, il ruolo di referente dell'identificazione collettiva). Tratti distintivi di questa usurpazione sono anche il suo avere un risvolto interno solidaristico e uno esterno di sfida difensiva (verso signori e sovrano) e il suo essere una importante scoperta di possibilità di acquisire potere per il mezzo della formazione di solidarietà attiva fra chi di potere è privo.
Di tale rappresentazione interessano gli elementi analitici che, come si vede, si proiettano significativamente sull'intero processo successivo. Non vi troviamo, si badi, un tentativo di descrizione generalizzata di origini, cui Weber, assai consapevole delle differenze, specie fra Europa settentrionale e mediterranea, non poteva pensare e che la storiografia, oggi, non ammetterebbe (per un quadro aggiornato v. Bordone, 1987). È un fatto, comunque, che generalmente una cerchia di notabili teneva le redini di questo processo: un notabilato delle origini, magnatizio, cavalleresco, per lo più diverso da quello che si selezionerà successivamente sulla base della crescita di un 'popolo' borghese (prendendo forma di "un processo di imitazione e riproduzione dello status sociale dei prestigiosi magnati aristocratici": v. Bordone, 1987). Siamo ancora entro lo schema - per usare il linguaggio weberiano - di una Geschlechtsstadt, una città di parentele magnatizie o di 'schiatte' (secondo la traduzione di Pietro Rossi).In una seconda fase (XII-XV secolo) - sviluppandosi economicamente - la borghesia si configura come 'ceto' o 'ordine' (Stand) e si costruisce una struttura economico-istituzionale ad articolazione corporativa più o meno ricca e complessa: è - nella tipologia weberiana - la città plebea. Soprattutto nelle sue versioni non italiane, questa struttura è politicamente presente entro uno Ständestaat. Lo Ständestaat è una costruzione concettuale weberiana, parte della sua tipologia delle forme di potere, che si presenta come una sorta di costellazione: titolari come 'corpi' di prerogative di dominio - quali ceti feudali, città - collaborano ufficialmente con un principe e il suo apparato patrimoniale nel governo di territori, in una dislocazione a duplice livello: insieme territoriale, contraddistinto da un intreccio di partecipazione, consultazione, aiuto, e insieme locale, contraddistinto da autonomie (signorile, cittadina). Lo Stand è appunto, entro tale costellazione, l'istituto di raccordo di quello che potremmo chiamare un particolarismo-che-si-coordina (nel quale si dovrebbe considerare anche il clero), dove, in corpo consultivo o deliberativo, le parti (feudale o cittadina) difendono privilegi e autonomie, esprimono le condizioni di appoggio alle iniziative del principe.
Stand è termine che esprime, in questo caso, una forma di legame fra una molteplicità di soggetti senza potere, i quali si dotano di potere mediante un accomunarsi - con valenza regolativa interna, e difensiva, e negoziale esterna - a diversi livelli: corporazione, arte, gilda e invece, più in generale, città. Si incrociano così due livelli di legame, un livello puramente settoriale, di attività economica o professionale, e un livello sociale, di ambito insediativo, che interseca gli interessi stessi in ciò che hanno di comune (cittadino): una 'corporazione territoriale' di contro alle corporazioni di mestiere.La formazione della Bürgertum, in senso sociale, secondo Weber, avverrebbe come selezione trasversale in alto, rispetto a quelle formazioni settoriali minori di Stand, dei mercanti e maestri artigiani più facoltosi, con "coscienza cetuale": la prima identità collettiva di una 'borghesia'. Si avvia la cattura in città dei centri di religione. Si formano uffici. L'idea che Weber sembra esprimere è quella di una coscienza cittadina capace di perseguire delle finalità (di ordine e di sviluppo?) collettive. In sostanza, il burgher di strato superiore finisce con l'essere più burgher degli altri, perché lavora per il 'generale' e non solo per il 'particolare' e quindi solidifica l'autonomia e le libertà burgher 'da' altri poteri (signori, monarchi), laddove un cetualismo frammentato e anarchico non avrebbe saputo farlo. Questa visione sembra coincidere con quella che la storiografia più aggiornata continua a inquadrare come formazione e come funzione di un 'patriziato' cittadino (v. Berengo, 1974).
In una terza fase alcuni gruppi urbani medi e medio-alti abbandonano la propria identità sociale di ceto (o gruppo di ceti) per assumere quella di una classe, nel quadro di un processo di individualizzazione e razionalizzazione (v. Poggi, 1988). Questo processo coincide con l'estendersi della forza e influenza dello Stato. In un certo senso, quindi, la classe (di contro al ceto-Stand) nascerebbe da una sorta di progressiva de-politicizzazione, da un concentrarsi individualisticamente nel 'privato' (economico, professionale, intellettuale), che lascerebbe lo spazio politico all'avanzata dello Stato, e si avvarrebbe di questa dissociazione per sviluppare il privato stesso. In questo processo la razionalizzazione sta sia nei modi della concentrazione e intensificazione nel privato (l'impresa ne è un esempio), sia nei modi in cui si sviluppa la sfera politica attraverso strutture statuali amministrative. Ci sarebbe come un'alienazione di autonomia (o di possibilità di sviluppo di questa), ma, in tale ottica, come scambio contro maggiori prospettive di sviluppo del privato nel senso anzidetto.Il fenomeno dell''etica protestante", come esaltatrice di uno "spirito capitalistico" nella borghesia, si inscriverebbe dunque in questo contesto di individualizzazione, come esaltazione di una personalità responsabile e fonte di tensione creativa: l'imprenditore singolo si muove, infatti, su una strada di violazione economica delle norme cetuali (corporative e simili). Operando su territori diversi, deve abituarsi a norme non più comunitarie, ma astratte, generali, giuridiche. Anche lo stile di vita si 'deparrocchializza'.Il quadro weberiano, proteso a individuare il decollo di una figura moderna ed estremamente specifica - l'imprenditore capitalistico - aiuta a cogliere alcune condizioni, spirituali e istituzionali, dell'emergere di questa nella sua novità. Ma non ignora alcuni aspetti essenziali, inerenti alla logica stessa evidenziata in quella brillante ricostruzione della vicenda d'insieme del gruppo sociale entro il quale quella figura si staglia, senza peraltro esaurirla o incarnarla tutta. (Per una lettura che preferisce dissociare l'intreccio in due distinti "modelli" v. invece Banti, 1989). Parte integrante di quella vicenda è, infatti, almeno per allora, come si è già sottolineato, un sostanziale rientro dei gruppi che si selezionano nel contesto degli sviluppi mercantili e cittadini nei quadri di un modello di aspirazioni nobiliari e di strategie sociali di integrazione: "la tendenza, che è esistita in tutti i tempi, e che agisce ancora oggi da noi, a 'nobilitare' i patrimoni borghesi", "nobilitarsi con investimenti terrieri, e - ciò che è più importante, poiché non si tratta soltanto di acquisti di terre - col passaggio ad abitudini di vita feudale" (v. Weber, 1904-1905). (Gli scrittori mercantilisti inglesi del XVI secolo attribuivano la superiorità capitalistica olandese al fatto che non vi era questo atteggiamento).
Da quei mercanti, da quei banchieri, da quegli imprenditori, in sostanza, non viene fuori, per allora, una 'borghesia' intesa come classe dirigente, ma una nuova nobiltà. Come è stato osservato (v. Brunner, 1978), la nozione moderna di borghesia nasce sulla base della distinzione dell'economico e del sociale dal politico (prodotto della società industriale), e quindi come nozione di classe economico-sociale, nozione che viene poi trasposta all'indietro impropriamente. Quel che si traspone all'indietro è sia, in modo abbastanza esplicito, il significato moderno più netto del termine, sia, in modo meno esplicito, alcune connotazioni derivate della nozione moderna, che conferiscono all'economico-distinto-dal-politico un ruolo determinante.
È questa una vicenda, nel suo insieme, dalla quale - par di poter concludere - nasce forse lo Stato moderno, nelle sue versioni più o meno stagliate, più o meno grandi o più o meno dinamiche, e si prepara il capitalismo industriale in talune sue forme, ma non fiorisce esplosivamente e irreversibilmente la 'borghesia' della leggenda ottocentesca. La nozione di borghesia, per allora, tende, al contrario, dopo aver espulso da sé gli strati minori cittadini, a declassarsi a sua volta, svuotandosi con l'irresistibile ascensione nell'empireo nobiliare degli strati via via più 'riusciti'.
Nei secoli XVI e XVII, durante i quali si accentua e si complica il processo di 'nobilitazione' di quegli strati sociali che si selezionano verso l'alto, troviamo infatti declassata la nozione di borghesia. La configurazione sociale del mondo europeo di ancien régime è uno dei maggiori rovelli della storiografia modernistica dell'ultimo mezzo secolo. Mentre è indubbio che, nell'età che corre fra Rinascimento e Illuminismo, l'economia europea abbia notevolmente progredito (anche se con movimenti non lineari) sviluppando i settori extragricoli del commercio a grande distanza, della navigazione, della banca e delle manifatture, appare anche evidente come la novità della comparsa di una figura sociale quale l'uomo d'affari capitalistico nelle economie cittadine dei secoli immediatamente precedenti non abbia dato però luogo a un sovvertimento negli equilibri e nei valori sociali. Nonostante la formazione di nuove grandi fortune capitalistiche, in sostanza, il punto di gravitazione dell'assetto sociale della parte elevata della società e il riferimento fondamentale dei processi di ascesa sociale rimase, come si è detto, la condizione nobiliare. A essa, a sue versioni supplementari, alle sue apparenze, punta chi ha mezzi per farlo, se e dove il gioco delle istituzioni lo consente. Le monarchie strumentalizzano queste aspirazioni (v. Goubert, 1969; v. Donati, 1988).
Per contro, proprio fra la metà del XVI secolo e la metà del XVIII, si viene di fatto formando nelle società europee, con significativo spessore, una nuova condizione sociale intermedia, dai contorni incerti e dagli ingredienti compositi (in parte economico-reddituali, in parte giuridico-insediativi, in parte professionali e intellettuali), la quale viene via via calamitando, soprattutto in Francia, ma con forza diffusiva, la denominazione di 'borghesia' (raccogliendo connotazioni che tendono presto a presentarsi sia come materiali che come psicologiche).
La comprensione parallela di questi due fenomeni - da un lato la straordinaria forza attrattiva della condizione nobiliare sugli strati superiori che emergono dalla roture (cioè dalla condizione plebea) e, dall'altro, l'ispessimento di un coacervo sociale intermedio che resta inesorabilmente escluso dalla prospettiva stessa di accesso a quella condizione - pare essenziale perché si possa vedere più chiaramente (o meno oscuramente) l'intrico di equivoci che l'uso inflazionato del termine 'borghesia' - di cui si è detto in principio - ha generato nella storiografia dell'età moderna e si possano cogliere le tensioni reali che vanno formandosi nella società di ancien régime, i modi e le prassi che in talune situazioni raffrenano e in altre esasperano quelle tensioni. Tensioni che non sembrano tuttavia avere, in alto, la forma della 'lotta di classe' - il cui senso, come forma, sta in una specificità contenziosa su soluzioni di interesse alternative - ma quella dell'avversione-attrazione che aspira a uno sbocco in termini di mobilità verticale. Taluni storici (v. Villari, 1971; v. Maravall, 1979) ritengono, però, che "l'aspirazione della borghesia a entrare nei quadri della nobiltà, e quella dell'aristocrazia che si sforza di chiudere questi quadri, non sono le due sole linee che marcano i rapporti tra questi gruppi sociali nel XVII secolo": esisterebbe "una terza posizione, quella di certi elementi dello strato intermedio orientati ad affermare la propria autonomia, tendenza che spesso si manifestò sotto la forma tradizionale della difesa corporativa e del consolidamento di posizioni locali, privilegi, conquiste che si erano raggiunte all'interno della struttura feudale stessa, ma che si uniscono anche a una più generale rielaborazione dei valori di carattere antinobiliare e ai tentativi di critica istituzionale orientati a un antiassolutismo oppure a un costituzionalismo ispirati a modelli repubblicani (Paesi Bassi, Venezia) o a una più moderata concezione riformista della monarchia" (v. Maravall, 1979).
Le realtà nazionali sono ovviamente caratterizzate da diversità, anche marcate, che il progredire degli studi evidenzia naturalmente sempre meglio. La storiografia sembra tuttavia oggi abbastanza propensa a considerare meno atipica di quanto non la reputasse un tempo l'evoluzione che è dato riscontrare nelle fasce superiori della società inglese di questi secoli. Tale evoluzione può essere riassunta nella formazione, verificatasi in Inghilterra fra il secolo XV e il XVII, di uno strato sociale superiore particolare, la gentry, che venne largamente sostituendosi all'antica nobiltà nel possesso della terra, a partire dall'alienazione dei beni ecclesiastici disposta da Enrico VIII, e che anche osservatori coevi autorevoli classificavano ambiguamente, a volte come nobiltà e a volte come popolo.
Questa enigmatica ambiguità, di cui appaiono intrise le cose stesse, ha dato luogo a importanti controversie storiografiche ed è probabilmente la chiave per intendere la peculiarità sociale dei tempi: il fenomeno secolare di una ascesa sociale di gruppo, che ha origini economiche nuove ma esiti economici antichi, quale l'ingresso nei ranghi del possesso terriero (una sintesi in Stone, 1965). La titolarità di questo possesso di nuova acquisizione non è però automaticamente la stessa - nelle sue conseguenze politiche e in quelle di status, cioè di onore e prestigio - rispetto a quella nobiliare tradizionale. Il gruppo sociale che si forma da questo nuovo accesso alla terra resta dunque distinto, ma aspira con tutte le sue forze a non esserlo più, da nessun punto di vista. Attraverso una complessa vicenda storica tale gruppo riesce a conseguire, per lo meno in parte, un risultato che, a ben guardare, è duplice: realizzare un accesso pieno alla condizione sociale di vertice e conservare a questa, tuttavia, la sua peculiarità distintiva tradizionale, non facendola travolgere dal mutamento di forma della parte alta della piramide sociale (v. Stone, 1958 e 1965), nel tentativo di evitare ai parvenus quello che oggi potrebbe chiamarsi la svalutazione di un 'bene posizionale': un tipo di bene, cioè, il cui valore è inversamente correlato alla quantità dei fruitori. (L'osservazione di questa vicenda ha dato luogo alla formulazione di quella che è stata chiamata la 'legge di Tawney': quanto più si diffonde la ricchezza in una società, tanto meno importanti diventano i titoli di distinzione, ma tanto più questi sono ricercati e crescono di numero; v. Tawney, 1954; v. Stone, 1958). In pratica l'aristocrazia finisce col rafforzarsi attraverso l'apertura delle sue file, modificando il sistema di valori che la rappresenta con identificazioni che sono maggiormente funzionali a un mondo socialmente mutato, meno svalutabili da un'inflazione numerica dei riconoscimenti, e rinnovate, al tempo stesso, nella fermezza delle clausole escludenti: si accentua il senso della povertà e dell'insuccesso intesi non come sfortuna ma come 'disonore'. Un'operazione, insomma, che consegue miracolosamente un risultato in sé contraddittorio: rivalorizzare la distinzione di rango allargando i ranghi della distinzione. Si affermerà e si stabilirà così una sorta di coesistenza tra forma tradizionale della differenza sociale e forma mobile dell'accesso: l'Inghilterra resterà una società fondata sul principio aristocratico - come dirà, ancora nell'Ottocento, Tocqueville, il quale vedrà invece questo principio ormai sovvertito nella Francia post-rivoluzionaria - ma con modalità 'aperte'. E resterà tale, in virtù, in un certo senso, proprio di questa apertura e delle sue forme, che mantengono la società in tensione positiva, e non disgregativa, su valori aristocratici.
La vicenda della storia alto-sociale inglese, nonostante la sua forte specificità (basti pensare alla pratica assenza del privilegio legale nella condizione nobiliare britannica), appare oggi più esemplare e istruttiva per la comprensione dell'evoluzione di altri paesi di quanto non si ritenesse in passato. Essa sembra evidenziare, infatti, i termini generali nei quali, con decorsi assai diversi, si pongono i problemi di mobilità e di ascesa sociale, di rapporto fra l'economico, il politico, il sociale-di-status nell'intero mondo europeo di quei secoli. In quel mondo il mutamento economico porta, in varia misura, alla formazione di fortune che possono essere plebee quanto all'origine, ma non lo sono quanto all'esito, dominato, questo, in forma che potrebbe dirsi socialmente imperiosa, da aspirazioni sociali all'inclusione in un orto al tempo stesso concluso e non concluso. Il termine gentry (specificamente relativo al caso inglese) si è pertanto significativamente esteso, in senso categoriale, per qualificare il fenomeno che si compie, in termini al tempo stesso analoghi e diversi, in vari paesi europei (v. Borkenau, 1934) e particolarmente in Francia: un'élite cittadina che si forma nel Cinquecento, "composta di possidenti detentori di uffici con istruzione universitaria, le cui ricchezze e il cui status sociale li distinguono sia dalla borghesia mercantile, che si sono lasciati alle spalle, sia dai gentilshommes, il cui mondo per l'immediato futuro resta loro precluso" (v. Huppert, 1977).
Anche in Francia si avrebbe, cioè, nel corso del XVI secolo, un accentuato processo di distinzione selettiva nell'ambito della borghesia che si arricchiva, con relativa tendenza al possesso terriero. Resta forse ancora insuperato il quadro della mobilità sociale nei secoli dell'ancien régime che ci ha fornito Tocqueville: il roturier ricco (in pratica il contadino arricchito) tende a lasciare la campagna sia perché lo status differenziale, la distinzione imposta dal nobile è insopportabile, sia, soprattutto, per sfuggire al duplice effetto della 'taglia' (la più terribile imposta dell'ancien régime in Francia): non solo l'imposizione gravosa, ma altresì la sgradevole funzione di riscossione che cadeva su ciascuno dei membri di un villaggio o di una parrocchia a turno o a sorte. I documenti - osserva Tocqueville - dicono che "non si vede quasi mai nelle campagne [...] che una sola generazione di contadini ricchi. Non appena un coltivatore arriva col suo lavoro a mettere insieme un po' di patrimonio, subito fa lasciare al figlio l'aratro, lo manda in città e gli compra un piccolo impiego". Inurbato, il neo-borghese si disamora ai problemi produttivi della terra, ma non ai redditi e al prestigio che vengono dalla proprietà di questa e si proietta verso attività tipicamente urbane, e al tempo stesso non manuali, quali gli impieghi: è su queste attività, che in Occidente sono tipiche dell'età moderna, che si determina il clivage storico fra borghesia e popolo, in forme che sopravviveranno in epoca contemporanea. Questo tipo di borghesia partecipa del processo di espropriazione dei diritti politici locali, perché si inserisce acquisitivamente nella rete dell'accentramento, formando un notabilato da 'venalità' (le cariche si compravano) che si pone in luogo delle possibili cariche elettive (v. Tocqueville, 1856).
L'anoblissement formale tenderebbe, a un certo punto, a farsi più difficile, creando per l'appunto una duplicità di status giuridico entro una più vasta e pressoché omogenea situazione di status sociale, a sua volta, però (e questo pare particolarmente interessante), differenziata quanto a dignità culturale e quindi a modi di reazione: nascerebbe, in questo contesto, una prima forma di risentimento dei non gratificati portatori di valori intellettuali. In Inghilterra questa duplicità tende a risolversi con una sorta di trionfo del principio di opinione per ciò che concerne l'assunzione entro i ranghi aristocratici: il che, come si è visto, finisce col determinare una sorta di accettata assimilazione cooptativa; restano gerarchie, esse stesse non rigidissime, ma, in ogni caso, non fratture. Si forma un campo significativo di effettiva costruzione sociale per quella che, attraverso una suggestiva lettura di Locke, è stata definita una "terza legalità", distinta da quella divina e da quella statale: la "legge della reputazione" (v. Koselleck, 1959). Comincia a circolare la sentenza, che avrà poi grande fortuna nel Settecento, secondo la quale "l'opinione è la regina del mondo". (Pascal dice, nei suoi Pensieri, di averla trovata nel titolo di un'opera, da lui non vista, di un autore italiano: ma questo autore non pare sia stato identificato).
Già nel XVI secolo in Francia comincia a manifestarsi una cultura tendenzialmente avviata in una direzione analoga; ma tale cultura resta al momento frustrata da un'evoluzione, insieme politica, religiosa e sociale, che va in un altro senso (v. Huppert, 1977). "La legislazione [francese] dell'ancien régime intese opporsi strenuamente all'usurpazione della condizione nobiliare da parte di famiglie che avevano preso l'abitudine di 'vivere nobilmente' e che avrebbero voluto avvantaggiarsi della longanimità tollerante del potere. Lo Stato [che vendeva o concedeva politicamente i titoli] aveva allora tutto l'interesse a stroncare un simile modo di procedere e, d'altronde, la nobiltà autentica, sollecita nel preservare la propria caratteristica, non poteva che appoggiare una tale politica" (v. Labatut, 1978). Ma bastava che il monarca eccedesse nell'avvalersi del suo monopolio nel sistema di concessione dei titoli ("La monarchia si valse delle lettere di nobiltà con un certo senso della misura. Dove la misura mancò fu nella creazione di nobili mediante 'cariche"': v. Goubert, 1969) per determinare una svalutazione sociale delle nomine inflazionate: indizio tipico è l'espressione 'saponetta per i villani', con cui venne definito l'anoblissement facilmente concesso. Era la situazione contraria a quella, di tipo inglese, di una accettata cooptazione, anche entro gerarchie, ma regolata da valori generalmente condivisi. Per contro, in basso e, se è consentito dir così, di lato, finiva con il crearsi la situazione descritta da Tocqueville: "Il sistema delle concessioni di nobiltà, invece di attenuare l'odio del non nobile contro il gentiluomo, lo accresceva smisuratamente, e quest'odio si inaspriva di tutta l'invidia che il nuovo nobile ispirava ai suoi antichi eguali" (v. Tocqueville, 1856). L'area 'borghese' gravitava chiaramente in modo subalterno intorno a quella nobiliare, attratta dal desiderio di cooptazione o respinta dal risentimento. "La nobiltà fu l'ideale ostinatamente perseguito e lo stadio supremo della borghesia" (v. Goubert, 1969).
La ricerca di qualcosa che sta mutando non va orientata probabilmente né direttamente verso le strutture economiche, né verso la formazione di nuove fortune, ma verso l'affermarsi di uno spirito individualistico di indipendenza, che è forse una vera rivoluzione culturale. C'è un passo illuminante di Voltaire a questo proposito: "Una volta non c'era altra risorsa per i piccoli che mettersi al servizio dei grandi; oggi l'industria [=industriosità] ha aperto mille vie, ignote cent'anni fa" (v. Voltaire, 1751). È il gioco della rete invisibile di dipendenze (ora però sempre meglio studiato dagli storici) cui comincia a contrapporsi una cultura dell'indipendenza la quale mira a riscattare la frustrazione storica di cui si è accennato più sopra? (L'autobiografia di Rousseau ne è certamente una testimonianza straordinaria). La visione della settecentesca cultura dei lumi come 'borghese' - giustamente avversata (v. Venturi, 1970) nelle sue numerose rozze manifestazioni ispirate da un determinismo del tipo 'struttura-sovrastruttura' - può forse prendere un senso non banale in termini del tutto diversi: nell'ottica della valorizzazione sociologica dei talenti intellettuali, che certamente l'illuminismo promosse e caldeggiò, e di cui in parte consiste. Si profila così l'idea interpretativa di un autonomo modo di essere culturale di una grande e composita élite, del suo costituirsi in 'sfera dell'opinione' con espansiva pretesa d'influenza, idea che sembra contrapporsi storiograficamente alla visione che aggrega gli attori collettivi sulla base di una visione strettamente economico-sociale (v. Koselleck, 1959).
In un'ottica siffatta è possibile ravvisare, come specifica novità, un nuovo genere di collante sociale - per così dire - nella formazione di una 'sfera pubblica' (Öffentlichkeit) come luogo-modalità di comunicazione-aggregazione sociale, di scambio-formazione di idee, distinto dalla corte, esterno a questa, che le si oppone, in qualche modo, come fonte di pressione. Tutto ciò non mette storiograficamente l'accento sugli 'interessi' in senso economico-sociale come fattore aggregativo e propulsivo, ma piuttosto sulle modalità di comunicazione e di formazione degli orientamenti e delle decisioni.
Prendono rilievo, in tale prospettiva, i luoghi della sociabilità (caffè, salotti, ecc.) e la formazione graduale di una "parità di persone colte" fra aristocratici e intellettuali borghesi (v. Habermas, 1962). La massoneria fu probabilmente un luogo classico di parificazione in tal senso (v. Koselleck, 1959). Quest'ottica - cultura dell'indipendenza, ruolo dell'opinione, istituzioni della 'sociabilità' - sembra offrire prospettive d'indagine assai più ricche, per l'interpretazione dei grandi eventi della fine del XVIII secolo, che non lo statico e anagrafico coacervo sommatorio che si è cercato di aggregare in modo appiccicaticcio, sulla base della doppia esclusione 'né/né' (v. Darnton, 1984), come 'borghesia di ancien régime', nell'affannosa ricerca di una sostituzione concettuale avente almeno i requisiti 'materiali' di una marxiana borghesia capitalistica che nell'ancien régime c'era assai poco, come gli storici francesi hanno dovuto poi farsi spiegare da quelli anglosassoni.
Prima di esaminare la questione dei connotati sociali della Rivoluzione francese, poniamoci per un istante il problema del grande evento rivoluzionario che precede quelli di Francia. Si può parlare di 'borghesia' come soggetto sociale protagonista agli inizi della storia statunitense? Un osservatore come Tocqueville, sbarcandovi nel 1831, non vi vede che "classes moyennes" e ve le vede talmente protagoniste da considerare quel paese come l'unico che sia da esse governato (v. Tocqueville, 1957). Ma abbiamo visto che la nozione ha generalmente, in quei tempi, un forte connotato antagonistico o, quanto meno, determinativo (contrappone una aggregazione sociale senza privilegi a una aristocrazia privilegiata, e/o distingue - per lo più marcandone peculiari tendenze a improntare una nuova società - uno strato intermedio fra aristocrazia e popolo). Questi elementi non si manifestano all'interno della vicenda originaria del nuovo continente, dove la colonizzazione decisiva - quella inglese - riflesse i mutamenti in corso nella madrepatria (in campo religioso come in campo economico), ma non ne riprodusse il sistema di relazioni sociali, configurando piuttosto, rispetto a quello di origine, un "mondo alla rovescia" (v. Bonazzi, 1977), nel quale la "battaglia borghese" combattuta in Inghilterra era stata "vinta in partenza": pratica assenza di rapporti e tradizioni feudali e irrilevanza della nobiltà di nascita, morale del lavoro antiaristocratica, diffusione di nuovi diritti e di democrazia locale. Esiste, e prospera, la 'cosa', la figura sociale del borghese, trasferita e potenziata; non ha diffusione, nelle sue valenze distintive e polemiche europee, il 'nome'. Il cittadino della nuova America può forse, con sommaria analogia, essere paragonato al 'servo fuggiasco' nella città basso-medievale: la sua borghese diversità si contrappone non a un passato o a un presente interno, ma alla società aristocratica o di vecchio regime lasciata nella madrepatria d'origine. Relazioni sociali disegualitarie di tipo arcaico ebbero spazio nella nuova società, anche su larghissima scala, ma si trattò di un ritorno della schiavitù, e di discriminazioni razziali-sociali, o di gerarchie etniche, non di forme feudali di privilegio. La società americana diverrà via via luogo classico di un protagonismo di 'capitalisti', intesi come businessmen (imprenditori o finanzieri, che qualcuno considererà anche idealmente contrapposti: v. Veblen, 1899), ma non del complesso, e contraddittorio, coacervo di figure sociali e di valori che è, al di qua dell'Atlantico, la 'borghesia': Tocqueville (v., 1957) osserva che la sola distinzione reale, di contro alle distinzioni immaginarie, è il merito, ma questo è inteso in Francia in più modi, e intelligenza e spirito vi hanno gran posto, mentre in America, la misura del merito è essenzialmente la ricchezza. La nozione di middle class prenderà, come vedremo, rilevanza, negli Stati Uniti, più tardi, entro un'ottica che avrebbe rispecchiato, in una fase più avanzata, proprio le potenzialità baricentriche che si vorranno vedere in questa originaria assenza di steccati sociali, quando il nuovo paese sarà investito da un grande dinamismo economico e sociale; si prenderà a dire, e si ripeterà innumeri volte, che l'America è una middle class country (v. Mead, 1942): anche qui ripetendo sostanzialmente Tocqueville, al quale già pareva nel 1831 che in quel paese "la società tutta intera fosse fusa in classe media" (v. Tocqueville, 1957).
La Rivoluzione francese, attraverso l'intero arco della sua vicenda, fondò certamente un nuovo sistema di valori e diede basi e riferimenti nuovi ai conflitti materiali e ideali dell'età successiva. Attraverso le sue solenni e drammatiche rotture con il passato e i suoi sviluppi, particolarmente quelli napoleonici, contribuì in modo decisivo a creare sul continente europeo le condizioni di un sistema di stratificazione sociale nel quale la meta sociale di riferimento in alto non ha più carattere di privilegio esclusivo e si presenta esplicitamente come aperta a una mobilità verticale, la quale ha le forme legittimate (sotto il profilo dei valori sociali) del successo per merito e della carriera.Una lunga tradizione di scuola conferisce a quella rivoluzione, in relazione a tale suo ruolo storico, la qualifica di 'rivoluzione borghese'. Come è stato osservato (v. Anderson, 1984) l'uso insistente dell'espressione risale piuttosto ai marxisti russi della fine del XIX secolo che a Marx stesso. In questa formula si sono però condensate tutte le ambiguità accumulatesi in età contemporanea intorno alla nozione di borghesia. Gli equivoci derivano dal fatto che - per le circostanze e il modo in cui è stata proposta - la formula riverbera, in sostanza, sulla vicenda rivoluzionaria francese il senso del grande mutamento di lungo periodo che si va compiendo (peraltro in tempi non simultanei e nell'arco di quasi un secolo) nelle economie e nelle società che sono via via investite dalla 'rivoluzione industriale'. Nel contesto in cui la formula si afferma, infatti - caratterizzato dall'ascesa del movimento socialista -, 'borghesia' è divenuto, nel linguaggio corrente, sinonimo di borghesia capitalistica, nel senso di un capitalismo industriale a largo impiego di lavoro salariato, che ha praticamente subordinato a sé le forme finanziarie, commerciali, agrarie; e si presenta, o viene percepito, come gruppo dominante nella struttura sociale, che esso organizza, regola, disciplina e indirizza, influenzando, altresì, in modo determinante lo Stato e la politica.
Queste posizioni vengono vissute come 'conquistate' (anche se non consolidate) attraverso la Rivoluzione del 1789. Nel radicamento di questa idea come luogo comune ebbero certamente gran parte, da un lato una componente ideologica di sinistra, dall'altro una componente nazionalistica, in una simbiosi tipicamente francese. La prima è costituita dall'aspirazione del marxismo militante a fondare una teoria della rivoluzione proletaria, legittimata sul precedente storico, sia per la dignità che una scansione della storia per 'rivoluzioni di classe' poteva conferire a una nuova pretesa rivoluzionaria dello stesso genere, sia perché l'identità 'classista' del grande precedente poteva aiutare a togliere di dosso agli attori del presente il sospetto di elitismo soggettivistico, e sia, infine, perché talune modalità della Rivoluzione francese, come il Terrore, potevano essere così considerate normali, esemplari e reiterabili. La componente nazionalistica è data, invece, dalla propensione a trasferire sulla vicenda politica francese l'intera sostanza della grande trasformazione dei tempi, il cui epicentro economico-sociale è incontestabilmente britannico.Nel contesto culturale nel quale si afferma la visione della Rivoluzione francese come 'rivoluzione borghese', diviene implicita una continuità-identificazione fra il gruppo sociale dominante dell'oggi e il gruppo sociale che ha diretto e operato quella 'conquista' di posizioni. La formula 'alta borghesia' - spesso usata, specie in Francia, per indicare, con un tentativo di maggiore individuazione, il gruppo sociale dominante del presente - non elimina l'equivoco, non essendo pensabile la 'direzione di classe' di un processo-matrice di ribaltamento storico senza che si identifichi quella 'direzione' con gli strati decisivi della classe stessa. Questo è, probabilmente, il nesso logico essenziale dell'equivoco.
La grande storiografia che è stata definita 'giacobina' - quella che parte da Jean Jaurès e, passando per Albert Mathiez, arriva a George Lefebvre - ha, nell'alimentazione dell'equivoco sulla nozione di borghesia, più passive complicità che non responsabilità aperte e dirette. La sua operazione value-loading non aveva tanto natura dottrinaria, quanto piuttosto politico-passionale, e mirava soprattutto a salvaguardare, secondo una tradizione che risale a Thiers e arriva a Clemenceau, la difesa compatta del processo rivoluzionario; e, quindi, come suo vertice, il momento giacobino nonché l'ampio coinvolgimento di gruppi sociali che in quel momento si manifesta (e la cui ricostruzione è, poi, il più peculiare apporto delle ricerche di questa scuola).
È ancora l'ottica tipicamente francese del trionfo della 'nazione' (in una versione di sinistra che si sposa o flirta col socialismo o con il comunismo) a manifestarsi nella cultura di quegli insigni studiosi. Nella loro rappresentazione delle forze sociali che agiscono sulla scena pre-rivoluzionaria e rivoluzionaria non si può non riconoscere un sostanziale (benché, sul tema 'borghesia', piuttosto pigro) realismo, mentre l'interesse dell'osservazione e della ricerca appare più attratto dalle classi inferiori (urbane e rurali) e dagli atti di presenza e d'intervento di queste nella grande vicenda, nonché dal loro partecipare, influire, distinguersi e preludere - per il momento senza successo - a movimenti futuri. La Rivoluzione, per questi storici, è 'borghese' implicitamente, come valenza simbolica complessiva. "Un'attenta lettura del primo capitolo 'Le cause della Rivoluzione francese', che nella Histoire socialiste [di Jean Jaurès] dà lo sfondo economico-sociale [...], è sufficiente per cogliere il punto debole di una costruzione che non tiene. Non tiene, perché la 'borghesia commerciale e industriale', che nel 'sistema' di Jaurès va intesa come la 'classe' dei capitalisti, cioè di coloro che detengono i mezzi di produzione, e che dovrebbe essere la protagonista della 'rivoluzione borghese', questa borghesia non emerge dai documenti storici forniti dalla Histoire socialiste e sussiste solo come astratta categoria sociologica non verificata dalla storia. Viene quindi meno il supporto principale di questa presunta rivoluzione del capitalismo che prende il posto del feudalesimo, cioè l'esistenza di una borghesia capitalista [...]. Lo stesso Lefebvre, che più di ogni altro ha contribuito a disgregare il blocco della 'rivoluzione borghese' nelle sue componenti eterogenee e indipendenti, non ha però voluto rinunciare alla terminologia ereditata da Jaurès e alla parvenza del suo 'sistema', sia pure ridotto a un involucro morto non più corrispondente ai contenuti reali" (v. Terni, 1981). La critica di questa nozione, quale verrà condotta successivamente, è, infatti, compatibile con l'analisi di fatto della situazione e degli interessi sociali, per quel che effettivamente se ne trova in un Lefebvre (v. Furet, 1978). I peccati sono, al riguardo, per lo più, di omissione.
È con Albert Soboul (v., 1962) - uno studioso comunista del secondo dopoguerra, autore di importanti ricerche sui sanculotti e di un'altra grande sintesi d'assieme della vicenda rivoluzionaria - che la nozione di 'rivoluzione borghese' si impone esplicitamente e 'a nome', si può dire, di un'intera e autorevole corrente culturale. Soboul si trovò a tentare di assumere una sorta di eredità egemonica nel campo della storiografia della Rivoluzione, in una condizione nuova di quasi ufficialità ideologica (del tutto estranea ai grandi predecessori), ma - e questo va sottolineato - in presenza di una notevole e significativa crescita, che potremmo anche definire 'tecnica', del marxismo storiografico.
Infatti, quando Soboul tenta di succedere nella leadership della storiografia sulla Rivoluzione nel mondo accademico francese si trova di fronte alla contraddittoria esigenza di formalizzare la tesi della 'rivoluzione borghese' in senso marxiano e di dover guidare, però, un marxismo che è (in campo storiografico) tecnicamente cambiato: meno interessato alle relazioni deterministiche fra (generiche) posizioni di classe ed espressioni ideali e culturali (il rapporto 'struttura-sovrastruttura'), e molto più curioso e attento, invece, alla complessità delle articolazioni della struttura economico-sociale. Nel frattempo c'è stata infatti la fioritura della notevole scuola marxista inglese e molti storici marxisti francesi degli anni cinquanta si sono misurati con grandi ricerche regionali negli archivi dell'ancien régime, arricchendo e articolando le proprie strumentazioni categoriali.
La crisi della nozione marxista di 'rivoluzione borghese' nasce, per gran parte, all'interno del marxismo stesso, rendendo i suoi esponenti immediatamente sensibili alle critiche 'revisionistiche' che partono da alcuni storici anglosassoni, come Eisenstein, Cobban, Taylor, Lucas (v. Terni, 1981). L'equivoco aveva avuto sostanzialmente origine nella celebre 'botta e risposta' con cui si apriva il pamphlet del 1789 dell'abate Sieyès: "Che cosa è il Terzo Stato? Tutto. Che cosa è stato finora? Nulla". Una dichiarazione rinverdita, qualche decennio dopo, nei suoi corsi sulla storia di Francia, da François Guizot (v., 1830): "Il Terzo Stato è, nella nostra storia, un fatto immenso. È la più possente delle forze che hanno presieduto alla nostra storia". Guizot userà intercambiabilmente le espressioni 'Terzo Stato' e 'borghesia'. Marx - sicuramente buon lettore di Guizot (v. Furet, 1986) e certamente di Saint-Simon - inviterà a leggere 'borghesia' come sinonimo di classe capitalistica. Così si compie il gioco. Ma, come osserva Alfred Cobban, "coloro che effettivamente facevano parte del Tiers État nell'assemblea [eletta nel 1789], sia in qualità di deputati che di suppléants, furono 648. Di questi, soltanto 8 vengono descritti come fabbricanti o maîtres de forges [...]. Circa 76 membri del Tiers vengono descritti come marchands o négociants [...]. Il mondo della finanza è presente con un solitario banchiere, e abbiamo un mercante che si definisce anche banchiere. Tutti insieme, i mercanti, i fabbricanti e i finanzieri sono 85, vale a dire il 13% del numero globale dei deputati del Terzo Stato" (v. Cobban, 1954). Cosa erano allora socialmente i rappresentanti del Terzo Stato? Erano in prevalenza officiers, detentori di cariche amministrative. Analogamente appare composta la successiva Convenzione, con un accresciuto peso di professionisti. "Come la Costituente, la Convenzione è quasi esclusivamente un'assemblea borghese, e nel 1792, come nel 1789, borghese va inteso nel senso di una classe di fonctionnaires e di uomini provenienti dalle professioni" (ibid.). Il problema, infatti, non è la parola, ma il suo significato (questo sfugge a taluni: per esempio a Roger Magraw: v., 1983).Già Tocqueville (v., 1856) aveva chiaramente definito la borghesia dell'ancien régime come borghesia di places, di impieghi (aveva esemplificativamente calcolato, per il periodo 1693-1709, una creazione di impieghi dell'ordine di 2.500 in media l'anno). La revisione dell'idea di 'rivoluzione borghese', avviata da Cobban, indusse nuove ricognizioni sulla struttura sociale e sulle forme della ricchezza nella Francia prerivoluzionaria. Il quadro che ne è emerso appare quello di "una preponderanza sostanziale del settore proprietario" (terre, edifici, cariche venali, rentes) rispetto a quello mobiliare (in ogni caso, questo, prevalentemente commerciale): un rapporto, si è valutato, di 4 a 1 (v. Taylor, 1967). La storiografia marxista ha preso atto di queste evidenze (si è alla fine concluso che è stato positivo l'aver portato a riconsiderare "il concetto di borghesia che, da Guizot a Lefebvre, non era stato mai definito con precisione, venendo impiegato in accezioni troppo vaste o troppo ristrette, a volte tra loro contraddittorie": v. Vovelle, 1988), ma con reazioni di tipo diverso: una più arcaicamente 'dialettica', che ha tentato di recuperare l'idea di un rapporto di 'influenza' dei gruppi più capitalistici, anche se minoritari, sugli altri, nel quadro di una visione un po' metafisica di quell'uno-e-plurimo (o meglio: plurimoma-uno) che sarebbe, in ogni caso, la borghesia (v. Soboul, 1962); una seconda che, verificata l'inconsistenza di una borghesia economica 'marxiana', nega senso e legittimità alla formula stessa di 'rivoluzione borghese' e persino all'uso, in questo caso, di un concetto di 'classe', invitando a un più rigoroso impiego del marxismo (v. Zapperi, 1974); una terza che tende a trasferire il senso della formula stessa entro il processo economico-strutturale di lungo periodo della 'transizione' al capitalismo, abbandonando, però, per strada il problema degli attori della vicenda rivoluzionaria in quanto tale (v. Robin, 1970); e una quarta, di gran lunga più articolata e realistica, che, dissociando una nozione di 'società borghese' da quella di 'società capitalistica', recupera una borghesia reale, composita e poco o nulla capitalistica, attore sociale nella vicenda rivoluzionaria con motivazioni più patrimoniali e notabilari che capitalisticoi-mprenditoriali ("l'elemento catalizzatore dell'amalgama venne naturalmente trovato nella proprietà terriera, nuovo blasone sostituito alla nascita come segno di distinzione sociale": v. Capra, 1978), entro un quadro evolutivo-istituzionale che si presenta, tuttavia, come coerentemente inscrivibile in una trasformazione di senso capitalistico, ma di lungo periodo.
Se si ristabilisce nei suoi tratti reali la borghesia come attore sociale e, con essa, la storia effettiva delle attività che la compongono e delle sue aspirazioni sociali, nulla forse simbolizza lo sbocco sociale della vicenda rivoluzionaria meglio della vendita dei beni nazionali (un patrimonio sostanzialmente terriero) prevalentemente a 'borghesi', coronata, poi, dalla 'nobilitazione' napoleonica, una massiccia promozione sociale aperta ai talenti, indicizzata - potrebbe dirsi - unicamente a dimensioni di proprietà e reddito terrieri, concessa e regolata dallo Stato. In seguito a tale mutamento, il possesso terriero è ormai sostanzialmente liberato da vincoli feudali, cioè da obblighi verso terzi, grandi e piccoli, pienamente acquisibile e vendibile. "Un principe che voglia regnare sopra l'affezione dei suoi sudditi, deve attribuire alla proprietà tutti quei diritti dei quali godeva in altri tempi la nobiltà [...]. La classe dei proprietari è la vera potenza intermedia fra il sovrano e il popolo; classe che comprende un gran numero di famiglie; che non si usurpa alcuna distinzione; che accoglie nel proprio seno qualunque voglia essere acquirente; e che mostra in se stessa il premio accordato ai talenti e alla industria, quando siano accompagnati da una saggia economia" - si legge nella memoria di un possidente veronese del 1805 (v. Capra, 1978; v. Donati, 1988). ('Industria', si noti, allora significava ancora soltanto industriosità).
È questa la vera filosofia 'borghese' che trionfa con la Rivoluzione, nel suo intero ciclo che va dal 1789 al 1815: il binomio talento-proprietà che si 'nobilita' e si fidanza seriamente con lo Stato. Un'ampia e teatrale nobilitazione sul campo ne è il simbolo, una legislazione proprietaria individualistica e liberatoria ne è la sostanza. (Il fenomeno è stato osservato anche per l'Italia: v. Capra, 1978; v. Meriggi, 1983 e 1987).In questo quadro la rivoluzione borghese sembra configurarsi come una rivoluzione dell'anoblissement, il quale, trasferendosi di fatto dal titolo onorifico alla sostanza proprietaria, da selettivo e ottriativo diviene liberamente acquisibile per volontà soggettiva individuale di chi riesca a procurarsene i mezzi. È come la fase conclusiva di un processo secolare, che sblocca i ceppi che ostacolavano una mobilità sociale verso l'alto orientata su valori di gratificazione tradizionali, privi di valenze economiche peculiarmente dinamiche. Compare, è vero, come valore di ascesa, il 'talento'. E compare in duplice forma: come valore cooptativo, soggetto a un riconoscimento dall'alto, in quanto 'carriera', un talento, dunque, di 'servizio'; e come valore di mercato, in quanto abilità all'accumulazione individuale di ricchezza, non importa in quali forme, e, per lo più, senza nessun premio di valore per l'accumulazione riproduttiva, foriera di progresso: nell'area in cui si definiscono i 'talenti' non vi è alcuna prelazione a favore di chi opera nell'industria manifatturiera e negli affari. La filosofia industrialista di Saint-Simon e dei suoi seguaci, che privilegia i produttori, darà luogo a un gruppo importante e, in definitiva, incisivo, ma per lungo tempo circoscritto. (Non a caso tanti equivoci deriveranno proprio dall'identificazione che, alla fine, Saint-Simon farà dei suoi idealizzati 'industriali' con la borghesia, identificazione che, come si è visto, sarà raccolta da Marx).
Un 'talento' - vero o presunto - fuori dei ranghi e fuori del mercato, disgiunto da ricchezze o carriera, resterà emarginato: e comincerà in gran parte di qui la disaffezione intellettuale ottocentesca - ideale continuazione per molti versi di quella di certe correnti dell'illuminismo - verso la rivoluzione borghese.
Il 'secolo borghese' è un secolo lungo e intenso, che solo con molto sforzo può essere considerato in modo unitario. È il secolo della grande espansione del capitalismo industriale. La rivoluzione industriale, avviatasi in Inghilterra negli ultimi decenni del XVIII secolo, accelera il suo corso nel XIX secolo e si diffonde, a cadenze successive di qualche decennio, nei paesi del continente europeo, negli Stati Uniti d'America e poi in Giappone. La rivoluzione industriale significa, sotto il profilo sociale, la formazione di una borghesia imprenditoriale, non solo nell'industria manifatturiera, ma anche nei settori, a quella funzionali e strettamente integrati, della finanza, della banca, del commercio, dei trasporti. Questa è, di certo, la forza più dinamica e foriera di mutamenti, nell'immediato e nella prospettiva; non è, però, e per parecchio tempo, la realtà economica e sociale maggioritaria. Ancora nel XIX secolo, la 'borghesia' non coincide con il gruppo sociale degli imprenditori capitalistici. La ricchezza resta a lungo, nella sua parte sostanziale, prevalentemente terriera. Così nella Francia degli anni quaranta per i quali si parla in modo insistente di 'borghesia al potere', il 74% dei notables più ricchi erano proprietari terrieri (v. Magraw, 1983). Di più: nonostante la primogenitura nella rivoluzione industriale, l'Inghilterra, ancora nel 1880, faceva registrare come proprietari terrieri un buon 50% dei più ricchi (v. Rubinstein, 1981). Ma questa ricchezza può ormai definirsi borghese, essa stessa, per i suoi caratteri giuridici, di cui si è detto, e quindi per le sue modalità di acquisizione e detenzione: il simbolismo stesso del vecchio mondo nobiliare è un distintivo che non vale ormai a costituire un separato e soprastante rango, ma solo un di più del quale una parte dei ricchi può drappeggiarsi, mentre un'altra parte può collegarvisi con relativa facilità: gli incroci matrimoniali fra ricchezza fresca, o posizioni di successo, e dissanguati blasoni sono all'ordine del giorno.
Borghese è, poi, senza dubbio, l'articolarsi delle forme della proprietà, pur nella persistente predominanza terriera: quella immobiliare vede svilupparsi notevolmente, con l'urbanizzazione, il valore della proprietà di suoli ed edifici urbani; quella mobiliare conosce sofisticate variegazioni, rispetto alle rozze 'carature' e ai vecchi 'luoghi di monte', nel mercato del debito pubblico, dei titoli azionari e obbligazionari relativi al grande diversificarsi delle attività economiche. Si tratta di forme di proprietà che possono associarsi, ma non necessariamente, con attività imprenditoriali: possono anche restare, però, come in larghissima misura restano, per dir così, assenteiste, di stile assai analogo, cioè, alla vecchia proprietà terriera. E come la forma di proprietà, si moltiplicano pure, e assai di più, le forme di reddito suscettibili di dare accesso alla proprietà stessa: assistiamo alla crescita delle strutture amministrative pubbliche; dei servizi connessi all'urbanizzazione; delle strutture organizzative terziarie, che si affiancano, dentro e fuori, allo sviluppo industriale; delle attività professionali vecchie e nuove.
Tutto ciò crea un ampio campo di formazione di redditi a dimensione-risparmio, eccedenti, cioè, in piccola o media misura la necessità di consumo, e che si riversano sulla proprietà nelle vecchie e nelle nuove forme. Questi fenomeni vanno di pari passo con la crisi finale, nelle abitudini e nella legislazione, del maggiorascato come specifica filosofia dell'ereditarietà patrimoniale. Si ingrossa, insomma, e cospicuamente, il bacino di una ricchezza diffusa, che si prepara alla successione di quella prevalentemente terriera di un tempo, e non sempre è dissimile, per stile economico e funzione di distinzione, da quella, mentre si moltiplicano i canali che la formano. Si aggiunga a tutto questo il rilievo nuovo che la politica, l'amministrazione, la gestione anche non proprietaria di imprese conferiscono come posizione di prestigio non servile (anche quando 'di servizio') a chi assolve funzioni di dirigenza o rappresentanza: e ciò indipendentemente dagli eventuali risvolti economici.Si ha, in altre parole, un'espansione di campo per una borghesia del tipo che abbiamo visto prevalente nell'ancien régime e specialmente verso la fine di questo. Nonostante l''ispessimento' della borghesia imprenditoriale propriamente detta, la parte delle altre attività definite 'borghesi' tende a rimanere rilevante e addirittura preponderante. L'osservatore della società ottocentesca, oggi, è indotto a porsi il problema dell'esistenza e persistenza di una 'pluralità' di borghesie nel tessuto sociale (v. Macry, 1980). E certamente la stratificazione sociale, nel corso del XIX secolo, tende a semplificarsi in basso (la cosiddetta 'proletarizzazione'), ma a complicarsi nel mezzo. Nasce l'espressione 'piccola borghesia' e con essa un tipo sociale che avrà fortune letterarie, di prevalente tipo satirico. La differenziazione identificativa del borghese non avviene più nel confronto di un rango più altolocato, ma piuttosto verso il basso: verso il proletariato e il popolo, o popolino, e verso, appunto, la 'piccola borghesia'.
Di una differenziazione verso l'alto, di tipo tradizionale, come fatto di apprezzamento sociale, restano tracce connesse alla persistenza del mito nobiliare, il quale è ormai solo un mito: ma a esso si associa la discriminazione reputativa, pertinente a stile e maniere, che colpisce ancora la fortuna più recente rispetto a quella più stagionata. È il mito nobiliare che viene evocato, in sostanza, quando si discrimina il 'nuovo ricco', il parvenu, come 'borghese' rispetto a chi, nella sostanza, non lo è meno dell'altro. A evocarlo, spesso, sono addirittura esponenti di strati dal punto di vista economico-sociale inferiori, 'piccolo-borghesi', ma che si autocollocano, per cultura e maniere, su un piedistallo critico: questa possibilità, che mimetizza un'ottica aristocratica ma rifiuta il riconoscimento automatico al nuovo titolo sociale sovraordinante - la ricchezza - è, però, a ben vedere, una conquista di natura prettamente borghese in quanto negazione di valori sociali diversi dal merito. Come è borghese, del resto, sotto il profilo della tradizione storica (lo si è visto), la propensione a recintare gli spazi acquisiti come nuove aree di distinzione: quella negazione può, ahimè, negarsi attraverso l'inesorabile ripetersi di cristallizzazioni. È solo il dinamismo della società che fa e disfa.
La borghesia ottocentesca non è, dunque, salvo queste sopravvivenze simboliche, differenziata rispetto a un 'più-in-alto' (è peculiare eccezione il modello tedesco, di cui stiamo per dire e che, non a caso, sarà imputato di drammatica anomalia). E, salvo le stesse sopravvivenze simboliche, che si manifestano nella recinzione da stagionatura (ma sono prive di cogenza legale), nulla oppone ai nuovi ingressi: la sua filosofia è, anzi, come si è detto, quella del merito e del successo. Ciò dovrebbe indurre una labilità dello spirito di gruppo, privilegiare il livello individuale dell'azione sociale, e vanificare, in sostanza, ogni problema d'identificazione aggregativa unitaria.Se questo non avviene, ciò è dovuto a due ordini di fattori che erano praticamente assenti nel mondo nobiliare: li chiameremo fattori costruttivi interni e fattori difensivi esterni. I primi - fattori costruttivi interni - si costituiscono in relazione al legame che unisce la formazione della borghesia (o delle borghesie, o comunque si voglia chiamare il coacervo coinvolto in questo processo) a un nuovo tipo di Stato, che è rappresentativo sia nella struttura delle proprie istituzioni che nel suo presentarsi nel mondo, rispetto agli altri Stati. La borghesia - potrebbe dirsi - trova qui le forme del suo 'apparire' che le erano negate da Goethe, rispetto alla nobiltà, nelle riflessioni di Wilhelm Meister (v. Habermas, 1962). In quella doppia rappresentatività, nelle forme e funzioni cui dà luogo, nei fili che essa tesse per connettere in modo nuovo la struttura sociale (attraverso compromessi con l'antico o aperture al futuro), nella cultura e nelle immagini che esprime, nel confronto conflittuale, emulativo, imitativo con altre nazioni, si crea l'identificazione, che qui diciamo 'interna', delle borghesie, appunto, 'nazionali', in quanto legate ai loro propri modi di costruzione come élite (v. Salvati, 1988).
Diremo oltre dell'Inghilterra di questo secolo, la cui peculiarità, come abbiamo visto, risale assai addietro nel tempo. Per l'Europa continentale il modello più tipico d'identificazione 'interna' della borghesia ottocentesca è, ovviamente, quello francese. Anche un'infaticabile studiosa della borghesia ottocentesca francese, Adéline Daumard, continua a registrare, alla fine della monarchia di luglio, l'atavica propensione dei vertici borghesi ad aristocratizzarsi. Ma questa 'aristocrazia borghese', ora, non si annulla verso l'alto, dove può trovare 'maniere', ma non più valori: questi deve cercarli nella creazione di un sistema di norme che rendano compatibili l'individualismo competitivo e il mantenimento dell'ordine sociale (v. Daumard, 1963), nei confronti del quale scricchiolano i legami della stabilità, della religione e della deferenza. Fu Guizot a lanciare la parola d'ordine che sarebbe risultata alla fine vincente, evocando un avvenire non definito nel quale la maggior parte dei cittadini potranno fondersi nei ranghi della classe media, trovando la propria gratificazione in quell'individualismo che non pareva fatto per loro. Ma finché - come comincia ad accadere solo oltre la metà del XX secolo - non si saranno create le condizioni che possano rendere credibile quella prospettiva (e tutte le volte, in ogni caso, che essa venga messa in forse), la borghesia dovrà cercare d'identificarsi con l'amalgama di ciò che resta o si riproduce di quegli antichi connettivi dell'ordine sociale.
È stato però messo in evidenza che felice caratteristica dell'immagine proiettata dal mondo della borghesia francese sarebbe una sostanziosa continuità (non tanto quindi un continuum da mobilità quanto da comune appartenenza simbolica) fra 'grande' e 'piccolo' (ravvisandola anche nell'amalgama sansimoniano dei "produttori") che l'eredità rivoluzionaria avrebbe consentito di stabilire entro l'identità borghese, cioè, in altre parole, la capacità di autorappresentazione democratica della borghesia francese, in un senso che è insieme politico, sociale ed economico (v. Demier, 1983; v. Salvati 1988).
In quest'ottica può essere inquadrato, in realtà, anche l'apprezzamento sostanzialmente paritario assegnato, nel sistema di valori francese, al rango amministrativo, al servizio della 'nazione', rispetto al rango conseguito o convalidato sul mercato. Una particolare importanza ha però, nel caso francese, la straordinaria forza diffusiva della immagine stilistica, egemone del mondo internazionale dell'Ottocento, che fa, significativamente, della Parigi borghese l'erede della Parigi della corte: è questa gratificante egemonia - assai più costante di quella politico-militare - l'immagine sulla quale si compatta nazionalisticamente, e con larghe capacità aggregative, la borghesia francese.
C'è, però, nel continente europeo, un importante caso diverso, quello della Germania - nuova e grande protagonista dell'Ottocento, specie dopo il 1848 - in cui la nozione di borghesia, solidamente presente nella tradizione, acquista originali valenze. Il vento dei mutamenti investe sensibilmente, come si sa, la Germania nell'età della Rivoluzione francese e dell'egemonia napoleonica, ma questo avviene nel quadro e sotto la spinta di una forte struttura statale, quella della monarchia prussiana, che tende a pervadere la stessa società in mutamento, sia con una solida presenza organizzativa (militare, amministrativa, educativa) di stampo rigidamente gerarchizzato (in una gerarchizzazione che intreccia i privilegi nobiliari degli Junker con le funzioni esercitate), sia, in parallelo con quella, attraverso un sistema di valori orientato allo statalismo (nel quale è come rinverdito il motivo luterano del Beruf: vocazione, missione).
Si afferma, in questo contesto, un particolare tipo di distinzione sociale, il quale porta dentro la società civile (bürgerliche Gesellschaft) questo sistema di valori che premia il merito inteso come 'servizio': si tratta di valori che hanno analogia con quelli emersi in Francia in età napoleonica, ma con grandi differenze. Lo Stato napoleonico era come una metafora del trionfo dell'individualismo (simboleggiato nel culto stesso dell'imperatore) e il merito si configurava come merito-successo anche nel servizio. Lo Stato prussiano chiede invece immedesimazione nell'istituzione (il re stesso ne è in fondo come il più alto funzionario) e nell'impersonalità delle sue regole: questa immedesimazione produce un merito che somiglia a un valore più tradizionale, l'onore. Ma non si tratta di onore aristocratico, bensì di onore borghese: fedeltà, servizio, qualità non sono dovuti al sovrano in quanto investito da Dio oppure primo degli aristocratici, ma all'universalità statuale che egli rappresenta (anche se, in quello Stato, gli Junker sono più universali degli altri).
Nella Costituzione tedesca, è stato osservato, la separazione fra Stato e società civile è enfatizzata (v. Schiera, 1987) in termini che risentono con sofferenza la rottura del vecchio equilibrio della società di ceti che omeostatizzava gli attriti sociali entro una struttura di politico e sociale in continuum: ora la società civile, con l'industrializzazione che avanza, è campo aperto della conflittualità: lo Stato è allora vissuto imperiosamente come luogo rafforzato del controllo della distinta area delle tensioni e dei conflitti. Nella società, si può aggiungere, coloro che assolvono ufficialmente queste funzioni costituiscono socialmente qualcosa di più: è la Staatsbürgertum.
Ma vi è dell'altro: la nuova realtà della divisione del lavoro viene concepita come un unisono. Dà luogo a Berufsklassen con specifiche e differenziate, ma convergenti, missioni "davanti agli immensi compiti della intera società e singoli gruppi secondo le premesse storiche, e le differenze di cultura" (v. Riehl, 1851; v. Cervelli, 1988). In questo contesto i ruoli stessi della società civile, quali che siano, prendono maggiore o minore dignità in relazione a un elemento universalistico e non individualistico: la cultura, l'educazione, che sono concepite e immaginate come modi di assunzione nell'area delle responsabilità in cui il governare universalistico associa a sé il conoscere: si parla di Bildungsbürgertum. (La distinzione conferita dai modi e dai luoghi della formazione culturale ha dunque un senso diverso da quella vigente, poniamo, in Inghilterra, dove è fatto interno, per così dire, all'aristocrazia).
Si è detto dei fattori d'identificazione 'interni'. L'altro ordine di fattori d'identificazione unitaria - quello che abbiamo definito 'esterno' - deriva da intenti difensivi. A differenza della nobiltà, che non si era mai accorta di essere minacciata, e si difendeva, quando lo faceva, solo dall'inflazione di se stessa, la borghesia avverte di vivere in pericolo: sente l'ordine sociale come precario. L'identificazione di sé come unità avviene in presenza del nemico. E, del resto, è il nemico stesso a identificarla: il Manifesto dei comunisti è una lettera minatoria. Ma Parigi stessa, capitale della borghesia, è già da tempo una vivente minaccia. Questo spiega il successo che incontra, con lo sviluppo del movimento socialista, l'accezione marxista del termine: si fa strada un impiego della parola che assume specularmente l'accezione marxista, ma in senso difensivo. Così la borghesia, lungo il secolo XIX e il XX, esiste più o meno intensamente in termini unitari se e in quanto si sente in pericolo.Momento tipico, e particolarmente drammatico, di questa natura è quello dell'Europa del primo dopoguerra. La minaccia politico-sociale identifica l'avversario come borghesia e costringe quindi ciò che è minacciato ad auto-identificarsi nello stesso modo e a 'rifondarsi'. "Nell'uso che del termine si faceva durante gli anni venti, 'borghese' richiamava questioni fondamentali di gerarchia sociale e di potere. Era il vocabolo cifrato che indicava l'origine di rapporti caratterizzati come l'opposto di ciò che i socialisti proponevano come alternativa" (v. Maier, 1975). In chi si autoriconosce come minacciato troviamo però, in effetti, interessi, 'marxiani' e non; troviamo anche un coacervo di cultura e valori, cioè, che gli interessi, o comunque, chi si assume l'onere politico di gestire la complessiva difesa, cercano di amalgamare. Probabilmente devono ricondursi all'ampiezza e alla gravità con cui la minaccia era vissuta nei singoli paesi le differenti sfumature su cui il termine 'borghese' venne attestandosi nei diversi paesi (ibid.): quella di 'civico' in Germania, dove si avvertiva evidentemente una minaccia al tessuto sociale venerato come tale; di 'élite dirigente' in Italia, dove più semplicemente valeva l'idea che qualcuno dovesse comandare; di eleganza e prestigio in Francia, dove il vertice sociale raccoglieva ancora i frammenti di un fascino antico.La divaricazione intervenuta con l'avvento dei regimi fascisti nella vicenda storica dei paesi europei ha poi sollecitato, nella successiva fase di riavvio di una evoluzione convergente sul modello democratico, una riflessione comparatista - a maglia larga - nella storiografia dell'età contemporanea. La categoria 'borghesia' ha svolto finora un ruolo importante in questo tipo di discussione, nelle cui origini talvolta appaiono sfumati i contorni fra colta pubblicistica militante e indagine storica vera e propria. La nozione di borghesia diviene quasi un simbolo che riassume in sé - come un attore sociale individualisticamente dotato di responsabilità - problemi di sviluppo economico, evoluzione delle istituzioni, regolabilità delle tensioni sociali, posizione relativa di un paese nel sistema internazionale.
La storiografia tedesca delle generazioni postbelliche, in primo luogo, ha ripreso con forte impegno di ricerca il tema, da tempo posto dai marxisti, di un Irrweg (via sbagliata) della storia tedesca (v. Abusch, 1946): la discussione, in termini più problematici e controversi, si è intitolata al Sonderweg (via peculiare) e si è per gran parte risolta in una controversia sul peso e sulla posizione della borghesia tedesca nel XIX e nel XX secolo. "Gli storici della 'via particolare' ritengono che la responsabilità dei drammatici errori nell'evoluzione della storia tedesca, culminati nel 1933 nella presa di potere nazionalsocialista, vada attribuita in primo luogo alla borghesia. Essa non avrebbe conquistato, né socialmente né politicamente, quella egemonia che sarebbe spettata al suo potere economico. Si sarebbe invece adeguata nei propri comportamenti sociali alle vecchie élites di potere, facendosi integrare politicamente tramite l'ideologia social-imperialista e lo sciovinismo nazionalista. Sia nella società che nella cultura politica dell'impero si osserverebbe pertanto una carenza di spirito borghese, che avrebbe contribuito in modo determinante all'ascesa e alla vittoria del nazismo" (v. Frevert e Kocka, 1984). In tale impostazione si trova adombrata una tesi che era stata enunciata da Max Weber nel 1895 ("Lo Stato tedesco non è stato fondato dalla forza autonoma della borghesia [...]. Non motivi economici ma un passato privo di esperienza politica ha provocato immaturità [...]. Il dominio di un grande uomo [Bismarck] non è sempre il mezzo più idoneo all'educazione politica [...]. Il problema più serio per l'avvenire politico della borghesia tedesca è se non sia ormai troppo tardi per recuperare tale educazione": v. Weber, 1895). La stessa tesi è praticamente alla base del noto saggio di Schumpeter (v., 1919) sulla Sociologia dell'imperialismo.Anche in Italia la 'debolezza' storica della borghesia è un motivo antico. "Esiste una radicata, tenace opinione che vuole la borghesia italiana gracile, arretrata, sorda ai propri compiti storici, inadeguata ai modelli europei" (v. Romanelli, 1988). Presente nel filosofo marxista di fine secolo Antonio Labriola, questa idea divenne un cardine dell'interpretazione della cultura comunista, nei suoi maggiori esponenti, Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti, che la elaborarono in documenti politici - le Tesi di Lione del 1925, il rapporto di Togliatti al Congresso del 1945-1946 - come pure in saggi e note storiche. Nel caso italiano, come in quello tedesco, vengono stabilite connessioni fra quella 'debolezza' e il sorgere del fascismo (v. Togliatti, 1945). A differenza di quella tedesca, però, la borghesia italiana sarebbe stata anche economicamente immatura. Timorosa, negli anni dell'unificazione politica, di una rivoluzione contadina, e pertanto propensa a un compromesso economicamente debilitante con forze moderate, ritrovatasi successivamente troppo debole per reggere il confronto sindacale democratico con il movimento operaio, si sarebbe volta all'autoritarismo fascista.L'aver subito una drammatica vicenda di 'crisi della democrazia' è dunque, per un paese, un titolo privilegiato perché la storiografia intenti un processo alla relativa borghesia. Ma possono esistere altre responsabilità storiche, sebbene minori. Per esempio quelle relative a turbe, vizi, lentezze nello sviluppo dell'economia (nel caso dell'Italia abbiamo visto presente anche questo motivo, oltre a quello della debolezza civile e politica). Il rallentamento della crescita economica inglese, con il declino dell'Impero, può pertanto essere ricondotto alle latenti propensioni sedentarie e da rentier di una borghesia mai sottrattasi alla fascinosa subalternità rispetto al modello aristocratico. Non è mancata, anche nel caso della Francia (v. Salvati, 1988), una tendenza a indagare in termini di attitudini generali e responsabilità 'di classe' il problema di una presunta debolezza competitiva dell'imprenditorialità francese nel confronto europeo (problema che è però venuto poi perdendo attualità con l'emergere di visioni pluralistiche dello sviluppo economico e di una rivalutazione delle peculiarità francesi al riguardo).
Il mondo anglosassone, come si sa, manca sostanzialmente del termine: l'uso del termine bourgeoisie, di sottolineata derivazione francese, è sporadico e caratterizzato. Vige, per indicare il referente del francese bourgeoisie, per lo più, il termine middle class, che fa la sua comparsa fra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento. Le connotazioni di questo termine sono geometrico-quantitative (coloro che stanno nel mezzo della scala sociale) e si prestano particolarmente, quindi, a un uso slittante e storicamente cangiante: riferito in origine a una collocazione intermedia fra nobiltà e popolo, e quindi decisamente comprensiva del gruppo sociale degli imprenditori della rivoluzione industriale (in questo senso ancora in Engels - v., 1844 -, è poi frequentemente scivolato a significare l'analoga collocazione, in tempi più recenti, dei gruppi situati fra gli have e gli have not: nelle lingue continentali il 'ceto medio', classe moyenne, Mittelklasse o Mittelstand). Nel nuovo contesto, ormai, i primi non sono più, o non sono più soltanto, nobili, ma anche, e comunque soprattutto, 'borghesi', nel senso dell'imprenditorialità capitalistica e, in generale, dell''alta borghesia'.
Il termine middle class finisce così con l'essere un favorevole presupposto semantico per una teoria gradualistica della stratificazione sociale, ma è anche - non lo si può disconoscere - appropriato riflesso di un tipo di evoluzione sociale caratterizzato, dapprima nella versione britannica e poi, più accentuatamente, in quella americana, da modalità peculiari di stratificazione. In queste coesistono tratti apparentemente contraddittori e, comunque, piuttosto estranei alla tradizione eurocontinentale della civiltà occidentale: a) continuum sociale e, al tempo stesso, grandi disparità; b) spiccato distinzionismo che coesiste con un'alta legittimazione della mobilità sociale (negli Stati Uniti ciò è espresso talora nella paradossale formula del 'diritto al successo' che, naturalmente, non reca di per sé il successo stesso).In tale contesto, il termine posizionale di middle class finisce con l'essere slittante e con il perdere lo stesso parallelismo con la nozione continentale di borghesia: questa si sposta, per così dire, verso l'alto, con la scomparsa di una dimensione sociale specifica della nobiltà, laddove l'espressione middle class - in un contesto in cui la nobiltà è storicamente mancata, come gli Stati Uniti, ma si è formata, al vertice sociale, quella che nel continente europeo si sarebbe chiamata 'borghesia' (eventualmente 'alta borghesia') - tende a conservare una connotazione di medietà e finisce sovente con l'indicare, appunto, i ceti medi (l'europea 'piccola borghesia'). C. Wright Mills (v., 1956), in una delle poche opere americane che tematizzino il problema con approccio globalistico, preferisce parlare di "élite del potere", assumendo, per la caratterizzazione di questa, una visione tridimensionale: potere, ricchezza, celebrità.
Nel linguaggio relativo alla stratificazione sociale tendono pertanto a prevalere formulazioni esplicitamente posizionali come, a fianco di middle class, upper class o lower class, che finiscono con il sostituire gli ultimi residui di incrostazione storica rimasti sulla parola middle class nelle espressioni upper middle class e lower middle class. Il continuum sociale si esprime compiutamente, poi, in una graduazione, che potrebbe proseguire infinitesimalmente, delle indicazioni posizionali (upper-upper, lower-upper, upper-middle, lowe-rmiddle, lower-lower; v. Warner, 1941). Il modo in cui le scatole posizionali vengono riempite può essere quello della distribuzione statistica del reddito o della ricchezza, ovvero, secondo il metodo detto 'soggettivo', quello dell'opinione espressa dai soggetti, rilevata con metodo campionario. Quest'ultimo metodo ha la sua base teorica nella convinzione crescente che la nozione simbolica sia sostanzialmente più rispondente di quella realistica (ridottasi entro termini quantitativi) all'identificazione del soggetto sociale. "Per essere borghese si deve essere riconosciuti come tali da altri sulla base del godimento di una certa sicurezza materiale e di un'appropriata attenzione al proprio stile di vita. È uno status che dipende da un giudizio soggettivo che deve essere affermato in presenza di altri aventi status equivalente o superiore" (v. Holt, 1985). La conoscenza ottenuta mediante ricognizioni statistiche su redditi, patrimoni e altri indicatori oggettivi, utile in sé (e per finalità di politica economica e sociale), non pare offrirsi come base deterministica (più o meno elasticizzata) per l'intelligenza e la prevedibilità di comportamenti aggregati, come poteva pretendersi per il concetto qualitativo di 'classe'. E non sembra esaurire, in questo tipo di società, il quadro delle differenziazioni e delle ascrizioni sociali. Le curiosità conoscitive maggiori, al riguardo, tendono a spostarsi, quindi, sui valori condivisi, sulle motivazioni dell'azione sociale e sui fattori di mobilità sociale. O, per altro verso, sulle funzioni: definite, queste, entro una visione dell'insieme sociale come insieme complesso.
Le società europee, con l'aumento del reddito medio pro capite, la diffusione dei consumi di massa, la standardizzazione degli stili di vita indotti dai mass media, sembrano tendere, di fatto, a un crescente avvicinamento al modello americano. In esse permane ancora largamente, tuttavia, a differenza che in quella americana, la tradizione antagonistica del movimento operaio socialista che ha continuato a designare talvolta la controparte sociale della propria azione politica come 'borghesia', secondo la tradizione marxista (preferendo, però, nella polemica più strettamente sindacale l'espressione 'padronato'). Ove si eccettui questo uso prettamente antagonistico, la categoria di 'borghesia', in relazione alla società odierna, appare di scarsissimo o nullo valore euristico e si tende sempre più a preferire determinazioni e modi di classificazione sociale più specifici e disaggregati, più empirici e più operazionali, ovvero, in caso di costruzioni teoriche aggregative, si ricorre ad altre categorie, che, come nel caso citato di Mills, tendono a sintetizzare un coacervo. In Italia è stato tentato un recupero con valenza operazionale (ma in realtà solo convenzionale) del termine 'borghesia' a fini di classificazione statistica per indicare lo strato superiore della società per funzione e per reddito, quantificato, per il 1971, in 500.000 unità circa (v.Sylos Labini, 1974).
Anche in relazione all'analisi di società ancora arcaiche aggredite da dinamiche modernizzatrici, sembra ormai preferibile l'adozione di apparati concettuali di classificazione sociale che vadano oltre formule come quelle di 'borghesia nazionale' o 'borghesia compradora' e simili che furono adoperate con qualche utilità nelle prime analisi dei movimenti di modernizzazione del Terzo Mondo. Il termine resta ormai confinato, quindi, per ciò che concerne la società dei nostri giorni, alla polemica ideologico-politica - di qui trasferito non di rado entro l'ambito della polemica culturale e artistica con significati diversi ma analoghe valenze - e indica sommariamente, nell'atto stesso del suo uso, una intenzione di rifiuto ideologico, assai meno saldamente ancorato, però, che in passato a un'alternativa conosciuta di società o per lo meno a varianti di questa.
Diverso è il problema per quel che concerne l'uso storiografico, sul quale ricade l'onere di rappresentare e spiegare un grande mutamento strutturale effettivamente intervenuto nella realtà storica nel corso dei secoli dell'età moderna e contemporanea. Da questo punto di vista si può affermare, a conclusione di quanto abbiamo detto, che la caratterizzazione più generale della borghesia in quanto gruppo sociale, nell'età contemporanea, sia la detenzione, come bene mercantile, della proprietà (piena, quindi, nel senso del diritto romano), in un contesto sociale che vede crescere la quota propriamente acquisitiva di quella detenzione: la proprietà, dunque, e non l'impiego diretto di forza-lavoro. S'impone, pertanto, una definizione distinta di 'borghesia' e 'società borghese'. Può valere, per quest'ultima, la definizione di Macpherson: "Per società borghese intendo [...] una società in cui le relazioni fra gli individui sono regolate dal mercato; vale a dire, in cui terra e lavoro, come pure ricchezza mobiliare e beni di consumo, sono trattati come merci da acquistare e da vendere e su cui contrattare in vista di profitto e accumulazione, e in cui i rapporti reciproci degli uomini sono per larga parte strutturati dal possesso di queste merci e dal successo con cui essi utilizzano a proprio vantaggio queste disponibilità". Questo 'modello' Macpherson lo chiama, per dargli una connotazione analitica più precisa, "società mercantile possessiva" e lo distingue da un modello di "società tradizionale o di status" e da un modello di "società mercantile semplice" (v. Macpherson, 1962).
La caratterizzazione mercantile della proprietà borghese è simbolicamente determinante: significa, da un lato, che essa è formalmente accessibile a chiunque non sia privo di diritti comuni, e, dall'altro, che il bene oggetto di proprietà è del tutto suscettibile di scambio, è detenuto entro ordinamenti che lo rendono sempre più libero da vincoli e sempre più tecnicamente frazionabile, e quindi massimamente intercambiabile e teoricamente generalizzabile. La proprietà che è fondamento della condizione borghese si presenta, dunque, da un lato, come potenzialmente acquisibile da qualunque membro della società e, dall'altro, come agevolmente convertibile, e, quindi, con sempre maggiore equivalenza fra tutte le sue forme: ciò che non è proprio dei titoli di possesso o di disponibilità dei beni, nonché della loro valenza di status o di prestigio, in ogni e qualsiasi ordinamento storico.
Solo entro queste coordinate si può intendere, tra l'altro (ma perdendone la referenza diretta a un preciso attore sociale collettivo e l'immediatezza antagonistica), una definizione come quella marxiana che tende a qualificare la proprietà caratterizzante la borghesia come la proprietà dei mezzi di produzione e di scambio: in un'economia fortemente e crescentemente mercantilizzata, infatti, ogni titolo di proprietà, e persino ogni titolo reale o potenziale alla percezione di reddito, equivale, in effetti, sotto il profilo patrimoniale, a una quota dei mezzi di produzione e di scambio dell'insieme sociale (sempre che, concettualmente, si attribuisca a questi mezzi di produzione e di scambio carattere di base patrimoniale primaria della creazione lavorativa del reddito stesso). Se si tiene presente questo, però, la nozione perde, come si è detto, in possibilità operazionale di riferimento specifico, entro un ordinamento largamente mercantilizzato, a distinzioni sociali qualitative di derivazione economico-funzionale - la proprietà e la gestione dell'impresa economica - e, entro un ordinamento siffatto, tende invece a confondersi sul piano economico (come si è visto) con distinzioni solo quantitative relative alle dimensioni del patrimonio e del reddito.
La condizione borghese è stata ed è inquadrata, volta a volta, come formalmente aperta ma sostanzialmente chiusa - una forma nuova, in pratica, di condizione privilegiata (visione adombrata, ad esempio, nella contrapposizione della 'borghese' eguaglianza 'formale' all'eguaglianza definita, per lo più genericamente, come 'sostanziale') - ovvero come la negazione stessa del privilegio, e quindi come illimitatamente estensibile ed espansiva. Nel primo caso la borghesia è stata considerata creatrice di una radicale (e alla lunga insostenibile, catastrofica e autodistruttiva) polarizzazione della stratificazione sociale (Marx); nel secondo è stata vista come battistrada e mediatrice di una lenta, ma inesorabile, omologazione sociale egualitaria (Tocqueville).
Si tratta di una contrapposizione di ottiche che induce a valutazioni opposte dei processi di macrodinamica sociale che si considerano promossi dalla borghesia stessa: nel primo caso questi processi sarebbero sostanzialmente e implacabilmente riconducibili a un fenomeno solo, quello della proletarizzazione, anche se in varianti che possono non comportare forme d'immiserimento e d'identificazione esclusiva del lavoratore non proprietario dei mezzi di produzione nel tradizionale blue collar. Nel secondo caso il fenomeno dominante della società borghese sarebbe, invece, la progressiva diffusione e generalizzazione di standard di vita e sistemi di credenze e valori uniformi, tendenti a dominare le stesse polarità sociali, le quali si configurerebbero, quindi, come estremi di un continuo: vertici di successo, da un lato, e frange di emarginazione, dall'altro, ma in un ampio campo di possibilità aperte.
Questa duplicità di visuale non fa che riproporre, in forma aggiornata e in termini di chiara contrapposizione, la duplicità di connotazione presente nella nozione ottocentesca di 'piccola borghesia': che, sotto il profilo di classe, indicava i residui, in corso di proletarizzazione, di una condizione lavorativa autonoma e, sotto il profilo di status, indicava la propensione, questa, invece, non declinante, ad assumere come quadro di riferimento normativo, gradualmente inverato a ogni incremento nella curva del reddito, il modo di vita e il sistema di valori della borghesia. In generale si può affermare che l'espressione anglosassone middle class contenga alla radice, in forma ambigua e tuttavia carica di significato, tale duplicità. "Il borghese - diceva Groethuysen (v., 1927) - non è nulla di definitivo". (V. anche Capitalismo; Classi e stratificazione sociale; Classi medie; Marxismo; Proprietà).
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