BRAHMANESIMO
Occorre anzitutto definire esattamente l'estensione del termine. Con esso si vuole indicare, nel presente articolo, non solo una forma di pensiero religioso-filosofico, ma anche un complesso di istituzioni e di ordinamenti, questi e quella o elaborati o riplasmati e assimilati dai brahmani, cioè dalla casta che nell'India rivendicò a sé il predominio spirituale. Già nel periodo a cui ci riportano gl'inni vedici dovette affermarsi l'autorità dei sacerdoti come ministri del culto; ma essa si rafforzò e divenne prevalente in quell'età che si suole indicare come il secondo periodo della letteratura vedica, e che comprende, oltre al Yajurveda, i Brāhmaṇa, gli Āraṇyaka e le Upaniṣad. Tale periodo si suol fare incominciare circa dalla fine del secondo millennio a. C. Da quell'epoca il brahmanesimo divenne la forma predominante della civiltà indo-ariana, sia pure attraverso varie vicende. Gl'istituti sociali persistettero più tenacemente: così il sistema delle caste è tuttora in vigore, e le cerimonie che convalidano i principali atti della vita sono in gran parte ancor oggi celebrate dai brahmani. Più profondo fu nel corso dei secoli il cambiamento subito dalle idee religiose, sì da parere che il brahmanesimo dovesse, circa la metà del primo millennio dell'era nostra, dissolversi nell'induismo. Ma a chi ben guardi, molte delle idee religiose e degli orientamenti spirituali elaboratisi entro il brahmanesimo durante la sua storia anteriore, rimasero vitali: ad es. il Vedānta di Śankara è del IX sec. e gli stessi riformatori religiosi dell'ultimo secolo si richiamarono alle più alte espressioni del pensiero brahmanico.
Nella formazione e nello sviluppo del brahmanesimo, inteso nel senso sopra descritto, sono da distinguere due correnti: l'una che si riconnette più davvicino al vedismo ed è di emanazione brahmanica, l'altra che consiste in nuovi apporti derivati da altre classi sociali o da elementi non ariani: nel qual caso i brahmani trasformarono e incorporarono le nuove idee nel proprio complesso di principî speculativi e di norme pratiche. La fusione non avvenne senza contrasti, come non fu senza contrasti l'affermarsi della prevalenza brahmanica: va tuttavia osservato che, nel campo del pensiero, non dovettero verificarsi posizioni di vera intransigenza: il punto essenziale si ridusse al riconoscimento del carattere rivelato del Veda (śruti), riconoscimento del resto quanto mai largo e quasi formale, tanto da permettere lo sviluppo dei sistemi più diversi e contrastanti.
Correnti religioso-filosofiche. - I più antichi testi sopra ricordati, il Yajurveda e i Brāhmaṇa, ci presentano una fase religiosa dell'India assai diversa da quella del periodo degl'inni vedici. Il sacrificio è il centro della vita religiosa, ed è considerato, non come un modo per ottenere dagli dei ciò che l'uomo desidera, ma come il mezzo per sé infallibile di raggiungere tale scopo, sicché ad esso sono trasportate tutte le potenze che altrimenti si attribuiscono agli dei o alla divinità: gli dei stessi devono la propria immortalità e le proprie prerogative all'aver celebrato il sacrificio. Il quale, per riuscire efficace e perfetto, dev'essere eseguito in modo impeccabile secondo i riti e le norme prescritte: il più piccolo errore di forma può render vana tutta la grande misteriosa opera del sacerdote. Il sacrificio è dunque un vero mezzo di dominio e di sicura signoria su tutte le forze note e ignote, sì da assumere quasi un valore cosmico universale: perfino la creazione è immaginata come il prodotto di un sacrificio celebrato dall'essere supremo. La scienza sacrificale acquista perciò la massima importanza; e l'uomo raggiunge la meta suprema seguendo "la via delle opere" (harmamārga), ossia facendo celebrare sacrifici e osservando le pratiche del culto. Da tutto ciò deriva un profondo rivolgimento nel modo di considerare le antiche divinità: le quali non sono più entità fornite di potenza propria e capaci di esercitare un'influenza sull'uomo e sulle cose, ma cadono quasi a una posizione subordinata di fronte alla forza occulta del sacrificio. Per tal modo tuttavia si apre l'adito a cercare quale sia veramente questo grande principio che anima di sé gli atti rituali: la mistica sacrificale dà luogo a tentativi d'interpretazione dei fenomeni fisici e psichici, e si comincia a vedere una distinzione fra microcosmo e macrocosmo, fra ciò che è dell'uomo e ciò che è fuori dell'uomo. In seguito, i due ordini di fenomeni, diremo così, umani e psicologici da una parte, non umani e cosmici dall'altra, si dispongono in due serie, entro ciascuna delle quali si cerca di mettere un ordine gerarchico negli elementi che le costituiscono; e le due serie si raccostano l'una all'altra in un tentativo di parallelismo, per cui il macrocosmo riproduce il microcosmo. Ma sotto la varietà delle parti di cui risulta ognuno dei termini di questa dualità, si volle scoprire il principio comune, immutabile ed eterno, che costituisce l'unità nella molteplicità: e lo si trovò nel bráhman per l'ordine cosmico, nell'ātman per l'ordine psicologico umano. Il bráhman è l'essere in sé (sat), di cui nulla si può dire, se non in via negativa: per designarlo, rispettando tale suo carattere ineffabile, si usa spesso tat "questo", l'espressione più indefinita che si possa trovare. Un passo delle Upaniṣad (Taitt. Up., 2, 4) dice: "la parola e il pensiero erano partiti per cercare il bráhman, ma tornarono senza averlo trovato". Esso è uno e infinito, incommensurabile, non nato, incomprensibile; quando l'universo si dissolve, esso solo veglia, e risveglia, cominciando dallo spazio, tutto questo universo. Il bráhman è l'essenza dell'essenza delle cose, e il suo nome segreto è "realtà della realtà", satya satyasya: la qual frase non è una definizione, ma, come osserva acutamente l'Oltramare (Hist. des idéés théos. dans l'Inde, I, Parigi 1907, p. 75), esprime invece l'impossibilità del nostro intelletto a concepirlo: noi conosciamo la cosa, satya, ma non la realtà profonda, la cosa in sé, satya satyasya. La concezione dell'ātman fu, forse, sulle prime animistica; ma la speculazione non tardò ad approfondirne l'indagine. La sua esistenza non ha bisogno di dimostrazione, implicita com'è nel fatto stesso dell'esistere: è il soggetto del conoscere, il principio coordinatore dei fatti fisici e psichici, ciò che costituisce l'identità dell'individuo. Abbiamo dunque due realtà: il bráhman o essere supremo, e l'ātman, l'Io trascendente. Questi due principî dominano la speculazione delle Upaniṣad. Ma qual è il rapporto fra bráhman e ātman? Considerati ognuno in sé, essi rappresentano l'estremo limite a cui la speculazione può giungere nell'esame dell'Io e del non-Io: e giusto nel momento in cui si colgono, par quasi se ne debba compiere la fusione in un'unica realtà che armonizzi in unità i due ordini cosmico e individuale fino a quel momento distinti. Tale fusione è avvenuta, non d'un tratto, però, né dovunque: ma la questione dell'identità fra bráhman e ātman appare a un certo momento e in taluni testi risolta: il bráhman è chiamato ātman e l'anima individuale è fatta identica con l'anima universale. Se le idee speculative delle Upaniṣad costituissero un sistema vero e proprio, noi ci dovremmo aspettare a questo punto un passo ulteriore per risolvere il problema del mondo esterno, soluzione che potrebbe avvenire in due modi: o ammettendo da una parte l'identità dell'anima universale con l'anima individuale, e lasciando dall'altra parte sussistere la materia; ovvero, negando totalmente la realtà del mondo esterno. Sennonché, le Upaniṣad non sono legate da un'unità organica, né esprimono un pensiero sistematico chiaramente definito, ma ci mostrano piuttosto una fase presistematica in cui lo spirito, illuminato non di rado dall'intuizione, oscilla fra soluzioni diverse, secondo la varietà d'origine e di temperamento dei singoli pensatori. Questo spiega come in seguito le molte filosofie formatesi entro il brahmanesimo potessero richiamarsi tutte a questi antichi documenti, ancorché il richiamo e il punto di attacco fossero alle volte forzati e formali. Anche per il problema or ora accennato, non si potrebbe dire che una sola e ben chiara sia la soluzione proposta dalle Upaniṣad, poiché l'ipotesi realistica pare sussistere anche quando la tendenza idealistica si manifesta più decisa. Secondo l'Oltramare (l. cit., p. 91) le Upanisad ammettono la realtà del mondo obiettivo come ammettono la realtà dell'anima individuale; ma l'una e l'altra si fondano sulla realtà suprema, bráhman; e l'ātman, in pari tempo cosmico e psichico, manifesta la propria unità nel parallelismo fra cosmo e psiche. Ma con questo non si risolve il problema, piuttosto si descrive non senza abilità l'incertezza che si rivela nei testi. A ogni modo possiamo dire che, pur in mezzo alle disuguaglianze, alle incertezze e talvolta agli assurdi di cui le Upaniṣad sono ben lungi dall'esser prive, si accende come una striscia di luce che dà loro un'importanza di prim'ordine: ed è la preoccupazione di questo problema: l'Essere in sé e le sue relazioni con l'Io individuale.
Le età suecessive continuano la ricerca, con metodo più rigoroso, con dialettica più ordinata, con più compiuta visione di tutte le possibilità di soluzione e con più chiara coscienza della varietà dei problemi e dei loro reciproci rapporti. Si giunge così alla definizione dei varî sistemi filosofici "ortodossi", che gli Indiani riducono a sei: Sānkhya e Yoga, Nyāya e Vaiśeṣika, Mīmāṃsāe Vedānta: nomi assai comprensivi, perché ognuno include suddivisioni e varietà di scuole e di autori, e si stende per secoli di storia. Bisogna invero tener presente che, mentre i testi a noi pervenuti dei varî sistemi furono redatti in età relativamente tarda, l'inizio della loro storia è assai antico: così la formazione delle teorie che poi furono il Sānkhya e il Yoga è da collocare forse nel sec. VIII a. C. (v. H. Jacobi, Die Entiwickl. d. Gottesidee bei d. Indern, p. 24-25).
Nell'età delle Upaniṣad si definisce la dottrina della trasmigrazione. Nel periodo anteriore, l'interesse dell'Indo-ario era rivolto a questa vita, deprecando la morte come il peggiore dei mali, quantunque all'uomo virtuoso fosse destinata una vita di gioie nel mondo di là. Poi, si fece strada l'idea che l'esistenza d'oltretomba fosse, non infinita, ma indefinita, e che, pur continuando a vivere dopo la morte terrena, l'uomo potesse incontrare l'ultima morte, la vera e definitiva, a un dato momento dell'esistenza d'oltretomba: e questa era, nei suoi modi, determinata dai meriti acquistati in questa vita. Si hanno già i due elementi che costitiuiscono la credenza nella trasmigrazione: il rimorire e il valore determinante delle azioni. Ma la teoria poté essere sistemata solo quando si fu giunti a concepire l'anima come sostanza immateriale e permanente. Caratteristico di questa credenza è il modo come si pensa la vita, la quale non è più un periodo limitato fra una nascita e una morte, ma sibbene una linea che non ha principio e in teoria non ha fine, formata di tanti segmenti di cui ognuno è un'esistenza, mentre il punto di giuntura di ogni segmento è costituito da una morte a cui segue una rinascita, sia in questo sia in un altro mondo. La vita dunque non è più tale nel senso comune della parola, ma un continuo scorrere, una continua corrente, saṃsāra. Forza determinante è il karma, ossia l'insieme degli effetti, o meglio potremmo dire, la potenza trascendente, di tutto quanto l'individuo compie in atti, in pensieri e in parole. Il modo di immaginare il karma ha un aspetto realistico, come di qualche cosa di soprasensibile che aderisca all'anima, in guisa varia secondo i varî sistemi, e che può o agire immediatamente o restare più o meno a lungo latente per poi produrre, quando sia "maturo", il suo effetto immancabile in questa vita o in un'altra. Ogni nostro atto dunque produce una specie di sedimento che accompagna l'anima determinando le fasi del suo trasmigrare; e solo quando esso sia tutto consumato, l'anima entra nel suo stato assoluto e conclude la serie indefinita del suo divenire, raggiungendo la liberazione (mokṇa, nirvāṇa). Sia detto subito che questa dottrina non è fatalistica, perché l'uomo, mentre deve ineluttabilmente subire le conseguenze del bene e del male commessi, può altrettanto certamente voler commettere il bene o il male. La vita universale diviene per questa teoria un'unità continua, perché ogni entità individuale può nelle sue varie rinascite trascorrere dal cielo alla terra, dal regno animale alla dimora sotterranea dei dannati; ma la beatitudine del cielo e le pene dell'inferno non sono eterne, ma commisurate al merito o al demerito. Ciò spiega anche perché il fine ultimo, il punto di quiete definitiva e permanente, fosse cercato altrove che in una qualunque delle forme di vita terrena o ultraterrena, in quel nirvāṇa o mokça che è in realtà indefinibile e assume i caratteri dell'assoluto.
Il complesso di idee tra religiose e filosofiche ora delineato costituiva un superamento, a ogni modo un indirizzo nuovo, di fronte al rigido ritualismo sacerdotale e al freddo e astratto concetto del bráhman sacrificale, sia pure pensato come forza cosmica universale. Questo nuovo indirizzo speculativo, per cui la salvezza vera dello spirito è da ricercare fuori della via segnata dagli atti rituali (karmamārga), fu denominato "via della conoscenza" (jñānamārga). In seguito, anche i sistemi filosofici promettono e assicurano ai propri seguaci il sommo bene, cioè la salute dell'anima, con la conoscenza dei principî da essi proposti. Come pratica efficace per toccare l'alta meta, fu considerato fin da tempi antichi anche l'esercizio dell'ascesi, la contemplazione meditativa, l'assorbimento estatico, in cui la verità si rivela per intuizione diretta, che è anch'essa conoscenza, anzi, in un certo senso, la conoscenza più alta e più piena. Naturalmente l'ascetismo, essendo più un metodo che un sistema, ebbe aspetti varî, a seconda delle varietà del pensiero religioso e del temperamento individuale, e fu rivolto principalmente a due fini, ora all'acquisto dei poteri magici (haṭhayoga), ora alla conquista della perfezione spirituale (rājayoga). l'ardore ascetico (tapas) appare come un'energia misteriosa, che può dominare ogni altra potenza: gli dei stessi esercitano l'ascesi, ad es. Prajāpati prima di procedere alla creazione: pur con molte differenze, si direbbe che il tapas assuma il valore del bráhman. A poco a poco, il muni o yogin finisce a rappresentare l'ideale dell'uomo religioso, sostituendosi al tipo del sacerdote esperto nel sacrificio: le letterature epica e puranica sono piene di leggende in cui l'asceta figura come un dominatore, che con la misteriosa potenza derivatagli dal tapas fa tremare gli stessi dei. Castimonie e penitenze, digiuni e vigilie, insieme con particolari positure del corpo, costituiscono le pratiche esteriori dell'ascetica, mentre la contemplazione e la meditazione profonda ne costituiscono l'allenamento spirituale; ma l'una cosa e l'altra sono intimamente connesse, con molta più ragione di quanto non appaia a tutta prima. Condizione preliminare perché si raggiunga il fine di così duro esercizio è la purità della condotta morale: il che nell'India può dirsi di ogni sistema speculativo, onde l'etica non fu colà una disciplina a sé, ma presupposto di ogni disciplina dello spirito. Comunque, comandamenti di morale furono per la prima volta formulati negli ambienti ascetici, a quel modo che la vita di diretta esperienza religiosa mise gli asceti più facilmente sulla via di arrivare alla concezione monoteistica: Īśvara, il Signore che crea e governa il mondo, è elemento essenziale del Yoga, cioè di quel sistema filosofico che uscì dal movimento ascetico e che, come sopra si disse, può secondo alcuni considerarsi già in atto nel sec. VIII a. C.
Questa ricerca speculativa e intuitiva, questa "via della conoscenza", può sembrare che escluda e sopprima l'altro indirizzo che faceva del sacrificio e del rito l'unica via di salute per l'uomo; ma nell'atto pratico ambedue le correnti coesistettero. Certo, un contrasto vi fu, ma non fu difficile comporlo. Nella scienza rituale i brahmani erano le autorità uniche e indiscusse, e la religione del sacrificio, da essi elaborata e condotta a una singolare perfezione, era loro propria, e ammessa come rivelata. Ma nel campo del puro pensiero, i brahmani non furono soli a trovare la nuova via; è anzi da tenere per certo che pensatori non brahmanici contribuirono potentemente alla speculazione teosofica e filosofica, così come i sacerdoti stessi presero parte attiva a questo nuovo impulso di ricerca meditativa: e siccome essi non si atteggiavano né a custodi intransigenti di un'ortodossia dogmatica né a direttori di coscienza, si fecero collaboratori di coloro che potevano diventare dei rivali, e appropriandosene le idee, rimodellandole ed elaborandole, riaffermarono il proprio predominio spirituale.
Mitologia. - La religione del sacrificio, come non appagava gli spiriti meditativi, così non rispondeva al sentimento popolare. Le antiche divinità vediche, private di gran parte del loro valore dalla concezione teologica, e dalla credenza nella trasmigrazione ridotte a modi relativi dell'essere, non rappresentavano più l'idea del divino in consonanza lirica con l'anima del credente. Si ha quindi un nuovo assetto della mitologia: e anche qui ha luogo da parte della casta sacerdotale quell'opera di adattamento e di assorbimento di cui sopra abbiamo parlato, e che riesce a dare un'impronta di brahmanico anche a ciò che tale non era in principio. Il passaggio dalla vecchia mitologia alla nuova avvenne principalmente in tre modi: divinità diverse ma somiglianti si fusero in una sola, e i nomi antichi sopravvissero come epiteti della nuova che da quelle risultava; un dato aspetto dell'antica divinità prese particolare consistenza, determinando così una figurazione nuova che si sostituì all'antica; e infine una divinità popolare che per qualche riguardo sembrava somigliante a una delle antiche, crebbe accanto a questa come un suo duplicato: nel qual caso, o s'introdusse nel pantheon come individualità nuova, o fu considerata come un eroe in cui la divinità similare s'incarnava. La teoria degli avatāra servì difatti a sopprimere molte contraddizioni e favorì la coesistenza di miti e di correnti religiose in apparenza contrastanti. La nuova mitologia del brahmanesimo ci appare in pieno sviluppo nelle due grandi epopee, il Mahābhārata e il Rāmāyaṇa: s'intende, nella forma più o meno modificata che i brahmani le diedero, ma che tuttavia lascia intravvedere non pochi tratti originali, per quanto le epopee stesse, nella redazione in cui ci sono pervenute, non riproducano la forma primitiva; ma lo sviluppo storico completo dei singoli miti sarebbe da delineare movendo dai documenti più antichi di questo periodo, e spesso anche del periodo vedico, per giungere poi fino ai testi delle singole sette induistiche. Fra gli dei vedici che continuano ad essere comunemente onorati vanno ricordati Sūrya, Soma, Agni, Indra, Vāyu, Varuṣṇa, Yama, Viṣṇu, Rudra, e le schiere di divinità mmori, piuttosto genî che divinità. Sūrya è il dio del sole: in esso si sono confuse le varie divinità solari dell'età vedica, e i loro nomi sono diventati altrettanti appellativi dell'unica figura mitica così formata. Da suo figlio Manu Vaivasvata discese la progenie umana, e dal nipote Ikṣvāku la famosa dinastia solare (sūryavaṃśa) a cui appartiene Rāma, l'eroe più popolare, e in certo senso l'eroe nazionale dell'India. Soma è il dio della luna, capostipite della dinastia solare (somavaṃśa); ma, sebbene connesso con credenze d'oltretomba, non fu divinità popolare. Né lo fu Vāyu, dio del vento; ma intorno a lui si raggrupparono variamente divinità popolari analoghe: così è detto suo figlio Hanumat, che secondo il Jacobi (Das Rāmāyana, Bonn 1893, p. 132) rappresenterebbe il monsone, e sono suoi compagni i Marut. Varuna, che già nel Ṛgveda cedeva davanti a Indra, perde sempre più il suo carattere di signore delle acque, per diventare dio del mare, mentre sorge accanto a lui Sagāra, anch'esso divinità marina. Agni e Indra, che sono gli dei preminenti nel Ṛgveda, continuano a sussistere nella mitologia del brahmanesimo, ma di molto impalliditi. Agni è la personificazione del fuoco ed è il dio dei sacerdoti; ha per figlio Skanda, dio della guerra. Indra è dio dei guerrieri: gran guerriero egli stesso e distruttore di demoni, capo degli dei e signore di un suo meraviglioso paradiso: la sua posizione fu forse preminente prima che si affermassero le nuove divinità, Brahmā, Śiva e Viṣṇu. Yama resta il dio della morte, gli Aśvin sono medici miracolosi, Bṛhaspati è maestro e sacerdote degli dei; ma sono figure che vanno sempre più offuscandosi. Grande rilievo acquistano invece nuove divinità, e talune fra le antiche che avevano prima un posto inferiore: Kumāra, dio della guerra; Kubera, dio delle ricchezze; Kāma dio dell'amore; e tutta una schiera di genî e semidei che riempiono il mondo mitologico di una vita palpitante e sono argomento di mirabili leggende: tali i Nāga, serpenti o dragoni, dimoranti in una meravigliosa regione sotterranea; i Gandharva, genî della musica e grandi seduttori d'ogni creatura femminile; le Apsaras, ninfe celesti d'incomparabile bellezza, abili nel far cadere in perdizione gli asceti; gli Yakṣas e i Vidyādhara, esperti di magia; e i Rākṣas malefici e astuti, posti dall'epopea nell'isola di Lanka e nemici di Rāma; e i Pis̄āca assetati di sangue; e i Preta, ombre vaganti escluse dal regno dei mani; e i Vetāla che hanno dimora nei cimiteri. Si sviluppano in pari tempo i miti degli eroi-profeti, ṛṣi, figure a fondo schiettamente religioso, intesi dapprima come i depositarî della scienza religiosa, poi come santi, che per virtù di ascetismo si sono elevati a sovrumano potere. Ma il primo posto nel pantheon è occupato dalle tre divinità Brahmā, Viṣṇu e Śiva. Brahmā è il creatore dell'universo: come tale assume in sé gli attributi di divinità analoghe che figurano nei Veda e nei Brāhmaṇa, e in pari tempo sembra la figurazione miticamente definita del brahman. Ma esso rimase sempre una divinità quasi astratta e in certo senso aristocratica, sebbene piena d'alto significato spirituale, mentre invece Viṣṇu e Śiva finiscono per primeggiare nel culto delle masse. Viṣṇu, che nel Ṛgveda è l'amico e il compagno di Indra, se ne assimila i caratteri, diventando gran distruttore di demoni, e via via accoglie in sé e fonde in una continuità mitica elementi di diversa origine: eroi e divinità popolari sono considerati come sue incarnazioni e assorbiti quindi nel viṣṇuismo. Rudra, divinità vedica del terrore, si confonde con Śiva "il benigno", in una figura complessa e per certi riguardi contraddittoria: a giudicare dagli epiteti con cui è chiamato in antichi testi esso sembra riassumere ogni forza distruttiva e terrificante, compreso il fuoco. Divinità locali hanno confluito nell'unico culto di Rudra-Śiva, dissolvendosi in un'unica formazione mitica: non così tuttavia, che non si possa in parecchi casi riconoscere l'antica individualità dei miti indipendenti. Śiva è la morte, ma è anche il vincitore della morte; incenerisce il dio dell'amore, ma è in pari tempo il dio della generazione poiché è venerato anche sotto forma di fallo. Con gli dei si appaiano le dee: Saṃjñā è moglie di Agni, Rohiṇī di Soma; Laksmī, datrice di bellezza e di felicità, è la moglie di Visnu; Sarasvatī, protettrice delle arti e delle scienze, è moglie di Brahmā; ma fra tutte emerge, per la molteplicità dei suoi aspetti e per l'ampia popolarità del suo culto, Durgā "la terribile", la moglie di Śiva. Essa, chiamata anche Pārvatī, Umā, Kālī, ora terribile e ora benigna, presenta lo stesso aspetto composito di Śiva, perché nella sua figurazione mitica confluirono, come avvenne per Śiva, divinità diverse per origine e per caratteri.
Contemporaneamente a tale trasformazione del pantheon indiano, si ha un cambiamento nel modo di considerare i rapporti fra l'uomo e il divino: la dedizione totale di sé, la completa subordinazione dell'individuo alla divinità adorata costituiscono ora il mezzo per giungere alla salvezza spirituale: si ha insomma ciò che si chiama bhaktimārga, "la via dell'amor di Dio", che insieme con gli altri due sopra descritti, karmamārga o "via delle opere", e jñānamārga o "via della conoscenza", costituisce i tre modi per giungere all'ultima meta. Ma sia anche qui osservato che l'una via non esclude storicamente l'altra: si tratta di tendenze e d'indirizzi in gran parte coesistenti, ché lo spirito indiano par fatto apposta per conciliare i contrarî, anche là dove la cosa pare impossibile allo schematismo logico della nostra mentalità occidentale. Così è avvenuto che le tre divinità supreme, che parrebbe avessero dovuto sopraffarsi ed escludersi a vicenda nel culto del popolo, furono invece conciliate in una triade. L'idea di raccogliere le divinità in gruppi di tre è antica nell'India: si rintraccia già nel Ṛgveda; nei Brāhmaṇa è espressa dicendo che in realtà esistono solo tre dei, Agni sulla terra, Vāyu nell'aria e Sūrya nel cielo: il che è una specie di distribuzione cosmografica delle forze naturali deificate. La triade Brahmā-Viṣṇu-Śiva è invece profondamente diversa, perché rappresenta tre aspetti dell'unità del divino: il brahman, l'assoluto, si manifesta in tre forme: Brahmā, creatore; Viṣṇu, conservatore; Śiva, distruttore. Tale concezione, se fu accettata in teoria, in pratica però non fu mai popolare, perché o l'una o l'altra delle tre persone, e più spesso Viṣṇu e Śiva, veniva identificata con l'essere supremo, riducendo le altre due, e soprattutto Brahmā, a una posizione subordinata. Da ciò derivava alla divinità messa a volta a volta al primo posto un aspetto ambiguo, che era in pari tempo di un dio personale e di un principio divino universale, come chi dicesse teismo e panteismo insieme mescolati. Cosa che a noi pare assurda, ma che gl'Indiani risolvevano ricorrendo, anche qui, alla teoria degli avatāra. Il termine significa letteralmente "discesa": in un certo senso "incarnazione"; ma meglio diremmo "forma" o "modo di manifestazione". Per salvare gli uomini o per annunziare il verbo di verità, il principio divino universale, brahman, si manifesta come un dio o come un eroe: sicché ogni singola divinità può con giusta ragione esser la prima su tutte le altre per i suoi adoratori, identificandosi, o quasi, con il divino assoluto: e con ciò si rispettava il sentimento religioso popolare riducendolo dentro la larga ortodossia brahmanica. E si conciliavano anche, non senza un savio accorgimento, i bisogni dei varî temperamenti individuali: chi non sapeva levarsi all'astrazione filosofica, poteva indisturbato continuare nel culto tradizionale suo e della sua gente; chi invece aveva ali per più alto volo, sapeva riconoscere l'assoluto del divino nella pluralità delle sue manifestazioni.
Riti. - Le pratiche rituali brahmaniche avevano importanza anche sociale, in quanto costituivano un legame e come un segno di riconoscimento delle caste ariane di fronte ai soggetti di razza diversa; esse accompagnavano gli atti principali della vita e davano loro una sanzione ufficiale di validità. Perciò tali riti (saṃskāra) si sono conservati tenacemente e taluni sono ancora oggi osservati. Essi comprendevano anzitutto le cerimonie che si praticano in occasione degli atti principali della vita dell'uomo, da prima della nascita a dopo la morte. Se ne contano comunemente dieci, di cui le prime tre precedono la nascita, le altre sono: il jātakarma, "rito della nascita", consistente in parecchi atti, tra cui quello di far assaggiare al neonato, da un cucchiaio d'oro, miele e burro chiarificato; l'imposizione del nome; la prima uscita del fanciullo a guardare il sole e la luna; il primo pasto di riso; la tonsura; l'investitura con il sacro cordone; il matrimonio. Importanza del tutto speciale aveva il rito dell'upanayana, "iniziazione" o "investitura": il giovinetto viene affidato a un maestro spirituale, guru, dal quale riceve il sacro cordone, fatto di materiale diverso a seconda della casta, e che veniva portato sopra la spalla sinistra e sotto il braccio destro: vi si accompagnava l'apprendimento della sāvitrī, la preghiera quotidiana da rivolgere al sole. Questa cerimonia era concepita come l'ingresso in una nuova vita, onde chi la subiva era detto dvija "nato due volte", e acquistava piena la sua personalità spirituale, alla quale per quell'atto allora solamente quasi nasceva. L'iniziazione era obbligatoria per gli uomini delle prime tre caste, e ne erano escluse le donne e i membri delle caste inferiori; essa aveva dunque l'importanza di un suggello distintivo dell'Ariano, e perciò il non compierla esponeva a una specie di scomunica maggiore e implicava una vera morte civile e religiosa: per essere assolti e riammessi nella comunità occorrevano speciali riti espiatorî. Il giovane subiva l'iniziazione a un'età variabile, secondo la casta, fra gli otto e i ventiquattro anni: più presto di ogni altro il brahmano, che più a lungo doveva restare presso il maestro a imparare le sacre scritture. Venivano quindi le cerimonie proprie del capo di famiglia, e prima tra esse quella che costituiva l'ingresso in tale condizione, cioè gli sponsali. Il matrimonio aveva un'importanza di primissimo ordine, e le credenze religiose contribuivano a elevarne il valore sociale: l'offerta agli spiriti degli antenati era considerata dovere supremo, e dall'assolverlo dipendeva la felicità dei morti nell'altra vita, sicché il procreare un figlio significava assicurare a sé la pace d'oltretomba. Il matrimonio avviene in presenza del fuoco, intorno al quale la coppia gira tre volte, mentre la sposa vi getta grani di riso e lo sposo ripete alcuni versi del Veda; quindi fanno insieme sette passi, e l'unione è consacrata. Il fuoco dev'esser conservato sempre acceso nella casa: se si spegne, occorrono riti espiatorî. Esso è in certo modo l'altare domestico, testimone di tutti i riti che il capo di famiglia deve compiere: offerta giornaliera agli dei e ai mani, recitazione giornaliera di testi sacri, obblighi da osservare verso i brahmani e gli ospiti. Ultimi di tutti i riti sono quelli che si connettono con la morte. I morti sono arsi: solo i fanciulli inferiori ai due anni e gli asceti possono essere sepolti. Il cadavere viene lavato, raso, unto e coronato di fiori, quindi portato al posto designato; la processione è condotta dal parente più prossimo. Questi gira da destra a sinistra intorno al rogo, sul quale viene messo il cadavere insieme con gli oggetti che furono le insegne del suo grado, il bastone per il brahmano, l'arco per il guerriero. Compiuta la cremazione, tutti gli assistenti prendono un bagno, cambiano di vesti e verso sera fanno ritorno a casa, senza mai volgersi indietro; segue quindi un periodo di dieci giorni di lutto e di purificazioni, dopo il quale hanno inizio le cerimonie della śrāddhā o offerta ai mani. Con ciò tuttavia non era esaurita la vita religiosa dell'Indiano, perché oltre ai riti fin qui descritti altri ne esistevano, per compiere i quali erano necessarî almeno tre fuochi, e che passavano per essere particolarmente sacri e solenni, ed erano detti śrauta-karmāni (da śruti "rivelazione"). Sennonché, mentre i primi avevano un vero carattere di obbligatorietà per tutti e costituivano come la sanzione religiosa di atti sociali, i secondi invece, sebbene in teoria ugualmente obbligatorî, non erano in pratica con uguale costanza osservati, sebbene in determinate circostanze divenissero effettivamente obbligatorî. Rientrano in tale categoria i sacrifici periodici, come quelli celebrati nel novilunio e nel plenilunio, al principio delle stagioni, ecc., e i somayāga, o riti in cui si beveva il soma, particolarmente fastosi e solenni, quali il rājasūya o consacrazione di m re, l'aśvamēdha o sacrificio del cavallo.
Parte delle cerimonie sopra descritte rientra in quello che è il ciclo compiuto della vita ideale di ogni Ariano dell'India, e che si designa col nome di dottrina dei quattro āśrama o stadî. Il primo di essi comincia dal momento in cui il fanciullo è affidato alle cure di un maestro per imparare il Veda. Il discepolato è un periodo di duro tirocinio, durante il quale il discepolo (brahmacārin) è quasi il servo del maestro: deve dormire sulla terra e alzarsi avanti giorno, raccogliere con le elemosine il cibo e procurare la legna per il fuoco sacro, testimoniare in ogni modo rispetto e obbedienza al maestro, il quale d'altra parte ha verso di lui il dovere di una giusta umanità e di una costante amorevolezza. Precetto assoluto è la castità, tanto che il nome di brahmacarya indica appunto in pari tempo castità e discepolato. Tale periodo si conclude con cerimonie speciali, tra cui un bagno, onde si dice snātaka colui che ha compiuto il discepolato. Tornato alla casa patema, egli è pronto per il matrimonio, col quale comincia lo stadio di grhastha o capo di casa, di cui si sono accennati sopra i compiti principali. Allorché la vecchiaia si fa innanzi e nella casa son già cresciuti i figli e i figli dei figli, si ritira a vita solitaria nelle selve, diventando vanaprastha (ὑλόβιος, come dice Megastene, cioè "vivente nelle foreste"), o solo o con la moglie, e fa vita di meditazione e di penitenza. Ultimo è lo stadio di monaco mendicante (bhikṣu, yati, saṃnyāsin, parivrājaka), che si apre cnn un sacrificio a Prajāpati e con la rinuncia totale a ogni avere, per vivere in assoluta povertà e per raggiungere la più piena libertà di spirito, in un anticipato distacco dalla vita e in meditativa preparazione alla morte. Questa teoria degli āśrama è, senza dubbio, uno schema di vita d'ideale purezza. Che in realtà sia stato seguito da alcuni, può ammettersi facilmente, e le belle leggende che narrano di re e di savî che così finirono santamente i loro giorni non sono da considerarsi in tutto fantasia; ma è altrettanto certo che la comune realtà fu quasi sempre diversa. La disposizione sistematica dei quattro stadî l'un dopo l'altro nell'ordine ora esposto non è costante nei testi, né pare che abbia avuto valore di norma: si poteva entrare in uno di essi senza avere necessariamente percorso o dover percorrere gli altri, mentre lo stadio più perfetto, come quello che imponeva il maggior numero di doveri e permetteva l'esercizio di ogni virtù, era da taluni autori considerato il secondo, quello di capo di famiglia (grhastha). Ragioni pratiche dovettero senza dubbio limitare al minimo il periodo del discepolato, specialmente per coloro che per ragioni di nascita non potevano darsi al sacerdozio o non volevano seguire altra forma di vita religiosa; e gli ultimi due stadî, ambedue ascetici, per quanto fosse in onore la santità della vita, dovettero ad ogni modo essere l'eccezione, ché l'India non fu certo un paese di änacoreti.
Caste. - Un passo del Mahābhārata (XIV, 35, 42 segg.) dice che i due ultimi āśrama (e possiamo aggiungere anche il primo) sono riservati alle tre caste superiori, mentre la condizione di padre di famiglia è estesa a tutte. Abbiamo qui uno dei lati tipici del sistema delle caste, destinato, almeno in principio, a separare l'elemento ariano dall'elemento anariano. Secondo la teoria indiana, che appare per la prima volta in un inno tardivo del Ṛgveda (X, 90) e in forma più sistematica in Manu e altrove, fin dalla creazione si sarebbero generate dalla bocca, dalle braccia, dalle cosce e dai piedi dell'essere primigenio quattro classi di uomini, cioè, rispettivamente, i sacerdoti, brāhmana; i guerrieri, kṣatriya; gli agricoltori e mercanti, vaiśya; e ultimi i šūdra, plebe ignobile destinata alla servitù. Il nome che significa "casta" è varṇa, letteralmente "colore". Ora, se si guarda a quanto i testi possono suggerire, si ricava anzitutto che gl'inni vedici più antichi non ci testimoniano, per il corrispondente periodo storico, nessuna struttura sociale basata sulla divisione in caste: solo si osserva un netto contrasto fra gl'immigrati ariani, di color chiaro, e la popolazione preesistente da essi soggiogata, popolazione diversa per credenze, per razza e per colore (varṇa). Di qui una prima differenziazione, che si estese in seguito all'intemo del gruppo ariano stesso, ma per altri modi e per altre ragioni. La tecnica del sacrificio e le pratiche del culto dovettero portare a una specializzazione delle funzioni sacerdotali in un dato gruppo di persone, e così forse anche l'occupazione della guerra e del governo e quella dell'agricoltura: del che si ha qualche cenno, sia pur tenue, già nel Rgveda, ove si parla di re, di sacerdoti e figli di sacerdoti, e del restante popolo. Nei Brāhmaṇa già si trovano le quattro caste, ma sempre con la precisa separazione dei due gruppi: l'uno di Ārya, comprendente le prime tre caste, l'altro, formato dai śūdra, comprendente i non-ariani. I testi posteriori sviluppano poi una complicata casistica, in cui si considerano tutte le possibilità di caste miste, nate da incroci fra quelle quattro: il che è in parte teoria e mania di sistema. Nell'atto pratico, la distinzione quadripartita non pare si sia conservata a lungo: più compatta e omogenea si mantenne la casta dei brahmani, mentre le altre abbastanza presto si risolsero, fuori d'ogni sistema, in un numero indefinito di caste (jāt, secondo la denominazione moderna), che solo per comodità di riferimento e di ampio raggruppamento si possono raccogliere sotto i nomi di quelle tre. Quali cause precise abbiano portato a siffatta costituzione sociale, non è facile dire. Può darsi che sulle prime i conquistatori ariani siano stati ispirati dal desiderio di mantenere il più possibile intatta la purezza della razza e di escludere le popolazioni soggette dai privilegi derivanti dalle proprie istituzioni; il che non escludeva i matrimonî misti, i quali tuttavia dovettero essere limitati alle impellenti necessità demografiche degl'invasori ariani. Tale ipotesi da sola non basta tuttavia a spiegare l'origine di tutte le caste, che è assai varia, alcune essendo antiche tribù, altre ghilde, ecc. Ma nemmeno l'ereditarietà di una data professione né l'unità etnica originaria valgono a spiegare il fatto in tutti i suoi aspetti, né costituiscono i caratteri distintivi della casta, la quale si fonda su detemminate prescrizioni riguardanti il matrimonio, il cibo, i rapporti con le altre caste e fra i gruppi interni che costituiscono ogni casta. Comunque, il sistema vige nell'India fino da tempi antichi. Del molto che si dovrebbe aggiungere questo almeno si noti: che il rigore in apparenza inflessibile del sistema è sovente corretto dalla realtà pratica.
Ordinamenti sociali e politici. - Come il sistema delle caste, così gli altri ordinamenti sociali e politici dell'India o si originarono o si consolidarono nel periodo del brahmanesimo, e dai brahmani ebbero sanzione di autorità in trattati numerosi (dharmaśāstra, arthaśāstra; v. dharma). Gli elementi costitutivi della vita politico-sociale dell'India, durati fino ai giorni nostri, sono la famiglia e il comune rurale. La prima ha per capo l'anziano, che ha sovranità su tutti gli altri membri, e la conserva finché vive, anche sui figli dopo che hanno raggiunto la maggiore età. La famiglia possiede in comune l'abitazione e le proprietà, e comuni sono del pari i pasti e i servizî divini. Il comune rurale è composto di un certo numero di famiglie (da 100 a 150), ed è governato da un capo o ereditario o nominato dal re, con diritto a esercitare la giustizia e a riscuotere le tasse, di cui trattiene una parte, trasmettendo il resto agli ufficiali di ciò incaricati. Il territorio di ogni villaggio è delimitato e distinto da quello dei villaggi vicini con linee di confine o con termini, e le liti per questioni di confini sono decise da appositi giudici e in ultima istanza dal re. Proprietà comune sono i terreni a pascolo; e la comunità è responsabile dell'abigeato ogni qualvolta le orme degli animali conducano nel suo territorio e non si possano più oltre seguire (vedi Jolly, Staatl. u. sociales Leben in Indien, in Das Licht des Ostens p. 197).
I comuni sono alla lor volta riuniti in gruppi di dieci, di venti, di cento e di mille, ogni gruppo sotto un capo. La forma dello stato era per lo più monarchica, ma si ebbero anche repubbliche (sangha) a forma oligarchica, ove predominava una tribù o un clan, che forniva per il governo un consiglio di maggiorenti, chiamati rājan. La monarchia è assoluta: il re sceglie i ministri e gl'impiegati, gli uni e gli altri in tutto dipendenti dal suo arbitrio. La guerra è condotta da lui o dai suoi generali, e fatta dalla casta dei guerrieri nobili, con esclusione delle altre classi della popolazione, la quale continua indisturbata la propria attività. Sacerdoti e nobili sono esenti da imposte, e anche l'applicazione della giustizia e la graduazione delle pene si fanno tanto più severe quanto più si scende nella gerarchia delle caste. Nel periodo più antico gl'Indiani sono divisi in un gran numero di tribù, spesso in guerra fra loro; e il frazionamento in piccoli principati permane come uno dei fenomeni più frequenti della storia dell'India; ma data la grandissima estensione del paese, il fatto era quasi inevitabile. È d'altra parte innegabile la tendenza alla creazione di grandi imperi che coincidano più o meno con i confini geografici della penisola, o che comprendano una vastissima parte di essa, sì da essere egemonici: il fatto si è verificato a parecchie riprese nella storia. Nella politica interna prevale la tendenza ad accentrare le fonti della ricchezza nelle mani del monarca, per nutrire il suo tesoro personale, che è anche il tesoro dello stato. Lo sfruttamento delle miniere e delle saline, la pesca delle perle e del corallo avvengono per conto del principe, e così pure talune industrie. Sono monopolio reale l'ammaestramento degli elefanti e le case da giuoco (cfr. Jolly, op. cit. p. 195). Le dogane sono fra i cespiti di entrata più ragguardevoli, e disposte con cura intelligente. Il servizio di polizia era organizzato su larga scala per uso del principe: agenti segreti sparsi per tutto il paese riferivano a uffici centrali, che vagliavano e coordinavano le infomrmazioni ricevute. Il monarca trovava tuttavia dei limiti al proprio potere assoluto, soprattutto nel sistema delle caste, delle quali era obbligato a rispettare le prerogative, e nell'autonomia amministrativa del comune rurale o villaggio, a cui sopra si è accennato.
Il complesso d'idee, di credenze, di riti e d'istituzioni ora delineato costituisce il brahmanesimo nel senso vero e compiuto della parola, e ha dato a tutta la vita indiana il suo aspetto caratteristico. Non mancarono movimenti di larga portata, come il buddhismo e, in minor grado, il giainismo, i quali vi si contrapposero con maggiore o minore successo; ma, nell'India, il brahmanesimo finì sempre col prevalere, per effetto della sua intima forza di assimilazione e di adeguamento.
Bibl.: A. Barth, Les religions de l'Inde, in Øuvres, I, Parigi 1914 (trad. inglese, 4ª ed., Londra 1906); E. W. Hopkins, The religions of India. New York 1895; A. Jacobi, Das Rāmāyana, Bonn 1893; id., Die Entwicklung der Gottesidee bei den Indern, Bonn 1923; P. Oltramare, L'histoire des idées théosophiques dans l'Inde, I, Parigi 1907; Dasgupta, A history of Indian philosophy, I, Cambridge 1922; A. A. Macdonell, Vedic Mythology, in Grundriss der Indoarischen Philol. Grundriss ecc., III, i B, Strasburgo 1915; A. Hillebrandt, Ritual-Litteratur, u. Altertumak., III, 1 A, Strasburgo 1897; E. W. Hopkins, Epic Mithology, in Grundriss, III, 2, Strasburgo 1897; Arthaśástra di Kauṭilya, 2ª ed., Mysore 1919; J. Jolly, Recht und Sitte, in Grundriss, II, 8, Strasburgo 1896; J. Jolly, Staatl. und soc. Leben in Indien, in Das Licht des Ostens, edito da M. Kern, Stoccarda s. a., pagine 191-215; The imperial Gazetteer of India, I, Londra 1907, pagg. 283-348; M. Winternitz, Zur Lehre von den Āïramas, in Beiträge z. Literaturwiss. und Geistesgeschichte Indiens, in onore di H. Jacobi, Bonn 1926, pagine 215-227.