ANDALÒ, Brancaleone
Appartenente a una famiglia nobile bolognese, discendente dall'antica consorteria dei Carbonesi, che intervenne sempre attivamente nelle lotte di fazione di Bologna e del suo contado, parteggiando per i ghibewni, e che, di padre in figlio, esercitò quasi per professione ereditaria il podestariato. L'A. figlio di un altro Brancaleone e nipote di Andalò, era conte di Casalecchio, e aveva un'età presumibile di circa trent'anni allorché nell'agosto del 1252 fu proposto dal Maggior Consiglio del Comune di Bologna per la carica di senatore di Roma, su richiesta di un'ambasceria dei Romani.
Il senso di questa chiamata, come osserva il Dupré, sta nella necessità del Comune romano di porsi a capo un "esperto" che dia ai Romani un'organizzazione di "popolo" analoga a quella dei Comuni dell'Italia centrale e settentrionale, al di sopra del gioco delle parti: le sue personali tendenze ghibelline e filoimperiali non influiscono - almeno in un primo tempo - sul suo comportamento verso i concreti problemi della città "capo del mondo", idealmente e ideologicamente preminente su ogni altra, ma tecnicamente e politicamente al di sotto di tante altre. Così pare da escludere un intervento di Corrado IV nella scelta e da respingere l'interpretazione della chiamata dell'A. come "protesta" verso il governo papale.L'A. pose come condizione ai Romani che la carica gli fosse assegnata per un triennio, e che gli fossero affidate come ostaggi alcune persone appartenenti alle famiglie nobili cittadine, che fece trasportare a Bologna, affinché si trovassero in mani sicure e sempre a sua disposizione.
Giunse a Roma nello stesso mese di agosto del 1252, portando con sé la moglie, che dai cronisti fu definita la "senatrice".
È interessante il fatto che anche i Pisani, devoti seguaci dell'Impero, nel dicembre 1254, mentre il trono imperiale era vacante, si rivolsero a lui per ottenere una sentenza arbitrale contro Genova, Lucca e San Miniato, che fu poi effettivamente emanata in loro favore nomine et vice almae urbis et populi Romani.In questa loro richiesta i Pisani non erano dimentichi del fatto che gli Andalò tenevano in feudo dall'arcivescovo e dal capitolo della cattedrale di Pisa alcune vaste proprietà terriere della zona di Gesso, a sud di Bologna, proprietà che, un secolo e mezzo avanti, la contessa Matilde aveva donato alla Chiesa di Pisa. Da quei possessi gli Andalò potevano efficientemente controllare i valichi dell'Appennino tosco-emiliano. La loro alleanza con Pisa è confermata anche dalla circostanza che altri membri della famiglia figurano tra i podestà pisani del sec. XIII.
Fin dagli inizi del 1253 l'A. intraprese una decisa azione repressiva nei confronti dei baroni; con gli ostaggi che aveva richiesto e poi condotto a Bologna, appartenenti alle maggiori famiglie della nobiltà romana, egli si era premunito da attacchi che questa classe, come quella naturalmente ostile ad ogni ordinamento comunale e "popolare", poteva portargli: e d'altra parte proprio questa classe l'A. si proponeva di combattere e tenere a freno.
Tra il gennaio e il marzo del 1253 rivolse un invito a Innocenzo IV, a nome dei Romani, affinché rientrasse a Roma, ricordandogli il suo particolare dovere, come capo della Chiesa, di risiedere nell'Urbe; poiché il papa non ascoltava questo richiamo e dimostrava la sua preferenza per Perugia, sede per lui più sicura, gli indirizzò un secondo invito, assai più deciso, accompagnato da un'aperta minaccia: premesso un nuovo appello agli obblighi del presule, lo avvertiva che, se non fosse ritornato presto, poteva darsi il caso che i Romani lo costringessero a non metter più piede in città. Sembra anzi che la minaccia arrivasse al punto di prevedere l'invio di un apposito esercito contro Perugia, o addirittura un assedio, qualora Innocenzo non si fosse mosso di lì. Si ripeteva un po' la situazione già verificatasi con Gregorio IX. Il papa lasciò Perugia e si trasferì ad Assisi alla fine di aprile e, dopo avervi celebrato la ricorrenza della festa di s. Francesco (4 ottobre), partì ed arrivò a Roma il 6 ott. 1253, accolto dal senatore e dalle rappresentanze del popolo.
Non si è in grado di dire fino a che punto le fonti cronistiche ci abbiano tramandato fedelmente i fatti. In ogni modo non si può argomentare da queste notizie che il senatore avesse assunto un vero atteggiamento antipapale; sembra piuttosto che gli premesse di contemperare le esigenze del pontefice con quelle della organizzazione popolare e defia tradizione imperiale cittadina. Gli studiosi hanno osservato che proprio in quel periodo erano andati a monte gli accordi relativi alla corona dei Regno di Sicilia intrecciati dalla curia con la corte inglese e con Carlo d'Angiò. P, possibile che Innocenzo IV, rientrando a Roma, si proponesse di evitare il pericolo di trattative dirette tra la città e Corrado IV. D'altronde, la presenza a Roma dei papa costituiva per il momento almeno, oltre al perpetuarsi di una "dignitas" cui i Romani difficilmente avrebbero rinunziato, anche una sorta di elemento di forza per il rinascente Comune.
Le operazioni militari guidate dal senatore contro alcune roccaforti del contado suscitarono egualmente le apprensioni di Innocenzo IV, ma non portarono a una rottura tra i due. È del maggio 1253 una spedizione contro Terracina, che probabilmente mirava a garantire il dominio dei Romani sul suo porto. La cittadina era stata vanamente invitata a riconoscere la sovranità di Roma, e si era rivolta al papa per aiuti. Questi, mentre ancora si trovava ad Assisi, aveva cercato di impedirne la conquista e di frenare l'azione dell'A., facendogli presente che "lo stesso Vicario di Cristo ne sarebbe stato offeso nei suoi diritti". Nel giugno il papa si era rivolto ai baroni della Marittima, affinché soccorressero Terracina. Nel frattempo la spedizione armata fu interrotta. Pure senza esito durevole restarono le intimazioni e le spedizioni dell'A. contro Viterbo e contro Tivoli nei primi mesi del 1254; nell'aprile Tivoli che si era appellata a Corrado IV per aiuti venne assediata, ma presto l'assedio fu tolto, forse per mediazione del papa.
La campagna contro Terracina poté forse essere promossa anche dall'intento di colpire gli Annibaldi e i Frangipane che interferivano nella zona ostacolando la penetrazione del Comune. Nel 1255 il senatore proseguì la lotta contro i baroni anche nell'Urbe, instaurando un regime molto severo. Con grande frequenza mandò al patibolo membri delle famiglie più importanti o inflisse loro drastiche condanne. Aveva assunto allora accanto al titolo di senatore quello di "capitanus Romani populi": era, a quanto sembra, quello stesso capitanato del popolo che anche nelle altre città italiane aveva proprio in quel tempo la sua maggiore diffusione. Si ebbe inoltre la comparsa nei Consigli cittadini dei rappresentanti delle Arti; accanto al senatore figuravano nel governo tredici "boni homines", esponenti delle regioni romane.
Le severe misure d'ordine pubblico adottate portarono presto a un malcontento non soltanto della nobiltà, ma anche di tutti gli altri ceti. Il 9 maggio 1255 il parlamento generale in Campidoglio doveva approvare le misure da prendere contro Oddone Colonna "ribelle dell'Urbe". Ne sorse un acceso tumulto di piazza, con forte lancio di sassi sui convenuti. Sappiamo che l'A. riuscì a reprimerlo e a ottenere una balia speciale per altre misure d'ordine pubblico relative alla città e al distretto, ma l'episodio è ugualmente sintomatico. Ora una diversa situazione s'era creata a Roma per l'elezione del nuovo pontefice Alessandro IV succeduto a Innocenzo IV che aveva sempre mantenuto discreti rapporti di collaborazione col senatore. Alessandro IV osteggiò risolutamente l'Andalò. là possibile anzi che il nuovo pontefice contribuisse a sobillare l'aristocrazia baronale; fatto si è che nel novembre 1255 l'A., la cui rielezione nell'agosto di quello stesso anno non par dubbia, fu assediato in Campidoglio, deposto, imprigionato, e poi trasferito nel castello di Passerano.
Si rivelò allora quanto opportuna fosse stata la precauzione iniziale dell'A. di tenere a Bologna gli ostaggi; forse solo per questa sua previdenza potè aver salva la vita. Le famiglie degli ostaggi ottennero da Alessandro IV che Bologna fosse sottoposta a interdetto; da parte loro i Bolognesi inviarono ambascerie al papa per sollecitare la liberazione dell'Andalò. La prigionia di questo si protrasse per quattro o cinque mesi; intorno all'aprile 1256, probabilmente, fu liberato a condizione che ripartisse immediatamente per Bologna. Durante il ritorno a Bologna (in un'epoca che cade tra il luglio e il settembre 1256) fu costretto dai Fiorentini a firmare una dichiarazione di perpetua rinuncia al senatorato. Ma così non doveva essere.
Chiamato a Roma come senatore Manuele Maggi di Brescia, questi ad un certo momento era stato accusato di prestare man forte ai nobili contro il popolo. Nell'aprile 1256 (proprio quando l'A. veniva liberato) i nobili, capeggiati ancora una volta dagli Annibaldi, erano stati sconfitti per le vie della città. Nel maggio 1257, in un nuovo tumulto, il Maggi fu deposto ed ucciso. Il richiamo dell'A. fu deciso probabilmente nell'immediato domani della deposizione del Maggi, in seguito ad un rivolgimento popolare in cui, peraltro, potrebbe non essere impossibile vedere una preparazione dell'opinione pubblica romana ad accogliere in futuro per senatore un principe inglese, Riccardo di Cornovaglia, se è vera la notizia fornita da Matteo Parisiense della partecipazione attiva e determinante di un inglese, - ma naturalizzato e "maestro dei fornai" - Matteo di Bealvero. Non sappiamo se Brancaleone fosse a Bologna o fosse a Roma prigioniero in seguito ad un suo ritorno all'Urbe, per altro non documentabile. Certo è che iI trionfo del popolo significò il trionfo dell'A., che poté ritornare a governare Roma senza le remore di una politica cauta verso il papa e verso i nobili, che era stata caratteristica del suo primo senatorato. Due degli Annibaldi furono impiccati: e poiché, si trattava di parenti del cardinale Riccardo, questi ricorse al papa per far scomunicare l'A., che oppose alla scomunica un'assoluta noncuranza. Oltre cento torri nobiliari furono distrutte.
Ma l'orientamento ghibellino dell'A. si rivelò più deciso nella politica estera. Egli. intrecciò rapporti diplomatici con Alfonso X di Castiglia e con Manfredi, senza peraltro giungere ad una efficiente alleanza a tre per gli interessi contrastanti dello, svevo e dello spagnolo. Del 1258 risulta. una sua campagna contro Anagni e la sua nomina a capitano del popolo di Terni. Proprio nel corso delle trattative con Manfredi, che, nell'estate del 1258 :stava approntando le truppe contro Firenze, e durante lo svolgimento di una :spedizionecontro Cometo destinata ad assicurare a. Roma una ricca riserva granaria, l'A. si ammalò improvvisamente e, trasportato a Roma, vi morì quasi subito. Difficile dire se avesse agito il veleno dei numerosì, potenti nemici o l'aria malsana della Maremma.
Un riconoscimento ufficiale del prestigio che aveva conseguito lo si ha nella comparsa dei suo nome sul "grosso romanino", fenomeno eccezionale nella monetazione romana del secolo XIII. I Romani tributarono straordinari onori alla sua memoria, conservandone il capo entro un reliquiario, che venne tenuto in Campidoglio sopra una colonna marmorea.
Fonti e Bibl.: La fonte più importante e, in certi casi, unica è la cronaca di Matteo Parisiense, monaco di St. Albans: Chronica Maiora, a cura di H. R. Luard, London 1867-1880, in Rerum Britannicarum Medii aevi Scriptores;la più recente e più profonda trattazione del periodo dell'A. si ha in E. Dupré Theseider, Roma dal comune di popolo alla signoria Pontificia, Bologna 1952, pp. 10-57 e passim;ma da vedere anche F. Bartoloni, Per la Storia del Senato romano nei sec. XII e XIII, in Bullett. d. Ist. Stor. Ital. per il M. E., LX (1946), pp. 100 s., n. 2 e n. 1; bibliografia e profilo storico delle istituzioni politiche in G. Giuliani, Il Comune di Roma sotto il Senatorato di B. degli A.,Firenze 1957. Sulle vicende familiari degli Andalò e sui loro rapporti con le altre consorterie bolognesi si veda E. Dupré Theseider, Due note su Branc. d. Andalò,in Atti e mem. d. Dep. di st. Patr. Per le prov. di Rom.,n. s., VI (1954-55), pp. 25-39. Il Dupré ha dimostrato che la moglie di Branc. non era affatto una Savioli, come si era sempre creduto sulla base di un documento interpolato dal Savioli autore degli Annali Bolognesi (1789) al fine di accrescere il prestigio del proprio casato. Ancora suBrancaleone ed i suoi più stretti congiunti,cfr. E. Cristiani, Una vicenda dell'eredità matildina nel contado bolognese: il feudo dei nobili Andalò sulla pieve di S. Maria di Gesso,in Archivio storico italiano CXVI,1958, pp. 293-321.