Vedi Brasile dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La grandezza è la caratteristica che contraddistingue da sempre il Brasile: di territorio, di popolazione, di risorse naturali e, soprattutto, di ambizioni e contraddizioni. Dopo la crescita decennale che ha rilanciato il paese – facendone la prima economia dell’America Latina e la settima al mondo – e gli ammirevoli piani di sviluppo che hanno salvato dalla povertà quaranta milioni di persone, riaffiorano da qualche tempo in modo più evidente le molteplici criticità strutturali del sistema brasiliano. Il paese soffre ancora di un ampio gap nella distribuzione della ricchezza, di preoccupanti livelli di corruzione nel tessuto politico, di gravi problemi di sicurezza e di ordine pubblico, nonché di una cronica mancanza di infrastrutture e un welfare ancora troppo debole. L’entusiasmo degli anni del miracolo brasiliano è stato sostituito da un diffuso malcontento sociale, covato soprattutto dalla nuova classe media accresciuta e più consapevole che, oltre a sviluppo e progresso, reclama più diritti, uguaglianza e riforme in grado di migliorare la qualità della vita e si indigna pubblicamente per il malaffare e il degrado delle istituzioni pubbliche. Il Brasile di oggi è quindi un paese in transizione che si confronta con i repentini cambiamenti in atto: nella società, che cerca di convergere verso un modello di sviluppo di tipo occidentale pur dovendosi scontrare con realtà di degrado ancora troppo diffuse; nell’economia, che in seguito al boom ha modificato ritmi di produzione e abitudini di consumo; nella politica, soprattutto quella internazionale, che costringe ad adempiere a sempre più onerosi doveri di immagine e di credibilità, soprattutto quando i grandi eventi sportivi pongono il paese sotto i riflettori del mondo.
Il Brasile rappresenta d’altronde la potenza economica dell’America Latina e da tempo cerca di affermarsi quale attore di caratura mondiale e di farsi portavoce delle istanze dei paesi in via di sviluppo presso le più importanti arene internazionali. Sebbene già durante le due amministrazioni di Fernando Henrique Cardoso (1995-2002) vi fosse stato un deciso sostegno alla partecipazione ai più rilevanti meccanismi di cooperazione internazionale, la presidenza di Luiz Inácio Lula da Silva (2003-10) ha segnato un maggiore attivismo della politica estera brasiliana. Inoltre, il dinamismo brasiliano è andato di pari passo con la costruzione e il rafforzamento di rapporti commerciali solidi e diversificati con le diverse regioni geografiche del mondo. Nel quadro di questa strategia, il Brasile si è impegnato a rafforzare la cooperazione con le altre ‘potenze emergenti’, come l’India, il Sudafrica e, in parte, la Cina. Tale sforzo è stato compiuto tanto all’interno delle organizzazioni internazionali esistenti – come le Nazioni Unite o l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) – quanto attraverso il lancio di iniziative diplomatiche come il Foro di dialogo India – Brasile – Sudafrica (Ibsa). Affermando la necessità di rivedere radicalmente l’assetto della governance internazionale, il Brasile ha cercato di ottenere un ruolo di maggior rilievo in alcune organizzazioni internazionali e nel panorama politico mondiale in generale. Per questo ha per lungo tempo sostenuto la candidatura di un suo rappresentante come direttore generale del Wto – raggiungendo finalmente l’obiettivo nel settembre 2013 con l’elezione del brasiliano Roberto Azevêdo – e conduce tuttora una battaglia per ottenere lo status di membro permanente nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Nell’ambito dello scandalo ‘Datagate’ del 2013, che ha incrinato i rapporti tra gli Stati Uniti e i suoi alleati, il Brasile, assieme alla Germania, ha presentato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite una bozza di risoluzione per una maggiore protezione del diritto alla privacy. Un ulteriore obiettivo strategico è il rafforzamento della cooperazione con i paesi sudamericani. Nonostante le deludenti performance sudamericane in materia d’integrazione regionale, il sostegno brasiliano ai meccanismi di integrazione regionale e sub-regionale – dall’Unione delle nazioni sudamericane al Mercosur – rivela l’intento di porsi alla guida della cooperazione nel continente.
Il Brasile è una repubblica federale con tre livelli di governo: l’unione, gli stati e i municipi. Una delle caratteristiche che il paese condivide con i suoi vicini latinoamericani è la forma di governo presidenziale, che accentra nella figura del presidente la carica di capo del governo e di capo dello stato. Il presidente è eletto direttamente, per un mandato quadriennale, con un sistema a doppio turno. Negli altri due livelli di governo, i principali incarichi esecutivi sono quelli di governatore e sindaco. Il modello presidenzialista adottato per la federazione è replicato anche a livello statale e municipale.
Il Congresso nazionale, che detiene il potere legislativo, è composto dalla Camera dei deputati e dal Senato federale. La Camera, rappresentativa dei cittadini, è composta da 513 membri eletti con sistema proporzionale e con mandato quadriennale. Gli 81 membri del Senato rappresentano invece gli stati e sono eletti con il sistema maggioritario. Il mandato di senatore dura otto anni, ma le elezioni si tengono ogni quattro anni per assegnare, alternativamente, un terzo e due terzi dei seggi. A livello statale e municipale, il potere legislativo è prerogativa di un’unica camera, che rappresenta i cittadini. Anche il sistema giudiziario rispecchia l’architettura istituzionale dello stato e affianca ai tribunali federali (Tribunale supremo federale e Tribunale superiore di giustizia) corti statali e municipali. In Brasile vige un sistema multipartitico caratterizzato dalla presenza di due formazioni politiche principali, il Partido dos Trabalhadores (Pt) e il Partido da Social Democrazia Brasileira (Psdb).
Dal 1° gennaio 2011, Dilma Rousseff, esponente del Pt ed ex braccio destro di Lula, è la prima donna nella storia del Brasile a ricoprire l’incarico più alto del paese. Dopo il successo del 2010, Dilma ha ottenuto una nuova vittoria alle elezioni dell’ottobre 2014 che le hanno conferito il rinnovo del mandato. Nonostante il netto calo di consenso popolare durante la fase preparatoria dei Mondiali dello stesso anno e la mancata ondata di ottimismo che una squadra nazionale forte e vincente avrebbe potuto conferire all’elettorato, la candidata del Pt è riuscita ad affermarsi vincitrice al secondo turno elettorale contro Aécio Neves, senatore del Psdb.
I punti principali della campagna elettorale della Rousseff sono stati il successo nell’organizzazione dei Mondiali e la conferma dei programmi di sussidio statale, cavallo di battaglia del suo governo e di quello di Lula. In occasione della festa dei lavoratori del primo maggio 2014, la presidenta aveva annunciato un aumento del 10% nelle prestazioni del programma Bolsa Familia.
Il Brasile è il quinto paese più grande al mondo, con una superficie totale di 8.459.420 km2 e una popolazione di più di 200 milioni di abitanti. Copre infatti metà del territorio sudamericano e rappresenta più di un terzo della popolazione dell’America Latina, che ammonta a 589 milioni di abitanti. La popolazione brasiliana non è variata di molto nel corso degli anni del boom economico, dato che il tasso di incremento demografico tra il 2005 e il 2010 si è mantenuto sullo 0,9%, al di sotto dunque della media latinoamericana (1,15%).
Il rallentamento demografico è legato soprattutto al rapido declino del tasso di fecondità cui si è assistito dal 1960, responsabile del generale invecchiamento della popolazione e della veloce transizione demografica in atto. La struttura demografica, che, per il gran numero di giovani, al momento volge a favore del mercato del lavoro, inizierà a mutare intorno al 2025, quando la forza lavoro si contrarrà e gli anziani comporranno una parte crescente della popolazione. Grazie a un sistema pensionistico ben remunerato, tra l’altro, molti anziani sono usciti dalla povertà. Al tempo stesso però sono stati limitati i finanziamenti destinati al miglioramento dell’istruzione, provocando un impoverimento del capitale umano di cui l’apparato economico del paese risente alquanto. Il deficit si riflette soprattutto nei servizi, in particolare quelli ospedalieri: per ovviare alla mancanza di personale qualificato, la Rousseff ha favorito l’immigrazione di medici dall’estero.
Il Brasile è il paese con il più alto numero di cattolici al mondo ma, negli ultimi anni, si è registrata una progressiva diminuzione dei fedeli legati alla Chiesa di Roma e una crescita dei gruppi protestanti.
Il Brasile è tradizionalmente un ricettore netto di migranti (che arrivano soprattutto nelle aree sudorientali del paese) e tale caratteristica ha influenzato fortemente la composizione etnica della popolazione brasiliana. Il principale gruppo è costituito dai Lusobrasiliani, discendenti dei coloni portoghesi. Vi sono poi rilevanti gruppi d’origine italiana, spagnola, tedesca e russa. Il commercio degli schiavi, in vigore fino alla fine del Diciannovesimo secolo, ha lasciato in eredità una cospicua popolazione d’origine africana, concentrata principalmente nello stato di Bahia e pari a circa il 7% della popolazione. Vi sono altre minoranze etniche: le più numerose sono quelle d’origine libanese e giapponese. Gli immigrati più recenti, invece, provengono principalmente da Argentina, Cile e paesi andini. Molti sono cittadini brasiliani emigrati durante la recessione degli anni Ottanta. La speranza di vita, che tra il 2000 e il 2005 era di 67,3 anni per gli uomini e di 74,9 anni per le donne, è prevista in crescita a 74 e 81 anni rispettivamente nel quinquennio 2030-35.
In sintonia con il convulso ambiente sociale e politico che regnava in America Latina, nel 1964 un colpo di stato mise fine in Brasile alla cosiddetta Repubblica popolare e portò al potere Humberto de Alencar Castelo Branco. Cominciarono così più di vent’anni di governi dittatoriali. A differenza di alcuni vicini sudamericani, come Argentina e Cile – tristemente noti per l’efferatezza dei regimi – la dittatura brasiliana ha consentito il mantenimento di facciata di alcune istituzioni democratiche, come il Parlamento. La tortura degli oppositori politici è stata però una realtà, così come la soppressione delle libertà individuali e dei diritti politici: gli oppositori politici non potevano né votare né candidarsi alle elezioni. Verso la fine degli anni Settanta, con Ernesto Geisel a capo del governo militare, cominciò un processo di transizione che portò, nel 1985, alla presidenza di José Sarney. Dopo più di vent’anni dall’inizio della transizione, con un’importante riforma costituzionale nel 1988 e considerevoli riforme economiche e istituzionali a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, le istituzioni democratiche brasiliane sembrano essersi consolidate. Tra i limiti di tale processo spiccano però l’alto tasso di corruzione politica (secondo l’Indice di corruzione percepita 2013 di Transparency International, il Brasile copre la 72° posizione mondiale su 176 paesi, con un punteggio di 42 punti), male endemico dell’intera regione latinoamericana che si ripercuote fortemente sulla gestione dei servizi pubblici e sull’accesso alla giustizia. Pesa poi l’infiltrazione di gruppi criminali all’interno delle forze di sicurezza. Un tema di notevole rilevanza, legato alla povertà e all’esclusione sociale, riguarda la violenza e la criminalità. Negli ultimi 30 anni si è verificato un aumento del numero di morti violente del 375%, soprattutto tra i giovani in età compresa tra i 15 e i 29 anni. Secondo un rapporto dell'UNODC (United Nations Office on Drugs and Crime) solo nel 2012 si sono contati 50.108 omicidi. Il narcotraffico gioca un ruolo consistente anche a livello locale. A Rio de Janeiro, su sei milioni di abitanti, due vivono nelle favelas, controllate in gran parte da narcotrafficanti organizzati e da gruppi paramilitari. Nel 2008 il governo brasiliano ha dato il via a una vasta operazione per riprenderne il controllo: ha utilizzato le truppe di élite, denominate Batalhão de Operações Policiais Especiais (Bope), e le Unità di polizia pacificatrici. Lo sforzo è stato intensificato di recente, in funzione degli eventi sportivi internazionali. Altrettanto grave è la situazione nelle aree rurali del paese. Si registrano ancora violenze contro i braccianti da parte di aziende private e di milizie illegali. Anche le popolazioni indigene, che lottano per il diritto alla terra, sono vittime di importanti violazioni dei diritti, aggravate dalla lentezza e dall’inefficienza del sistema giudiziario.
Oggi il pil brasiliano non è soltanto il più elevato dell’intera America Latina, ma rappresenta quasi la metà dell’intero pil degli stati sudamericani e, insieme agli altri paesi membri del gruppo Brics, contribuisce a comporre quasi un quarto del valore dell’economia mondiale. Questi dati dimostrano i progressi raggiunti dal Brasile dal punto di vista produttivo e giustificano le sue grandi ambizioni politiche. La rapida espansione economica e la relativa solidità dimostrata nel corso della recente crisi finanziaria internazionale hanno però subito un brusco rallentamento nell’ultimo triennio. Il passaggio da un tasso di crescita medio mantenutosi attorno al 4% circa, tra il 2005 e il 2010, a un valore prossimo allo 0% nel 2014, ha turbato gli osservatori e allontanato molti investitori internazionali. Lo rivela il generale peggioramento di diversi business index: sia nell’indice di competitività (56° posizione) sia nell’indice di innovazione (61° posizione) globali il Brasile ha perso dal 2011 diversi punti e ha consegnato il primato in America Latina al Cile. Il calo di performance è attribuibile, oltre che al clima di sfiducia nei confronti dell’attuale governo, anche a un più arduo accesso ai finanziamenti, all’alta inflazione e a un’economia che si mostra ancora abbastanza chiusa alla concorrenza estera. Un ulteriore ostacolo proviene poi dai costi di produzione: troppo alti rispetto al resto del continente sudamericano e rispetto a moltissime altre economie in via di sviluppo. Il motivo non è tanto legato al costo del lavoro, quanto alle tasse sulle imprese (le più alte dell’America Latina), a gravissime carenze infrastrutturali che rendono i trasporti costosi e lenti, e a una burocrazia bizantina e inefficiente.
Nonostante la difficile congiuntura economica (aggravata dalla crisi nella domanda di beni proveniente dall’Europa), il Brasile può contare su numerosi punti di forza: un mercato di grandi dimensioni, bassi livelli di disoccupazione (5,6%) e settori di attività ad alto valore aggiunto ben avviati. Ciò lascia prevedere un periodo di espansione ancora lungo. I successi economici riscossi dal Brasile nell’ultimo decennio sono merito di oculate scelte di politica economica che si sono protratte, seguendo lo stesso orientamento, per ben tre amministrazioni consecutive, quelle di Cardoso, Lula e Rousseff. Sin dall’inizio del suo mandato, Dilma Rousseff ha ripreso i principi di stabilità finanziaria inaugurati dal suo predecessore e ha consolidato un modello di sviluppo capace di combinare rigore e rispetto delle regole di mercato con politiche di contrasto alla povertà.
Il Brasile, famoso per la rilevanza del suo settore estrattivo, è diventato anche un importante fornitore mondiale di commodities e di generi alimentari. Il settore agricolo rappresenta il 5,6% del pil, occupa il 17% della forza lavoro e contribuisce per il 55,4% alle esportazioni totali di tutti i beni. Il paese è ai primi posti del mondo nella produzione ed esportazione di etanolo, soia, zucchero, caffè, tabacco, mais, riso e cacao. A differenza di molti paesi sudamericani, che concentrano un’importante porzione del proprio commercio su pochi prodotti, il Brasile presenta una struttura di esportazione molto diversificata.
A partire dalla presidenza di Getúlio Dornelles Vargas, nel 1930, il paese ha sviluppato l’industria, in cui oggi è occupato il 22% della popolazione e che contribuisce per oltre il 25% al pil nazionale. In un ambiente economico mondiale sempre più concorrenziale, il Brasile è riuscito a diventare un attore importante in alcuni settori, in particolare nella produzione di carta e cellulosa, nella siderurgia, nell’industria mineraria, nell’aeronautica, negli idrocarburi e nella petrolchimica. Dal punto di vista dei partner commerciali, l’Asia è recentemente assurta al ruolo di regione più importante per il commercio brasiliano. Vi è diretto quasi un quarto delle esportazioni totali e da essa provengono quote consistenti delle importazioni. Se invece si considerano i singoli paesi, i principali partner commerciali sono la Cina, gli Stati Uniti e l’Argentina.
Oltre ad essere un importante investitore all’estero, principalmente per le operazioni di alcune sue aziende leader, il Brasile è il paese latinoamericano che riceve più investimenti diretti esteri (ide). Tale sviluppo si inserisce in un quadro più ampio, che negli ultimi anni ha visto consolidarsi la tendenza a una maggiore partecipazione delle aziende multinazionali di origine sudamericana in altri paesi della regione. Tra le prime 25 multinazionali create in America Latina ben dieci sono d’origine brasiliana, tra le quali Grupo Jbs (alimentari), la Vale, nota fino al 2007 come Companhia Vale do Rio Doce (Cvrd) (settore minerario), e Petrobrás (petrolio). Il Grupo Jbs, che primeggia tra le multilatinas brasiliane, è presente in 11 paesi e nel 2009 ha registrato un fatturato di 20.547,8 milioni di dollari.
Il Brasile è un paese storicamente caratterizzato da grandi diseguaglianze economiche e sociali. Tra i principali problemi spiccano gli elevati livelli di povertà e di iniquità sociale, determinati in primo luogo dalle notevoli diseguaglianze nella distribuzione del reddito e della proprietà terriera. Tali diseguaglianze vengono ulteriormente aggravate da un profondo divario tra le regioni del nord, mediamente più povere, e quelle ricche e industrializzate del sud. Malgrado questo primato, nell’ultimo decennio si sono registrati importanti sviluppi: mentre nel 2001 il 10% più povero del paese deteneva lo 0,6% del reddito nazionale e il 10% più ricco ne deteneva il 46,8%, nel 2009 le percentuali sono passate rispettivamente allo 0,8% e al 41%. Inoltre, oltre 28 milioni di persone sono uscite dalla soglia di povertà e compongono oggi la classe C, il ceto medio, che include tutte le persone che guadagnano tra i 1.120 Real e i 4810 Real (all’incirca tra i 360 e i 1500 euro) al mese e che ha raggiunto il 54% della popolazione nel 2013. I risultati si devono alla sostenuta crescita economica e all’impegno profuso sia dal governo Cardoso, con l’istituzione del Sistema unico di salute (Sus), sia da Lula. Durante le sue due legislature il presidente Lula ha attuato importanti politiche di contrasto alla povertà e, in particolare, il ‘Programa Bolsa Família’, il sistema di trasferimento della ricchezza più grande del mondo che costa allo stato appena lo 0,5% del pil. Giunto nel 2013 al suo decimo anno di esistenza, il programma, attualmente integrato nel programma ombrello Brasil Sem Miseria (Brasile senza povertà), eroga sussidi a 13,8 milioni di famiglie a condizione che garantiscano la regolare scolarità dei figli e il rispetto delle procedure mediche di base, come le vaccinazioni.
Nel corso del suo mandato, Dilma Rousseff ha introdotto un altro programma di welfare, del tutto nuovo, chiamato ‘Bolsa Verde’, che persegue l’obiettivo di favorire la salvaguardia dell’ambiente attraverso l’erogazione di finanziamenti ai poveri che abitano in aree protette del paese e si dedicano alla protezione e alla difesa delle terre. I programmi di aiuto condizionato avviati in questi anni hanno permesso al gigante del Sud America di spostarsi nella classifica mondiale dell’Indice di Sviluppo Umano stilata dall’Undp, aumentando nel suo valore del 36,4% tra il 1980 e il 2013.
La riforma del sistema sanitario brasiliano, avviata a seguito del varo della Costituzione del 1988 (che ha riconosciuto per la prima volta la salute come diritto sociale universale), ha istituito un sistema concorrente tra federazione, stati e municipalità. Nonostante lo stato provveda direttamente alla copertura sanitaria del 75% circa della popolazione, il sistema della sanità è molto orientato verso il privato (che gode anche di incentivi fiscali), e poco incline a investire nel pubblico. Ciò comporta la fuga dei medici verso cliniche e ospedali privati, presso cui possono contare su maggiori guadagni. L’insoddisfazione popolare per le prestazioni sanitarie offerte dallo stato, manifestata nel corso delle proteste di giugno 2013, ha spinto la Rousseff ad annunciare un piano per attrarre ben 6 milioni di specialisti dall’estero. La qualità delle università brasiliane è molto al di sotto del livello necessario a un paese che punta a diventare una potenza internazionale.
Il presente e il futuro del Brasile ruotano attorno alla prospettiva di diventare – oltre che un gigante economico – anche un gigante energetico. Tanto la produzione quanto i consumi interni di energia sono fortemente diversificati, e la dipendenza energetica dall’estero è andata riducendosi nel corso degli anni, arrivando a costituire soltanto l’8% dei consumi totali. Ciò è accaduto benché, dalla metà degli anni Novanta, i consumi energetici siano cresciuti in misura costante, e oggi il Brasile sia il settimo consumatore di energia nel mondo (di gran lunga il primo in America Latina). Il governo brasiliano punta a raggiungere l’autosufficienza ma, dati i consumi, è assai improbabile che ciò accada. Nonostante il Brasile sia già tra i primi 15 paesi al mondo per produzione di petrolio, non dispone ancora di un numero sufficiente di impianti di raffinazione. Lo sviluppo di nuovi impianti diventa ancora più impellente se si considerano le importanti scoperte di riserve di petrolio e gas naturale degli ultimi anni, soprattutto al largo delle coste. L’estrazione da queste riserve non servirebbe solo a colmare il fabbisogno interno di idrocarburi, ma potrebbe trasformare il Brasile in un esportatore netto di petrolio. Per quanto riguarda il gas naturale, il Brasile produce circa metà di quanto consuma, ed è costretto a importare quasi tutto il resto dalla Bolivia.
Oltre all’importanza delle riserve di idrocarburi, il Brasile si contraddistingue per un ruolo di spicco nell’utilizzo delle energie rinnovabili. Il paese è il secondo produttore mondiale di energia idroelettrica dopo la Cina. Grazie a questo primato, che deriva dalla grande centrale di Itaipú (cogestita con il Paraguay), dalla combustione del legname della foresta amazzonica e dallo sviluppo dei biocarburanti, i consumi energetici brasiliani sono composti per oltre il 45% da energie rinnovabili. Tra queste, particolare importanza riveste la produzione del bioetanolo.
Il Brasile è un’importante riserva per il patrimonio della biodiversità mondiale: si stima che sia il paese con la più grande diversità biologica al mondo, in cui è presente il 13% delle specie riconosciute, nonostante solo il 10% sia stato catalogato. Nel territorio nazionale si trova la foresta amazzonica, che occupa una superficie di 3,3 milioni di km2, ovvero il 40% del territorio brasiliano (anche se l’intera zona amazzonica, denominata ‘Amazzonia legale’, ricopre circa 5 milioni di km2). Questo fattore rende i temi come la deforestazione, lo sfruttamento di alcuni tipi di piantagioni, gli allevamenti intensivi, l’inquinamento dell’acqua o della terra e l’inurbamento seguiti con estrema attenzione non solo all’interno dei confini nazionali, ma anche da parte della comunità internazionale. Nel 2012, grande scalpore ha provocato la promulgazione del nuovo codice forestale, che prevedeva un allentamento dei controlli sulla quantità di territorio che gli agricoltori devono preservare come foresta; sulla promulgazione di taluni provvedimenti Dilma Rousseff ha tuttavia deciso di porre il suo veto.
Se durante gli anni Novanta la maggioranza dei paesi latinoamericani aveva ridotto considerevolmente la propria spesa militare, negli ultimi anni si è assistito a un suo progressivo aumento, con una crescita di oltre il 90% in soli cinque anni (dal 2003 al 2008) principalmente in Colombia, Messico, Venezuela e Brasile. Gran parte di questa spesa è destinata al personale (pensioni e stipendi): solo una quota minore è destinata agli armamenti. In termini di capacità militari il Brasile è la potenza più importante dell’America Latina per numero di truppe (318.500 unità, di cui 190.000 solo nell’esercito) e spesa militare complessiva (secondo lo Stockholm International Peace Research Institute – Sipri, sarebbero 35.400 milioni di dollari, circa il 2,2% del pil nel 2014); numeri rilevanti anche in termini assoluti, data l’assenza sia di conflitti interstatali, sia di serie minacce regionali. Il potere militare brasiliano riflette un atteggiamento difensivo e i suoi principali compiti hanno a che fare con la sorveglianza delle frontiere (incluso il territorio amazzonico) e la partecipazione alle missioni delle Nazioni Unite. In tal senso occorre ricordare il ruolo guida assunto dal Brasile nella missione di pace in Haiti (Minustah), che può essere letto anche come una mossa strategica per ottenere un posto nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite in caso di riforma. Il paese ha inoltre cercato di svolgere un ruolo di mediazione in diversi conflitti regionali, come durante la guerra tra Ecuador e Perù nel 1995 e la crisi politica paraguaiana del 1996. Nel 2002 ha offerto anche sostegno a Chávez nel suo tentativo di colpo di stato. Per proteggere e controllare l’Amazzonia, ma anche per riaffermare la propria sovranità su tutto il suo territorio, il Brasile ha sviluppato due sistemi di vigilanza per raccogliere dati e identificare situazioni pericolose: il Sistema di protezione dell’Amazzonia (Sipam) e il Sistema di vigilanza dell’Amazzonia (Sivam). Al fine di preservare l’equilibrio ecologico nella regione amazzonica, il Brasile ha inoltre stretto nel 2013 un’alleanza bilaterale con la Guyana, per instaurare un rapporto di mutua difesa e di cooperazione militare sul confine.
Il Brasile ha conseguito importanti progressi anche nello sviluppo dell’industria degli armamenti, in particolare per gli aerei da combattimento Tucano e Super Tucano. Inoltre, a metà dicembre 2010, il paese ha realizzato il lancio (nel suo territorio) del missile di medie dimensioni Vsb30 V07, sviluppato con tecnologia brasiliana. L’avvenimento riveste una notevole importanza in termini scientifici e tecnologici, dati gli esperimenti (legati alla microgravità) realizzati durante il lancio e il tempo di volo del missile, ma non vanno sottovalutati i potenziali sviluppi in ambito militare.
I preparativi sono stati piuttosto turbolenti, l’inizio alquanto incerto ma la manifestazione sportiva dei Mondiali 2014 in Brasile - al di là del risultato incassato dalla Selecao, la squadra nazionale - non ha riservato brutte sorprese. In corrispondenza dell’apertura dei giochi si sono verificate nuove proteste da parte di piccoli gruppi di attivisti e altri scioperi indipendenti, ma si è trattato di episodi molto meno rilevanti rispetto a quelli dell’anno precedente, quando, in occasione della Confederation Cup 2013, milioni di brasiliani sono scesi in piazza per manifestare contro la scarsa qualità dei servizi pubblici e le faraoniche spese affrontate dallo stato per ospitare l’evento. Durante il campionato, l’intera organizzazione logistica ha retto e non si sono verificati episodi di violenza significativi: la reputazione internazionale del Brasile è quindi salva. Conclusasi l’euforia dei giochi e sconfitte le preoccupazioni, il paese torna a fare i conti con se stesso e a guardare alle Olimpiadi del 2016 con una rinnovata consapevolezza.
Uno studio dell’Università di San Paolo ha stimato in 18 miliardi la spesa per ospitare la Coppa del Mondo 2014 (contro gli 11,8 dichiarati dal governo) e in 15 miliardi la spesa per le Olimpiadi del 2016. Per la messa in sicurezza del paese sono state disposte 170.000 unità, tra soldati dell’esercito e poliziotti, 40 agenti dell’Fbi, due droni militari (forniti da Israele) per sorvolare i cieli e una cinquantina di veicoli robotizzati forniti dagli Stati Uniti. Il tutto per una spesa complessiva quantificata intorno ai 900 milioni di dollari, di cui 100 stanziati per le sole operazioni di bonifica nelle favelas di Rio de Janeiro. Per quanto concerne le opere infrastrutturali, un’inchiesta pubblicata dal quotidiano Folha de S. Paulo ha mostrato che delle 167 opere annunciate dal governo solo 68 sono state portate a conclusione, contro le 11 che sono state abbandonate e le 88 che saranno ultimate nei prossimi anni. Nel corso dei lavori hanno perso la vita nove operai, mentre due persone sono morte in seguito a crolli infrastrutturali successivi.
Alle disfatte edilizie e ai conti salati, si aggiungono gli episodi di corruzione che hanno macchiato l’intera macchina burocratica organizzativa e in cui sono stati coinvolti funzionari e responsabili dei ministeri dello Sport e del Turismo.
I costi e i sacrifici sostenuti non trovano neppure facile giustificazione, né appagamento, nei benefici attesi. L’agenzia di rating Moody’s e la società di consulenza Capital Economics hanno calcolato che gli investimenti in aeroporti, trasporto pubblico e infrastrutture sono destinati a incidere appena per lo 0,5% del pil nei prossimi anni, a fronte dell’1% investito dal governo. In compenso il flusso di turisti in entrata è stato maggiore delle aspettative, registrando un afflusso di quasi un milione di stranieri, contro i 600 mila attesi.
In Brasile ci si prepara quindi per il grande evento olimpico con qualche opera edilizia in più, ma anche con meno soldi nelle tasche dello stato, tassi di crescita deludenti, costo della vita più alto e gli stessi problemi e contraddizioni che la Coppa del Mondo aveva temporaneamente celato: povertà, carenze educative e sanitarie e poche infrastrutture. Magari l’impatto positivo di quanto fatto finora non si vedrà nella crescita del pil, ma in una classe politica più accorta e consapevole, che saprà fare meglio i conti con gli incarichi assunti agli occhi del mondo e del suo popolo.
Dai tempi della colonizzazione portoghese nel Sedicesimo secolo, per via delle conversioni forzate e dell’immigrazione europea, il Brasile si è sviluppato come un paese nettamente cattolico arrivando a ospitare la più grande percentuale di cattolici al mondo.
Il censimento del 2010 ha però messo in evidenza un fenomeno già in crescita da quarant’anni a questa parte: la fuga dei fedeli verso le Chiese protestanti, in particolare evangeliche e pentecostali. I cattolici brasiliani sono passati dall’89% della popolazione (108 milioni) negli anni Ottanta, al 65% (123 milioni) nel 2010, mentre il numero dei protestanti è cresciuto da 8 milioni (7%) agli attuali 42 (22%). Le ragioni di tale ‘commutazione religiosa’ sembrano risiedere nell’eccessivo conservatorismo che i brasiliani rimproverano alla Chiesa cattolica. A differenza delle Chiese protestanti, che si dimostrano aperte ai problemi e alle esigenze quotidiane della gente e offrono occasioni innovative di confronto su tutto il territorio (anche nelle favelas), i portavoce del cattolicesimo sono percepiti come disinteressati e distanti dalla realtà. La visita del Papa sudamericano Francesco a Rio de Janeiro, in occasione della Giornata mondiale della gioventù del 2013, ha assunto quindi un significato rilevante: far sentire la Chiesa di Roma vicina all’intero continente latinoamericano e diffondere l’idea che al suo interno sia in corso un processo di rinnovamento.
Nel 2001 la celebre banca d’affari Goldman Sachs ha coniato il termine Bric per indicare i quattro paesi che si consideravano le economie del futuro: Brasile, Russia, India e Cina. Dieci anni dopo si è aggiunto anche un emergente africano, la Repubblica Sudafricana, che ha allungato l’acronimo in Brics. I cinque paesi ospitano quasi tre miliardi di abitanti, compongono circa il 20% dell’economia totale e hanno contribuito a più della metà della crescita del pil mondiale dell’ultimo decennio. Attualmente i Brics detengono il 70% dei beni mondiali dei fondi sovrani e l’unione delle loro riserve valutarie sarebbe pari a 4.400 miliardi di dollari. I loro scambi commerciali rappresentano inoltre il 16,8% del commercio internazionale mentre i flussi commerciali intra-Brics hanno raggiunto i 282 miliardi di dollari nel 2012 che per la Goldman Sachs e il Fondo monetario internazionale diventeranno 500 miliardi entro il 2015. Nonostante le preoccupanti incrinature accusate durante la crisi globale, i Brics hanno continuato a lanciare nuovi accordi in campo economico-finanziario. Particolarmente importante è quello cui ha dato luogo la Dichiarazione di Fortaleza, siglata il 15 luglio 2014. In quest’occasione i cinque leader si sono impegnati a creare la Nuova banca di sviluppo, una realtà finanziaria alternativa alla Banca mondiale che si pone, tra gli ambiziosi obiettivi, il rafforzamento della cooperazione tra i membri e il potenziamento dei rapporti multilaterali con altri paesi. Il capitale già sottoscritto dai soci è al momento di 50 miliardi di dollari, per la maggior parte cinesi, che però potranno salire fino a un massimo di 100 miliardi. Tra le cariche, al Brasile è spettata la presidenza del Board of Directors. Prima di questo importante passo, i Brics avevano già stipulato due accordi in campo economico-finanziario: il primo multilaterale per il cofinanziamento infrastrutturale destinato all’Africa, il secondo per la creazione di un Consiglio per gli affari dei Brics, composto da cinque rappresentanti per ciascuno dei Paesi membri, che si riunisce due volte all’anno per promuovere collaborazione e dialogo per il rafforzamento delle relazioni commerciali, del trasferimento delle competenze tecnologiche e la cooperazione nei settori bancario, dell’economia verde, della produzione e dell’industrializzazione.
Il bioetanolo è un carburante liquido ottenuto dalla biomassa e il suo attuale sviluppo si deve, principalmente, alla necessità di trovare sostituti ai carburanti derivati da fonti fossili, come la benzina e il gasolio. Il suo utilizzo serve a coprire i bisogni nel settore dei trasporti, che è quello che contribuisce in maniera più significativa alle emissioni di gas. La produzione di biocarburanti (bioetanolo e biodiesel) non ha solo motivazioni economiche o geostrategiche – alti prezzi del petrolio e produzione concentrata in pochi paesi, non sempre affidabili – ma è anche guidata dalla volontà di contenere il cambiamento climatico. A livello mondiale, il Brasile è sia il maggior produttore, sia il primo consumatore di bioetanolo (a base di canna da zucchero). Dietro il Brasile, dotato di 430 impianti, i secondi produttori mondiali di bioetanolo sono gli Usa; insieme i due paesi rappresentano quasi i tre quarti della domanda mondiale di questo biocarburante. L’attuale posizione di leader mondiale non costituisce un caso: se da una parte le dotazioni di risorse naturali hanno giocato un ruolo fondamentale, dall’altra il Brasile ha maturato una lunga esperienza nel settore, sostenuta dall’entrata in vigore, già nel 1975, del Programma nazionale dell’alcol, ribattezzato ‘Programma Proalcol’.
Dilma Rousseff è stata rieletta e così, alla fine del suo mandato, il Partito dei lavoratori avrà accumulato sedici anni di potere ininterrotto. Si vede che i brasiliani sono contenti, si dirà, e chiedono continuità. Mica tanto: tutti, in realtà, si attendono cambiamenti. Vale per chi Dilma non l’ha votata, preferendole Aecio Neves del PSDB, che per poco non la sorpassa sul filo di lana; e vale per chi invece il voto gliel’ha confermato, cui non sfugge però che se finora Dilma ha ‘vissuto di rendita’, godendo dell’eredità di Lula e di una congiuntura economica eccezionale, in futuro dovrà fare meglio. Molto meglio. Pena una grave crisi.
Fare meglio cosa? Come? Cosa serve al Brasile? Cosa si aspettano i brasiliani? Il brusco mutamento di clima intorno al Brasile è davvero grande. E può, chissà, mutare di nuovo quando di qui a due anni il paese tornerà ad essere vetrina mondiale per le Olimpiadi. Forse era eccessivo descriverlo due anni orsono come un fiore sbocciato; forse lo è altrettanto ora parlarne quasi fosse appassito. Ma tale è l’umore: la baldanzosa potenza cui tutti elevavano lodi e pronosticavano trionfi, mostra oggi serie rughe: l’economia stagna, la corruzione dilaga, la protesta è già più volte esplosa, le elezioni hanno fotografato un paese diviso a metà, dopo una campagna elettorale dai toni cupi e duri. Il Brasile d’oggi pare incatenato allo storico 7 a 1 patito dai tedeschi ai mondiali.
Dilma lo sa. Così come sa che il suo stile di governo non l’ha finora aiutata: troppo tecnocrate per alcuni, troppo supponente per altri. Non è dunque un caso che all’indomani della striminzita vittoria elettorale sia subito corsa ai ripari con toni e modi inediti finora, ora invocando l’unione del paese, ora avviando consultazioni con le organizzazioni della società civile per discuterne insieme attese e proposte. E lo stesso ha fatto nei confronti degli attori economici, perlopiù delusi dalla sua gestione, l’apertura ai quali s’è subito riflessa nell’andamento dei mercati azionari, che dopo avere accolto con pessimismo la sua rielezione hanno dato credito alle sue profferte di dialogo.
Il punto, però, rimane lo stesso: che fare? Il Brasile è cresciuto e non si può negare. Ma rimane forte l’impressione che le sue energie rimangano imbrigliate e che come già in passato compia brevi e intensi ‘miracoli’ seguiti da lunghe stagioni grigie. È quel che si vede oggi, con l’economia al palo e l’inflazione al 7%, gli investimenti in calo e l’occupazione a rischio, la società che scalpita e la politica impotente. L’allarme è rosso. Ma la medicina dipende dalla diagnosi, su cui non v’è alcun consenso. Da un lato, si staglia il Brasile che col Pt ha più prosperato, sia quello popolare che ha goduto della generosa spesa pubblica, sia quello impiegatizio, forte nel frondoso apparato pubblico. È facile immaginare che tale zoccolo duro del Pt chiederà a Dilma protezione. Dall’altro lato c’è un Brasile nuovo ed eterogeneo, perlopiù frutto della grande e ancora fresca modernizzazione. È un Brasile di ceti medi più produttivi ed esigenti, istruiti e cosmopoliti, che chiede migliori servizi più che beni di base, che reclama onestà e trasparenza amministrativi, più democrazia e, spesso, una società e un’economia più aperte, libere dalle pastoie corporative di cui il Pt è garante. Con questo Brasile che lui stesso ha tenuto a balia, il PT sta perdendo contatto: è il logorio del suo lungo potere. E ora che le vacche grasse dell’ultimo decennio appaiono smunte, la coperta per compiacere gli uni e gli altri è troppo corta. L’epoca di scelte dolorose, insomma, s’avvicina: la spesa pubblica andrà ridotta e razionalizzata; la produttività incentivata; la concorrenza stimolata; le rendite corporative toccate. A meno che Dilma non celi il sogno di limitarsi a tenere il paese in linea di galleggiamento per consegnarlo tra quattro anni nelle magiche mani di Lula, cui i brasiliani non negherebbero certo un nuovo mandato. Sarebbe un grave errore: quattro anni sono lunghi e il piccolo cabotaggio non farebbe che incancrenire le tare già emerse e gli scontenti già esplosi.
Su un punto, scabroso ma decisivo, potrebbe però crearsi un clima d’intesa da cui il Brasile possa riprendere il virtuoso cammino degli anni andati: la riforma della politica. I maggiori partiti e gran parte dell’opinione pubblica potrebbero trovare su questo piano un nuovo consenso, nutrito dalla speranza che tale riforma riduca l’ormai insopportabile fardello della corruzione, che tanto grava sulla performance economica del paese e tanto avvelena il clima nel paese. Il Brasile moderno non può più poggiare su una struttura politica primitiva, al cui centro sta il Parlamento più frammentato al mondo. Un Parlamento dove il Pt, primo partito, ha appena il 13% dei seggi e non v’è legge che non richieda opachi negoziati, il cui oggetto è più la soddisfazione di tutti coloro che vi partecipano che non la produzione di leggi utili al paese. Sarebbe un’intesa parziale, da cui tutti però trarrebbero vantaggi.