Breve storia del restauro statico
Questa sintesi della storia del restauro statico dalle origini a oggi fa esclusivo riferimento agli edifici in muratura, materiale con il quale sono stati costruiti, ricostruiti e riparati villaggi, città, chiese, ponti, acquedotti da almeno seimila anni or sono. Solo alla fine di questo lungo intervallo di tempo sono poi intervenute le costruzioni in acciaio e in cemento armato.
Una costruzione in muratura ha un suo specifico comportamento e risorse di resistenza sue proprie, molto diversi da quelli delle attuali strutture in cemento armato o in acciaio, ma pur sempre efficienti.
Per poter comprendere la storia del restauro statico, così ricca di insegnamenti nell’attuale dibattito sul consolidamento e sul restauro, occorre anzitutto conoscere gli aspetti centrali di questo comportamento. Dinanzi a un edificio storico che richiede oggi un intervento di consolidamento statico, sappiamo che, in primo luogo, occorre individuare le cause del danno e poi, se necessario, intervenire, ma nel rispetto dell’identità architettonica e strutturale della costruzione. Una storia del restauro statico va perciò vista oggi in modo critico, leggendo in trasparenza la graduale evoluzione nel tempo della comprensione della statica delle costruzioni in muratura e cercando di acquisire insegnamenti dai lavori di consolidamento eseguiti nel passato.
Il comportamento statico delle costruzioni in muratura
Un corpo murario può essere visto come un assemblaggio di particelle rigide, mattoni o blocchi di pietra, opportunamente legati con malta. È imprudente ammettere che la malta, che tra l’altro può essersi deteriorata nel tempo, possa aggiungere resistenza alla costruzione. La stabilità dell’insieme è assicurata solo dalle forze di gravità che generano sollecitazioni di compressione all’interno della massa muraria e che, a causa dell’attrito, legano i vari elementi insieme impedendone lo slittamento.
La bassa resistenza a trazione della muratura suggerisce l’uso di modelli unilateri, i cosiddetti modelli a resistenza a trazione zero, al posto degli inaccettabili modelli linearmente elastici. Il modello più semplice, che contiene l’essenza del comportamento della muratura, è il modello di Heyman, oggi generalmente accettato, rigido in compressione e non resistente a trazione. Ricordiamo le ipotesi chiave introdotte da Jacques Heyman (1966 e 1995): la muratura è incapace di sostenere trazione e ha un’infinita resistenza a compressione; i collassi per scorrimento sono così rari che possiamo ritenere che non si verifichino.
In conseguenza di tali ipotesi, sostanzialmente verificate nella realtà, le strutture in muratura possono subire lesioni o distacchi che a loro volta possono generare campi di spostamento, chiamati meccanismi, che si sviluppano senza alcun contrasto interno da parte del materiale. Sotto un assegnato processo di carico una struttura in muratura può allora raggiungere la condizione di collasso soltanto per perdita di equilibrio, cioè senza nessuna rottura del materiale, e quindi anche in presenza di muratura infinitamente resistente a compressione. Appena i carichi spingenti cominciano a superare, lungo uno di questi meccanismi, l’azione dei carichi resistenti, la struttura, infatti, collassa. Ciò costituisce l’aspetto più innovativo del comportamento delle strutture in muratura, a confronto di quelle elastiche, che possono con buona approssimazione descrivere invece il comportamento delle costruzioni in acciaio o in cemento armato.
Le costruzioni in muratura sono state realizzate in modo che i corrispondenti meccanismi producano spostamenti verticali nei quali prevalgono i sollevamenti. È la geometria che assicura che il peso della struttura contrasti lo sviluppo dei meccanismi. Peso e geometria rappresentano quindi gli elementi essenziali della resistenza delle strutture in muratura (Como 2010b e 2012).
La muratura non diffonde i carichi al suo interno. A seconda della geometria dei carichi la struttura sviluppa, infatti, flussi di compressione che dipendono dalla geometria dei carichi agenti. A seconda dei carichi la struttura mobilita una sua specifica struttura resistente, come per primo intuì Eugène-Emmanuel Viollet-le-Duc (1814-1879; cfr. Viollet-le-Duc 1858-1868).
La risposta ai cedimenti degli edifici in muratura è influenzata da questo comportamento. Al contrario delle costruzioni in cemento armato o in acciaio, che possono essere soggette a collassi fragili e a severo danneggiamento in presenza di cedimenti, le strutture in muratura seguono docilmente il progredire del cedimento fino a quando le variazioni di geometria, generalmente controllate, restano limitate. Questo aspetto spiega la grande durata e la longevità di tanti edifici storici che, pur fessurandosi, si adattano senza subire crolli e rotture locali (Como 1997).
C’è una grande differenza tra un intervento di restauro statico e un generico intervento di consolidamento. L’intervento di restauro statico rispetta l’identità statica e architettonica della costruzione e, nel contempo, conserva nel tempo la traccia sia del danno avvenuto sia dell’intervento eseguito. Il consolidamento, ammesso che non risulti invasivo, si occupa invece solo di riparare o rinforzare la costruzione.
Già in epoca tardoromana e nel Medioevo vi sono stati sporadici tentativi di conservare le vestigia del passato. Sappiamo così che nel tardo impero le spoliazioni di edifici abbandonati, se non di intere città semispopolate, dilagarono a tal punto che, già a partire dalla metà del 4° sec. d.C., si rese necessario emanare, sia pure inutilmente, leggi per la protezione, specialmente a Roma, delle costruzioni più antiche.
Non erano stati ancora percepiti i principi del restauro. Anche il Rinascimento non conobbe il ‘restauro’ e tanti monumenti vennero distrutti per costruirne altri al loro posto. Fino a tutto il Cinquecento l’originalità di un’opera consistette soprattutto nelle sue forme e nelle proporzioni tra le sue parti, piuttosto che nell’autenticità della materia, cosicché non si faceva differenza all’epoca tra una statua antica e una copia. In sostanza, sino alla metà del 18° sec. non vi fu una coscienza del valore storico dei monumenti quale noi ora possediamo e non è esistito, di conseguenza, il restauro nella sua effettiva accezione.
Tutto cominciò a cambiare alla fine del Settecento. L’originale attività sia di Raffaele Stern (1774-1820) nel restauro del Colosseo, sia, più tardi, in quello dell’Arco di Tito portato a compimento da Giuseppe Valadier (1762-1839) costituirono altrettanti punti di arrivo e di partenza per nuovi importanti sviluppi. Solo nell’Ottocento la cultura del restauro cominciò ad avere un effettivo significato. È importante però sottolineare che fino a quando si utilizzarono gli stessi materiali con cui gli edifici erano stati costruiti, gli interventi più diffusi consistevano in una più o meno parziale ricostruzione delle parti degradate, in riparazioni delle murature con la tecnica del ‘cuci-scuci’ e nell’esecuzione di rinforzi con l’inserimento di catene o cerchiature di ferro.
Con la rivoluzione industriale, invece, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, se, da un lato, la cultura del restauro realizzò grandi progressi, la cultura statica della costruzione in muratura si affievolì. La disponibilità dei nuovi materiali, quali l’acciaio e il cemento armato, cominciò a mettere a disposizione dei tecnici una nuova grande varietà di mezzi e materiali e molti sono stati gli interventi consolidativi che, con l’uso massiccio di tali nuove tecnologie, hanno talvolta profondamente alterato le architetture del passato.
Malgrado la cultura del restauro abbia raggiunto oggi una sua piena maturità, il restauro statico non ha avuto finora un altrettanto eguale sviluppo. Il problema della conservazione dell’essenza architettonica e della specifica identità strutturale della costruzione storica è di fatto ancora oggi aperto nella pratica. Lo studio della storia del restauro statico è perciò ricca di insegnamenti concreti e ci rende più consapevoli dell’importanza di incrementare e valorizzare le prestazioni strutturali intrinseche all’edificio sfruttando sistematicamente le risorse tipiche della costruzione in muratura.
Riparazione, consolidamento e restauro statico nell’edilizia romana
I lavori di consolidamento eseguiti dai Romani, particolarmente nel periodo del grande sviluppo edilizio che si verificò durante l’impero, consistevano sostanzialmente in lavori di riparazione di opere da loro stessi già realizzate. Le più precarie costruzioni di epoca repubblicana venivano spesso demolite per costruire le nuove opere dell’impero.
In epoca tarda poi, con il crollo dell’impero e l’avvicendarsi delle invasioni, nelle città semispopolate gli antichi edifici, non più utilizzati e vissuti, cominciavano a diventare cave per l’acquisizione di materiali edilizi. La necessità di preservare gli antichi monumenti venne allora avvertita e, come già detto, furono emanate leggi speciali che non riuscirono però ad arrestare il declino e il degrado.
Danneggiamenti e riparazioni per cedimento fondale
Le grandi masse murarie delle costruzioni dei Romani impegnavano fortemente i terreni di fondazione. I dissesti più frequenti erano, infatti, dovuti ai cedimenti differenziali che si verificavano nelle fondazioni degli edifici in presenza di terreni di sedime con scadenti caratteristiche meccaniche. Ciò si verificava quando le costruzioni venivano realizzate su terreni di carattere alluvionale, come accadeva, per es., in varie zone di Roma. La presenza di costruzioni massicce e rigide aggravava l’effetto dei cedimenti che determinavano imponenti quadri fessurativi nei muri e nelle volte malgrado, come già detto, la riscontrata adattabilità delle strutture in muratura al cedimento.
Gran parte della sapienza costruttiva dei Romani si era gradualmente sviluppata nella ricerca di una migliore qualità edilizia. I grandi monumenti, se realizzati su terreni paludosi, presentavano fondazioni rigide e massicce. Si pensi, per es., alle fondazioni del Colosseo (Coccia, Como, Conforto, Ianniruberto 2006), costituite da un anello ellittico in concreto avente una sezione trasversale di circa 50 m di larghezza e 14 m di altezza. Tracce di riprese e adeguamenti dei piani di posa si riscontrano frequentemente sotto numerosi monumenti romani: spesso, infatti, nuove massicce opere fondali inglobano quelle più antiche. Un esempio sono quelle che si riscontrano nelle fondazioni del Pantheon.
I consolidamenti, anche se numerosi, si restringono a una ristretta tipologia di interventi, fra cui i più diffusi sono il ‘cuci-scuci’, l’aumento delle sezioni portanti, l’esecuzione di contrafforti per rinforzare i muri sottoposti alle spinte delle volte soprastanti.
Percezione della spinta delle volte e degli archi da parte dei Romani
Le volte dei Romani, le grandi volte in grosso spessore a botte a tutto sesto, quelle a cupola sferica, le grandi volte a crociera e così via, a copertura dei vasti edifici costruiti in Italia o nelle varie regioni dell’impero, erano frequentemente realizzate in opus caementicium, posto a getto sulla forma della centina, oppure su una prima volta in laterizio che sosteneva il getto di concreto (Adam 1984; Giuliani 1990). I vantaggi di tale sistema costruttivo erano l’economia e la rapidità di costruzione. Il difetto era costituito dal gran peso, dovuto al notevole spessore delle volte e all’elevato peso specifico del materiale: ciò comportava l’uso di una complessa struttura di sostegno del getto e l’eventuale presenza di elevate spinte sulle strutture di sostegno della volta. La mobilitazione o meno di tali spinte dipendeva dalla coesione che effettivamente, al disarmo, si poteva realizzare nel concreto.
Oggi, testando manualmente un frammento di un’antica muratura romana, possiamo riconoscere come sia difficile separare i caementa dalla malta, tanto profonda e tenace è l’unione tra essi. Una grossa volta poggiante su muri laterali potrebbe pertanto presentare un comportamento statico simile a quello di un corpo rigido pesante sostenuto da muri. Questo comporterebbe assenza di spinta nella cupola. Era improbabile, però, che la coesione interna del materiale a concrezione fosse già pienamente attivata all’atto del disarmo della centina di sostegno del getto (Giovannoni 1925). L’apparente attuale solidità dei sistemi voltati in concrezione non deve quindi ingannare: è molto probabile che la spinta delle volte si sia invece attivata all’atto stesso del loro disarmo. I costruttori romani dovevano essere consci di tale situazione se hanno introdotto nella costruzione delle volte procedimenti ingegnosi atti a ridurne le spinte, quali quelli che prevedevano la costruzione delle volte in tubi fittili o in materiali leggeri, quali scorie vulcaniche (Lancaster 2005).
La fessurazione delle cupole in muratura, che si verificava quando la resistenza a trazione del concreto non era in grado di sostenere le sollecitazioni di trazione che si producevano nella volta sotto il suo peso, contemporanea all’attivarsi della spinta, è caratterizzata dal prodursi di lunghe fessure meridiane. È la presenza di fessurazioni all’intradosso in chiave nelle volte che testimonia, senza possibilità di dubbio, l’attivazione della spinta. È possibile, infatti, riconoscere oggi la presenza di tali quadri fessurativi appena si possa ispezionare l’intradosso delle volte, spesso ricoperto da strati di intonaco disposti successivamente. Un esempio in tal senso è offerto dalle volte degli ambulacri che corrono lungo le pareti del Colosseo. In questo contesto è inoltre esemplare il caso del Pantheon.
L’iscrizione di Settimio Severo posta sull’architrave del pronao del Pantheon ricorda i lavori di consolidamento, prevalentemente di ‘cuci-scuci’ eseguiti sul monumento vetustate corruptum nel 202 d.C.: in vari punti dell’edificio i rinforzi alle pareti e agli archi vennero, infatti, realizzati con mattoni che riportavano stampigliate date coincidenti con il periodo del regno di Settimio Severo e con la data dell’iscrizione. Trattasi quindi di lavori di consolidamento eseguiti sul monumento danneggiatosi non molto dopo la sua costruzione, probabilmente a causa dell’attivarsi della spinta sul tamburo (de Fine Licht 1968). Tali lesioni riproducono la tipica distribuzione delle lesioni meridiane che si attivano all’atto della rottura a trazione degli anelli disposti nella parte bassa della cupola. La struttura delle Terme di Diocleziano, del 298 d.C., testimonia in modo esemplare come, all’epoca, i Romani avessero ben compreso in che modo fronteggiare l’attivarsi della spinta nelle volte. Nella struttura delle Terme, infatti, si possono riconoscere gli archi rampanti che trasmettono la spinta delle grandi volte a crociera sui contrafforti e poi sui muri esterni, così come, molti secoli dopo, verrà effettuato nelle cattedrali gotiche.
Riparazioni e consolidamenti negli acquedotti
Numerosi interventi di consolidamento dei Romani vennero effettuati proprio per riparare i danni dovuti all’attivarsi di spinte, per es. nelle pesanti volte a botte non sufficientemente contrastate da muri laterali di insufficiente spessore. Per le volte lesionate si realizzavano lungo i muri perimetrali contrafforti uniti da archivolti (Adam 1984). I pilastri e le arcate venivano ingrossati e frequente è la realizzazione di sott’archi di rinforzo avente luce ridotta rispetto a quella delle arcate.
Gli interventi consolidativi più rilevanti vennero effettuati sulle strutture degli acquedotti, forse le opere pubbliche più straordinarie dell’antica Roma. La nostra attuale conoscenza dei problemi statici che si presentavano negli acquedotti è dovuta a Frontino, curator aquarum sotto Nerva e nei primi anni del governo di Traiano, che scrisse molte annotazioni sull’organizzazione e la manutenzione degli acquedotti.
Il primo acquedotto di Roma fu quello dell’Appia, costruito nel 312 a.C.; esso arrivava in città attraverso un lungo cavo sotterraneo. Fu seguito poi, nel 272-269 a.C., dall’Anio Vetus. Il pretore Marcius Rex fu incaricato nel 144 a.C. di restaurare i due acquedotti esistenti e di realizzarne un terzo, l’Aqua Marcia, ancora allacciato alle sorgenti dell’Aniene. L’imperatore Claudio fece poi realizzare il grande acquedotto che porta il suo nome. Gli acquedotti romani erano realizzati mediante una sequenza di archi poggianti su piloni che avevano la funzione di sostenere lo spaecus, quella parte della struttura profilata a U entro cui scorreva l’acqua. Le campate delle arcate erano piccole e di conseguenza i piloni erano molto vicini tra loro.
I settori in galleria erano quelli che meno si danneggiavano. I ponti degli acquedotti erano invece le strutture che richiedevano frequenti rinforzi. La stabilità trasversale di queste opere era compromessa dai terremoti, dall’azione del vento, dai cedimenti fondali. Proprio per gli acquedotti i cedimenti fondali, anche lievi, potevano alterare le millimetriche variazioni di quota fissate nello spaecus per la circolazione dell’acqua.
I cedimenti fondali erano le cause più comuni dei danneggiamenti. Le strutture degli acquedotti venivano rafforzate dai Romani in modo sistematico, come è evidente ancora oggi, mediante ingrossamento dei piloni e costruzione di sottarchi, immediatamente riconoscibili, per es., nella città di Roma.
Spoliazioni
La situazione cambiò completamente nel tardo impero quando non vennero più realizzate opere pubbliche di rilievo e si verificarono spoliazioni negli edifici abbandonati, se non addirittura in intere città. Tali spoliazioni, specialmente a Roma, dilagarono a tal punto che, a partire dalla metà del 4° sec., si rese necessario, come si è detto, emanare apposite leggi per la protezione delle costruzioni più antiche. Si stabilì così che un terzo dei redditi dell’erario fosse destinato alla conservazione degli edifici pubblici (Viscogliosi 2003). Molte leggi ordinavano di non intraprendere nuove costruzioni «[…] priusquam ea quae victa senio fatiscerent reparent». Un architetto, architectus publicorum, venne creato per il restauro. Cassiodoro, per es., fu incaricato da Teodorico di svolgere tale mansione. Purtroppo, malgrado questi buoni propositi, già nell’età di Giustiniano i templi divennero cave di materiali già lavorati e pronti per l’uso.
Un esempio importante a tal proposito è quello offerto dal Colosseo. Lo stato di danneggiamento del monumento, rivelatosi nel 18° sec., prima dei lavori di riparazione e consolidamento che da allora ebbero inizio, era conseguenza di diciassette secoli di vita dell’edificio durante i quali si erano alternati periodi di uso e periodi di abbandono, intramezzati da eventi eccezionali, quali incendi e terremoti, che, probabilmente, determinarono crolli parziali e spoliazioni.
Danneggiamenti e consolidamenti di epoca medioevale
Le mutate e rovinose condizioni economiche dell’Europa dopo il crollo dell’impero romano imposero ai costruttori medioevali l’utilizzo di materiali reperibili nel luogo per evitare ingenti spese di trasporto. La riduzione dello stesso materiale in piccoli conci ne facilitava, inoltre, le modalità di carico, scarico, trasporto e messa in opera. Nel Medioevo grande diffusione ebbe, pertanto, la costruzione della muratura in piccoli blocchi di laterizio allettati con malta. Ma la suggestione dell’architettura di pietra ancora si conservava tanto che vennero costruiti monumenti lapidei anche in aree dotate solo di terreni argillosi, come nel caso di Modena, con la realizzazione del Duomo.
La costruzione delle grandi cattedrali gotiche, in particolare quelle della Francia tra il 12° e il 13° sec., e di un gran numero di torri, furono gli eventi costruttivi più rilevanti in tutto il Medioevo.
La meccanica dei costruttori di cattedrali era essenzialmente incentrata sul principio della leva e su quello della composizione delle forze. Tali principi, oltre a essere intuiti e applicati, cominciarono a essere codificati come quello della gravitas secundum situm di Giordano Nemorario, matematico e fisico del 13° secolo. Tanto più la posizione del corpo si avvicina alla verticale, tanto maggiore è la gravitas secundum situm, cioè la componente del peso nella direzione del movimento possibile. È evidente che tale principio dovesse essere già a conoscenza, sia pure intuitivamente, dei costruttori del tempo e che sia stato utilizzato nella disposizione dei conci degli archi ogivali o degli archi rampanti.
Una cattedrale gotica era in effetti il risultato di un progetto elaborato da un tecnico che era contemporaneamente architetto e ingegnere. Testimonianze delle tecniche di cantiere, di misura e di costruzione delle antiche cattedrali gotiche sono le trentatré tavole giunte fino a noi del taccuino di Villard de Honnecourt, un architetto dell’epoca, compilate con grande intelligenza intorno al 1235. Dalle tavole di Villard emerge che, definito un modulo di base, tutte le altre lunghezze che caratterizzano la struttura della cattedrale devono essere definite in proporzione a tale modulo. Sono i principi di Vitruvio che si conservano nel Medioevo.
Numerosi erano gli inconvenienti che si incontravano nella costruzione delle cattedrali. La realizzazione dei pilastri, così snelli, era un problema che gli antichi costruttori dovevano affrontare e risolvere. La soluzione consisteva nel vincolarli a contrafforti laterali attraverso una sequenza di archi rampanti in grado di trasmettere a questi la spinta delle volte.
Era frequente il verificarsi, nel tempo, del rilascio e del distacco dei paramenti dei pilastri dal nucleo interno. Un rimedio utilizzato dai costruttori medioevali per evitare tale distacco, seguendo le antiche tecniche dei Romani, era quello di disporre, a intervalli e trasversalmente ai paramenti, opportuni blocchi di connessione.
Le fondazioni erano di regola costituite da muri continui che correvano sotto i pilastri delle navate, sotto i muri di elevazione e sotto i contrafforti esterni. Talvolta, erano anche presenti muri trasversali di collegamento che, insieme ai muri longitudinali, realizzavano un reticolo di muri di fondazione. Tale tipo di struttura fondale non veniva però sempre realizzato. I donatori che finanziavano la costruzione della cattedrale non vedevano, infatti, di buon occhio che il loro denaro venisse utilizzato per lavori sotto terra, e quindi non visibili, e gli architetti e ingegneri dell’epoca venivano dunque costretti a costruire le loro opere su fondazioni sostanzialmente inadeguate. Così molte cattedrali furono solo a mala pena fondate: esse frequentemente subirono forti cedimenti ma, grazie alla loro struttura articolata, rispetto alle massicce costruzioni romane, sono state capaci di adattarsi ai cedimenti differenziali del suolo: per questo molte di esse sono giunte quasi integre fino ai nostri giorni.
I costruttori delle cattedrali dell’Ile de France si spinsero via via a realizzare opere sempre più ardite. Per queste, con il progredire della tecnica costruttiva, le altezze dell’intradosso della volta sulla navata sono via via maggiori e dai 30 m della cattedrale di Soissons si passa ai 34 m di Chartres fino ai 42 m di Amiens. Con l’ultima cattedrale di Francia del periodo d’oro, la cattedrale di Beauvais, l’arditezza dei costruttori si spinse ancora oltre, fino a raggiungere, per la volta di copertura della navata, l’altezza di 48 m.
Crolli, danneggiamenti e riparazioni: la cattedrale di Beauvais
Gli interventi di riparazione e di consolidamento eseguiti dagli ingegneri e architetti medioevali non differiscono per tipologia da quelli realizzati in epoca romana. I livelli eccezionali raggiunti dai Romani nella tecnica costruttiva sono stati in epoca medioevale raggiunti solo un poco alla volta e i progressi costruttivi sono stati intervallati spesso da crolli e insuccessi. Tra questi è stato emblematico il crollo avvenuto nel 1294 nella cattedrale di Beauvais a cui sono poi seguiti lavori di ricostruzione e rinforzo. Altri dissesti si verificavano durante la costruzione delle torri: tra questi si ricordano, per es., l’improvviso inclinarsi sia della torre della Garisenda in Bologna sia di quella di Pisa durante la loro costruzione.
La costruzione della cattedrale di Beauvais ebbe inizio nel 1225. Dopo circa vent’anni di lavoro venne raggiunto il livello del triforio. Una più intensa attività successiva, svoltasi tra il 1250 e il 1272, consentì di completare la costruzione, compresa la copertura, del coro e del transetto. La costruzione era imponente, anche se l’interasse tra i pilastri del coro, pari a 15 m, era di poco superiore a quello delle cattedrali di Bourges, Chartres e Amiens. Erano le volte a copertura del coro di Beauvais a costituire il vero record: esse raggiungevano i 48 m di altezza.
La costruzione della navata della cattedrale non era neppure iniziata quando nel 1284 si verificò il crollo di tutte le volte di copertura fino allora realizzate. I resoconti dell’epoca non riferirono di nessuna catastrofe naturale all’epoca del crollo, quale, per es., una grande tempesta di vento o un terremoto.
Lavori di ricostruzione furono effettuati nei cinquant’anni successivi e il coro venne completamente ricostruito nel 1387 prima dell’inizio della guerra dei Cento anni.
I lavori per il completamento della costruzione della cattedrale ripresero solo nel 1500 e venne così completato il transetto. Pur non essendo ancora iniziati i lavori di costruzione delle navate, nel 1564 vennero improvvidamente intrapresi i lavori di costruzione di una grande torre posta al di sopra dei quattro grandi pilastri del transetto. La torre, che fu completata nel 1569, si ergeva fino all’altezza di 153 m da terra. Inclinazioni dei pilastri sottostanti si verificarono subito dopo la costruzione della torre. Malgrado l’esecuzione di lavori di rinforzo, il 30 aprile del 1573 la torre crollò. Nel 1578 vennero di nuovo completati i lavori di ricostruzione del coro e del transetto (Heyman 1995). Nel 1605 fu definitivamente deciso di non intraprendere più i lavori di completamento della chiesa e Beauvais restò per sempre, così come la vediamo oggi, un coro e un transetto di una splendida cattedrale dimezzata, senza navate e senza torre, a memoria del limite estremo non raggiunto, dell’audacia e dell’invenzione dei costruttori di cattedrali della Francia medievale.
Più che il crollo dell’alta torre, è il mistero del primo crollo del 1284 a non essere stato risolto e ancora oggi risulta davvero inesplicabile. La cattedrale era stata in buone condizioni per i dodici anni precedenti il crollo e le cronache del tempo non registrarono, come detto, né terremoti né violente tempeste di vento.
Molte sono le interpretazioni del crollo. Alcuni lo attribuiscono, ma solo genericamente, all’eccessiva snellezza dei pilastri: essi risultavano, infatti, troppo snelli in relazione alla loro altezza. Il fatto però che la cattedrale si fosse trovata in buone condizioni per dodici anni prima del crollo, che avvenne poi improvvisamente, può suggerire, secondo Viollet-le-Duc (1858-1868) e Heyman (1967-1968, 1995), che solo un’azione lenta, ma continua possa essere considerata la causa più probabile del collasso.
Secondo Heyman questa causa potrebbe essere rappresentata dal verificarsi di lenti cedimenti in fondazione. Anche Paul Frankl (1962) attribuisce il crollo al prodursi di lenti cedimenti differenziali che avrebbero subito le strutture di fondazione della cattedrale a causa del consolidamento dei relativi terreni di sedime. D’altra parte, secondo Maury I. Wolfe e Robert Mark (1976), tale tesi non sarebbe invece realistica. La cattedrale, infatti, risultava fondata sul sito di una precedente costruzione e chiusa all’interno di muri di cinta romani. Saggi in fondazione eseguiti intorno al transetto avevano mostrato che le fondazioni erano ben costruite e che il terreno di sedime risultava solido.
Sulla base di queste considerazioni solo una causa che si sia sviluppata lentamente nel tempo può essere considerata responsabile del crollo. Secondo Viollet-le-Duc (1858-1868) è la viscosità delle malte ad aver avuto un effetto determinante sul crollo: le snelle colonnine che fiancheggiano il pilastro avrebbero per prime ceduto e poi trascinato nel crollo i pilastri e la volta superiore.
Entrando nel merito della questione, occorre riconsiderare l’eccezionalità della struttura della cattedrale di Beauvais. In effetti, più che la distanza tra gli assi dei pilastri centrali, che era di 15 m, era invece l’altezza dei pilastri che in Beauvais risultava molto più grande delle altre cattedrali. È logico quindi dedurre che è nei pilastri che dev’essere cercata la causa del crollo. In questo caso una verifica dell’instabilità non può ritenersi valida se non si considera l’effetto davvero significativo della fessurazione che si produce mentre il pilastro si inflette lateralmente sotto carico eccentrico. Tale effetto, accoppiato alla viscosità delle malte, costituì probabilmente la vera causa del crollo (Como 2010a).
Danneggiamenti, demolizioni e riparazioni nelle torri medioevali
Delle oltre cento torri di cui la città di Bologna si fregiava alla fine del 12° sec. oggi ne restano solo una ventina. A Bologna, nel corso del 13° sec., molte torri furono parzialmente demolite, altre crollarono. La torre degli Asinelli fu edificata tra il 1109 e il 1119, a fianco della torre della Garisenda. Collocate all’ingresso della città dalla parte della via Emilia, esse svolgevano un’importante funzione di segnalazione e difesa. La loro caratteristica più curiosa è che entrambe pendono, in due direzioni opposte, anche se non raggiungono la pendenza della torre di Pisa.
È interessante osservare che la torre degli Asinelli, di pianta quadrata, ha fondazioni consolidate con pali. Sulla scorta di informazioni ottenute da sondaggi, risulta che dopo uno scavo della profondità di circa 7,50 m dal piano strada, vennero infissi un gran numero di pali di legno della lunghezza di circa 8 m (Le torri di Bologna, 1989). Sulla palificata di fondazione venne costruito un grosso dado di fondazione, del volume di circa 500 m3 costituito da ciottoli assemblati con malta e al di sopra di esso un basamento, emergente dal piano di campagna, dell’altezza di circa 3,5 m da cui veniva innalzata la canna della torre. Tale fondazione precorre la tecnica delle moderne fondazioni su pali. Il basamento della torre venne costruito con grossi blocchi di selenite e il resto della costruzione fu innalzato con muri via via più sottili e leggeri, realizzati in muratura a sacco. Si ritiene inoltre che la torre degli Asinelli, che presenta oggi un fuori piombo di 2,2 m, inizialmente fosse alta una sessantina di metri e che solo successivamente sia stata sopraelevata fino agli attuali 97,2 m.
La torre degli Asinelli fu interessata da un intervento di consolidamento. Eseguito nel 14° sec., consistette nel realizzare una incamiciatura interna. Il consolidamento venne eseguito dopo che un terremoto, avvenuto nel 1399, ne aveva fatto crollare la cella campanaria lignea e aveva provocato un forte incendio, attivato dal tiraggio all’interno della canna. Il rivestimento interno fu realizzato per rinforzare le murature danneggiate dal fuoco.
La torre Garisenda fu costruita contemporaneamente a quella degli Asinelli e probabilmente avrebbe dovuto raggiungere la stessa altezza. La Garisenda oggi è alta 48 m e ha un fuori piombo di 3,2 m, ma inizialmente era alta circa 60 m: la sua parte superiore fu demolita a causa di un sopravvenuto cedimento del terreno che la rese obliqua e pericolante (Nannelli, Giordano 1999; La torre Garisenda, 2000).
La torre di Pisa, la torre campanaria della cattedrale, è costituita da un fusto cilindrico di otto piani, dell’altezza di 56 m, inclusa la cella campanaria. I diametri esterno e interno alla base della torre sono rispettivamente di 15,5 m e di 7,4 m. Lo spessore della parete cilindrica varia da circa 4,10 m alla base a 2,50 m in testa. Il primo ordine è costituito da 15 arcate cieche, mentre ognuno dei successivi 6 livelli è composto da 30 arcate che circondano il cilindro interno della torre. L’ultimo piano, cioè la cella campanaria, presenta 16 arcate. Le superfici interna ed esterna del fusto hanno paramenti in marmo, mentre l’anello interno è a sacco.
La costruzione della torre ha avuto una storia tormentata ed è ben nota. Iniziò nel 1173, probabilmente sotto la direzione di Bonanno Pisano. La torre cominciò a presentare dei cedimenti durante la sua costruzione, quando questa aveva raggiunto il secondo livello, nel 1178. La fondazione si approfondiva per 3 m in un terreno poco consistente e deformabile. I lavori vennero sospesi dopo i primi cedimenti fondali. Il periodo di sosta dei lavori consentì ai terreni sottostanti di assestarsi. Circa un secolo dopo, nel 1272, i lavori di costruzione ripresero sotto la direzione di Giovanni di Simone e proseguirono fino al sesto livello.
Nel tentativo di compensare l’inclinazione, i piani aggiunti vennero costruiti fuori piombo, costruendo, con corsi a zeppe, un lato più alto dell’altro, così come si può intravedere osservando il profilo della torre. La costruzione si fermò però di nuovo nel 1284, l’anno in cui i pisani vennero sconfitti dai genovesi nella battaglia della Meloria. Il settimo livello con la cella campanaria venne finalmente completato nel 1319. La torre continuò gradualmente a inclinarsi nel tempo fino ai nostri giorni e assunse un assetto molto pericoloso (Como 1995). Un brillante intervento di consolidamento, che interessò i terreni di sedime nel pieno rispetto del monumento, venne realizzato negli anni 2000-2001 (Burland, Jamiolkowski, Viggiani 2003).
Un primo intervento di rinforzo sulle cupole
Nel Medioevo un importante intervento di rinforzo fu quello eseguito sulla cupola del duomo di Pisa. Il duomo è uno dei massimi capolavori dell’architettura romanica. Costruito tra il 12° e il 13° sec., a croce latina in cinque navate, presenta una cupola senza occhio, all’incrocio tra navate e transetto. La cupola ha pianta ellittica con il lato maggiore orientato lungo l’asse longitudinale della chiesa ed è sostenuta da un tamburo dal profilo esterno ottagonale.
La cupola deve aver presentato fessurazioni meridiane passanti. Si ritenne che queste si sarebbero ulteriormente aggravate e che avrebbero compromesso l’equilibrio della cupola. Nel 14° sec. si procedette all’esecuzione di un rinforzo di notevole rilevanza che modificò profondamente il profilo esterno della cupola. Il consolidamento medioevale consistette nella costruzione di un anello murario esterno costituito da 8 archi e pilastri coincidenti con gli angoli dell’ottagono del tamburo. Sulla spessa cornice di coronamento di questa struttura di rinforzo venne poi impostato un ordine di loggette con guglie che circonda la parte sommitale della cupola. La cerchiatura con i grandi archi determinò anche il tamponamento di una serie di aperture poste al di sotto della cupola. L’idea era quella di cinturare l’imposta della cupola con un anello costituito da una sequenza di archi in muratura caricata dal peso delle loggette e delle guglie. Si ritiene che tale tipo di intervento non abbia potuto determinare un’efficiente cerchiatura in giro alla cupola. La compressione negli archi determina, infatti, un carico radiale diretto all’esterno. Probabilmente, nonostante la fessurazione e la conseguente mobilitazione della spinta, la cupola deve aver trovato un suo nuovo assetto di equilibrio, indipendente dal rinforzo eseguito. L’intervento dimostra che all’epoca era stata comunque percepita l’idea che la cupola potesse esercitare una spinta sul tamburo.
Il Rinascimento
Il Rinascimento, epoca delle grandi sfide tecniche e delle innovazioni, della rinascita delle arti e della cultura classica, individua nell’antico la fonte di ispirazione e cerca le fondamenta del passato.
Leon Battista Alberti (1404-1472) scrisse il De re aedificatoria, il trattato di architettura considerato il manifesto dell’Umanesimo. In questo periodo venne completata l’edificazione del duomo di Firenze con la costruzione della cupola del Brunelleschi, probabilmente la più bella opera del Rinascimento.
Vi furono vasti programmi edilizi, come quello di Roma, commissionato da papa Niccolò V che utilizzò l’ingegno di Bernardo Rossellino (1409-1464) e di Alberti, e quello di Milano, che utilizzò il genio di Leonardo da Vinci (1452-1519). Nello stesso tempo vennero formulate le prime teorie statiche sull’arco. I grandi architetti del Rinascimento, da Alberti ad Andrea Palladio (1508-1580) e Sebastiano Serlio (1475-1554), fissarono i fondamenti della nuova architettura e parteciparono attivamente alla costruzione e al recupero degli edifici storici danneggiati. Non c’è ancora però in essi l’idea della conservazione come testimonianza della cultura del passato.
La riparazione di monumenti danneggiati, insieme a quella della costruzione dei nuovi, veniva inquadrata nelle regole costruttive dell’architettura del tempo. Tali regole corrispondevano ai principi del Palladio, secondo i quali la geometria della costruzione doveva essere regolata dal modulo che definiva la proporzione tra le parti e il tutto della costruzione stessa. Inoltre, la proporzionalità tra le parti ne garantiva la riproducibilità, indipendentemente dalle misure reali.
Alberti, e successivamente Raffaello (1483-1520) e Giorgio Vasari (1511-1574), si occuparono dell’influenza della geometria sulla statica dell’arco e ritennero che l’arco semicircolare fosse quello più solido rispetto agli archi a sesto acuto dei gotici. Solo considerazioni astratte, ancora aristoteliche, potevano motivare tale affermazione.
La prima riflessione scientifica scritta sulla meccanica dell’arco è quella dovuta a Leonardo da Vinci. Secondo Leonardo: «arco non è che una fortezza causata da due debolezze, imperoché l’arco negli edifizi è composto di due quarti di circulo, ciascuno debolissimo per sé, desidera cadere e ponendosi alla ruina l’uno dell’altro, le due debolezze si convertono in una unica fortezza», come riportato da Edoardo Benvenuto (2006, p. 324). Leonardo non solo fornì tale suggestiva definizione dell’arco, ma indicò anche nei suoi disegni un sistema per misurare la spinta dell’arco come riportato nel Codice Foster. Da questa concezione l’arco a tutto sesto non acquisiva nessun carattere privilegiato.
Leonardo partecipò al dibattito circa i lavori sul tiburio del duomo di Milano su cui si sarebbero poi dovute innalzare la cupola e la guglia maggiore, come mostrano gli schizzi riportati nel Codice Atlantico e nel Trivulziano. Nei primi anni del Quattrocento la struttura della crociera era rimasta incompleta e la copertura del transetto era solo provvisoria. In mancanza di connessione strutturale i piloni della croce centrale presentavano un notevole fuori piombo e tendevano a ruotare verso l’interno sotto l’azione delle spinte delle volte laterali (cfr. Fancelli 2004). Occorreva rinforzare le strutture dei pilastri centrali della croce su cui si sarebbero poi costruiti il tiburio e la cupola. Il completamento del tiburio, su progetto di Giovanni Solari (1429-1481), costituiva già di per sé un primo intervento di rinforzo. Nel 1490 i lavori di consolidamento vennero affidati a Giovanni Antonio Amadeo (1447 ca.-1522), a Gian Giacomo Dolcebuono (1440 ca.-1506) e a Francesco di Giorgio di Martino, meglio noto come Francesco di Giorgio (1439-1501). La riparazione del tiburio suscitò l’interesse di numerosi architetti e ingegneri, tra cui Donato Bramante e Leonardo. La novità dell’intervento consistette nell’ampio uso di catene di ferro che imbrigliarono i pilastri centrali della crociera e cerchiarono la cupola. I lavori di consolidamento consistettero nella costruzione di archi in pietra a sesto acuto e nella realizzazione di incatenamenti che vincolavano in testa i pilastri della crociera. Le catene vennero tese con accuratezza e racchiuse nella muratura in pietra, riportando il funzionamento statico dei piloni centrali a quello originario di carico assiale centrato (cfr. Fancelli 2004).
Catene di ferro di rinforzo vennero anche utilizzate da Filippo Brunelleschi (1377-1446) nel consolidamento degli archi della Cappella dei Pazzi in Firenze. In tal caso la necessità di sostenere la spinta di tali archi traeva origine dal fatto che una delle imposte non risultava sufficientemente vincolata. Tali interventi erano fortemente innovativi all’epoca e anticipavano i principi del consolidamento statico del futuro.
Un altro importante intervento di consolidamento fu quello che interessò la basilica di S. Marco in Venezia nel quale vennero utilizzate le cerchiature in ferro per contrastare gli effetti del mobilitarsi della spinta nelle cupole. Nelle coperture di S. Marco erano stati rilevati danneggiamenti nelle cinque cupole, e particolarmente in quella centrale in muratura, attraversata da fenditure passanti. Per questa le cause erano probabilmente dovute all’incapacità della muratura di assorbire gli sforzi di trazione nella parte bassa della cupola. Francesco e Jacopo Sansovino vennero incaricati del ripristino della cupola nel 1530. La riparazione della cupola centrale venne eseguita mediante la realizzazione di una cerchiatura di ferro (cfr. Fancelli 2004). Tale tipo di intervento introdusse l’uso di cerchiature metalliche in sostituzione dei più pesanti interventi di rinforzo e ispessimento della muratura del tamburo eseguiti per il rinforzo delle cupole, come quello, prima ricordato, che era stato eseguito circa centocinquant’anni prima sulla cupola del duomo di Pisa.
Frequenti furono inoltre nel Rinascimento gli interventi di trasformazione di edifici preesistenti. Tra questi si ricorda, per es., il restauro operato da Rossellino nella chiesa di S. Stefano Rotondo, nell’ambito del piano di rinnovamento di Roma commissionato da Niccolò V ad Alberti e a Rossellino.
La statica delle cupole in particolare veniva verificata in relazione a regole geometriche di proporzionalità tra le varie parti. Serlio, nel quinto dei suoi Sette libri dell’Architettura (1584), forniva i valori dei rapporti tra le parti costituenti le cupole e il sottostante tamburo. Le lanterne delle cupole emisferiche dovevano avere un occhio pari a 1/7 o 1/5 del diametro della cupola. Queste dovevano avere uno spessore all’imposta relazionato alla qualità del materiale con cui era costruita la struttura, andando da 1/10, se di buona qualità in mattoni, fino a 1/9 se «d’inferiore qualità». Tali rapporti, ottenuti dalla conoscenza del comportamento delle cupole del passato, venivano di regola utilizzati e si sono mantenuti fino alla fine del Seicento. Questi rapporti non furono rispettati da Michelangelo nel progetto della grande cupola di S. Pietro, una delle ultime cupole del Rinascimento, realizzata da Giacomo Della Porta (1532-1602) nel 1592. Nei secoli successivi questa cupola determinò gravi problemi e, come si vedrà più avanti, poté essere riparata dopo un ampio dibattito che investì tutto il mondo scientifico del Settecento.
Il problema di come rinforzare una costruzione soggetta a cedimenti in fondazione ha continuato a essere un ampio tema di ricerca. Leonardo si occupò della rifondazione delle mura di Pavia, in prossimità del fiume Tesino, e consolidò il terreno a mezzo di palafitte di pali, costipando preliminarmente il terreno in modo da renderlo più compatto e quindi in grado di sostenere i carichi sovrastanti. Tale intervento ha precorso i principi dell’ingegneria geotecnica.
Una sfortunata vicenda, invece, è quella dei consolidamenti effettuati nelle strutture del duomo di Pienza. La sua costruzione rientrava nell’ambito dei lavori commissionati, tra il 1459 e il 1464, a Rossellino da Pio II Piccolomini per trasformare l’antico borgo di Corsignano, suo paese di origine, in una nuova città rinascimentale, rinominata Pienza, in suo onore.
I cedimenti prodottisi nella zona absidale del duomo di Pienza erano a tutti ben noti. La vicenda della costruzione e dei relativi e continui lavori di rinforzo ebbe vasta eco ed è ancora oggi oggetto di analisi. I primi cedimenti fondali si verificarono all’inizio della costruzione. Rossellino non si preoccupò inizialmente delle fessurazioni che si formavano nelle murature attribuendole a fenomeni di rassetto. Il quadro fessurativo non si arrestò. Nel 1503, quando il cedimento nella zona absidale appariva troppo evidente, si cominciò a comprendere l’effettiva causa del fenomeno. Un terremoto avvenuto poi nel 1545 aggravò ulteriormente il danneggiamento statico delle strutture del duomo.
Interventi, costituiti da ‘cuci-scuci’ sulle murature, dalla costruzione di contrafforti e sottofondazioni, tentarono di bloccare il dissesto. Altri lavori di consolidamento vennero eseguiti nel Seicento e proseguiti per oltre cinque secoli a tutto il Novecento. A tutt’oggi il fenomeno che interessa l’area di Pienza e il suo duomo resta in parte indecifrato, anche se abbastanza ragionevolmente può essere inquadrato tra quelli che derivano dalla presenza di estese superfici di discontinuità in terreni argillosi consistenti (Calabresi 2004).
Il Barocco
Le nuove invenzioni del Barocco definirono il ruolo della tecnica costruttiva del tempo che si sviluppò però ancora al di fuori degli avanzamenti teorici della meccanica. Emersero nuovi modi per affrontare i problemi del consolidamento attraverso le cosiddette consulte che videro coinvolte più competenze tecniche e animati dibattiti.
Elemento essenziale della nuova architettura religiosa fu la cupola, sulla quale i maggiori architetti sperimentarono nuove soluzioni, fino alle ardite realizzazioni di Francesco Borromini, uno dei più significativi e originali interpreti delle tendenze dell’arte barocca. La tecnica perfezionò i propri strumenti per ottenere strutture murarie, portanti e voltate, più leggere e permeabili alla luce.
Borromini, che realizzò a Roma il suo più grande capolavoro, la chiesa di S. Ivo alla Sapienza, appartiene in pieno alla tradizione tecnica rinascimentale e, facendo a meno delle scoperte dei suoi contemporanei, fece uso dei principi intuitivi della statica rinascimentale e barocca (Bellini 2004).
In questo contesto risultano di grande interesse le dispute insorte nelle consulte tra i vari architetti circa l’interpretazione dei dissesti. Tra queste emblematica è la discussione insorta tra Carlo Fontana (1634-1714), Carlo Rainaldi (1611-1691) e Mattia de Rossi (1637-1695) circa i rimedi da applicare per riparare la cupola della chiesa di S. Maria alla Vallicella in Roma (Hager 1973).
Le antiche chiese andavano rinnovate secondo i nuovi canoni dell’architettura dell’epoca. Tali interventi interessarono principalmente l’edilizia sacra degli ordini dei mendicanti i cui spogli interni, con soffitti a capriate, dovevano essere adeguati alla moda del tempo. Gli interni a tre navate furono trasformati in spazi a navata unica con cappelle laterali, intervallando le navate minori con setti murari trasversali, come, per es., S. Francesco di Chieti.
Non sempre i lavori di trasformazione e ampliamento ebbero esito felice. Un esempio in tal senso è quello che fu avviato sulla facciata della basilica di
S. Pietro per procedere alla costruzione di due campanili. Nel 1613 si decise così di ampliare la facciata da entrambe le sue estremità per impostarvi sopra i nuovi campanili. Si dovettero così ingrandire le fondazioni della facciata e Carlo Maderno impostò le nuove fondazioni a maggiore profondità sul lato Sud per raggiungere terreni più consistenti. Ciò malgrado la facciata si fessurò. Altre importanti fessurazioni sulla facciata si svilupparono poi quando Gian Lorenzo Bernini, a partire dal 1638, iniziò la costruzione del primo campanile. I lavori vennero sospesi e, dopo la consulta con Pietro Longhi, Borromini, Virgilio Spada, dopo tante polemiche, il campanile iniziato venne smantellato (Trattato sul consolidamento, 2004).
Il restauro statico dal Settecento alla prima metà dell’Ottocento
Il consolidamento dei monumenti in questo periodo divenne un’operazione nella quale il rispetto del monumento venne a mano a mano sempre più osservato. Nel contempo si cominciarono ad applicare procedimenti razionali di analisi forniti dalla meccanica delle costruzioni che in questo periodo ricevette ulteriori nuovi sviluppi. In quanto segue si espongono soltanto le vicende di due tra i più importanti interventi di restauro eseguiti in questo periodo.
La cupola di S. Pietro in Roma
Le vicende storiche connesse all’intervento di consolidamento della cupola di S. Pietro in Roma, effettuato a metà del Settecento da Giovanni Poleni (1685-1761) e Luigi Vanvitelli (1700-1773), sono ben note (Mainstone 1999 e 2003; Di Stefano 1980). Alla morte di Michelangelo, avvenuta nel 1564, i lavori per la cupola non erano ancora iniziati. La sua costruzione, avviata diversi anni dopo sotto la direzione dell’architetto Della Porta, fu completata nel 1592 su progetto di Michelangelo.
La grande cupola vaticana ha una struttura ogivale a doppia calotta irrigidita da sedici costoloni. Le Regole generali di architetura di Serlio, che riflettevano l’arte del costruire a Roma alla fine del Cinquecento, applicate alla cupola vaticana, avrebbero richiesto uno spessore del tamburo almeno pari a 4,50 m, ben maggiore di quello effettivo, che è pari a soli 3,00 m. Tali Regole fanno però riferimento al tamburo non irrigidito da contrafforti, come è invece il caso della grande cupola vaticana.
Un quadro fessurativo nella cupola si cominciò a sviluppare dopo vari anni trascorsi dal suo completamento. A metà Settecento la grande cupola presentava un diffuso e ampio stato di dissesto e vasta era l’eco che tale situazione suscitava nel mondo scientifico e tecnico di allora. Numerose sono le descrizioni e i giudizi espressi dai vari esperti dell’epoca sul quadro fessurativo della cupola. Fra questi, incisiva è la descrizione del dissesto fornito da Saverio Brunetti (libro II delle Memorie istoriche della gran cupola del Tempio vaticano […] di Poleni, 1748) «[…] tutta la muraglia soggetta ai contrafforti piegata al di fuori, e d’aver seco portate tutte le colonne e contrafforti ed essersi dilatata la cupola, abbassato il lanternino, aperto e slargato il timpano […]». Tale descrizione corrisponde al quadro fessurativo rilevato da Vanvitelli tra il 1742 e il 1743 in una serie preziosa di elaborati grafici, riportati poi da Poleni nel suo libro Memorie istoriche […]. In questa sono evidenti le fessurazioni meridiane visibili dall’intradosso della cupola.
Le lesioni attraversavano il tamburo e si innalzavano fin quasi all’altezza dell’anello di attacco della cupola con la lanterna. La continuità dei cerchi paralleli risultava comunque completamente interrotta dalla base fino all’anello superiore di sostegno della lanterna. Il quadro fessurativo era diffuso in tante altre zone della cupola e del tamburo, investiva i sedici contrafforti e risultava effettivamente di notevole gravità.
Il più grande tempio della cristianità sembrava trovarsi in grave pericolo. L’allarme crebbe in tutta Europa e nel 1742 il papa Benedetto XIV decise di verificare la stabilità della cupola e di definire un possibile modo per rinforzarla. Chiese anzitutto a tre famosi scienziati, Thomas Le Seur, François Jacquier, dell’ordine dei minimi, e Ruggero Giuseppe Boscovich, gesuita, noti a noi come i tre Matematici, di scrivere un rapporto sullo stato della cupola. I tre avevano precedentemente pubblicato un erudito commentario sui Principia di Isaac Newton che all’epoca rivoluzionarono il mondo scientifico.
Dal rapporto dei ‘tre Matematici’ (Parere di tre matematici sopra i danni che si sono trovati nella cupola di S. Pietro sul fine dell’anno 1742, dato per ordine di N.S. Benedetto XIV, 1742), risultava che la cupola si trovava in una situazione davvero pericolosa e che erano urgenti onerosi lavori di rinforzo. Un altro rapporto, le Riflessioni, fu poi da loro pubblicato l’anno successivo. Da questo secondo rapporto venivano riportati tra l’altro pareri contrastanti: alcuni studiosi, allarmati, esprimevano le loro preoccupazioni, altri, al contrario, ritenevano la cupola sicura.
In questa controversia, Benedetto XIV decise di consultare anche un brillante studioso italiano, Poleni. Il quadro molto più ottimista prospettato da Poleni convinse il papa ad affidargli l’incarico di intraprendere i lavori di riparazione e consolidamento della cupola in collaborazione con Vanvitelli, all’epoca architetto della fabbrica di S. Pietro.
Nell’acceso dibattito tra le diverse correnti di pensiero sulla valutazione delle effettive condizioni di pericolo della cupola e sulla definizione degli interventi di rinforzo, due opposti convincimenti si erano posti a confronto. Secondo il primo, sostenuto dai ‘tre Matematici’ e da altre personalità scientifiche dell’epoca, il crollo della cupola poteva essere imminente e il restauro, da realizzare con estrema urgenza, avrebbe richiesto notevoli modifiche architettoniche dell’opera. Secondo l’altro parere, sostenuto in primo luogo da Poleni, la situazione era invece meno drammatica. I cosiddetti difetti della grande cupola potevano essere pienamente riparati con l’esecuzione di lavori meno invasivi che non avrebbero modificato l’architettura dell’opera.
I ‘tre Matematici’ ritenevano che la cupola si trovasse in una condizione statica davvero pericolosa. Nel quadro fessurativo della cupola intravedevano, infatti, l’avvio di un movimento di collasso da essi illustrato mediante un ingegnoso modello meccanico.
C’è nel Parere il pieno convincimento che la cupola, insieme all’attico e al tamburo, sia stata divisa in spicchi dalle fessure meridiane e che abbia subito un movimento con l’attico e il tamburo che ruotano all’esterno e gli spicchi di cupola che controruotano all’interno. In tal modo si sarebbe prodotto l’abbassamento del cupolino e l’allargamento della cupola. Gli interventi di consolidamento proposti dai ‘tre Matematici’ risultavano molto onerosi. Oltre a prevedere nuove cerchiature nella cupola, si dovevano rinforzare le strutture di sostegno della spinta della cupola aumentando lo spessore dei contrafforti e piazzando sulla loro sommità varie statue, in modo da aumentare le masse delle strutture contrastanti la spinta della cupola.
Poleni non accettò l’interpretazione dello stato di dissesto della cupola fornita dai ‘tre Matematici’ e non mise in correlazione la fessurazione della cupola con quelle dell’attico e del tamburo. Attribuì invece il danno a difetti dei materiali e alla costruzione male eseguita. Poleni effettuò, inoltre, una verifica statica della cupola dalla quale ritenne di ricevere conferma della non pericolosità della situazione.
Il procedimento seguito in tale analisi da Poleni, ispirato al teorema di Robert Hooke (A description of helioscopes and some other instruments, 1676) della catena rovesciata, consistette nel determinare anzitutto la configurazione di equilibrio di un filo sottoposto a carichi proporzionali al peso dei vari conci o cunei in cui, con una determinata scala delle lunghezze, egli aveva suddiviso uno spicchio di cupola, ottenuto dividendo in cinquanta parti l’intero angolo giro. La lunghezza del filo era stata fissata in modo che le sue estremità passassero, da un lato, per i baricentri delle sezioni di imposta dello spicchio e, dall’altro, per il baricentro dell’anello terminale di chiave, in corrispondenza dell’innesto della cupola nella lanterna. Rovesciando successivamente la curva di equilibrio del filo così determinata, Poleni poté verificare che la curva delle pressioni nella cupola era tutta contenuta all’interno dello spicchio di cupola, anche se si discostava dall’asse di questo. Egli allora concluse che l’equilibrio all’interno della cupola poteva sussistere in presenza di sole sollecitazioni di compressione e che quindi risultava ammissibile. In definitiva, secondo Poleni, la cupola di S. Pietro non risultava affatto in pericolo di crollo.
Poleni suggerì due tipi di interventi, di cui alcuni in accordo con le raccomandazioni dei ‘tre Matematici’. La riparazione delle fessure, considerata necessaria particolarmente per gli archi principali, poteva essere eseguita in vari modi: piazzando cunei di bronzo nelle lesioni, riempiendo leggermente la superficie interna delle lesioni allo scopo di poter inserire cunei di pietra e finalmente riempiendo le stesse con malta fine. Poleni fece realizzare, oltre alle normali riparazioni delle murature, cinque nuove cerchiature in ferro fucinato intorno alla cupola, disposte tra il 1743 e il 1744. I lavori di consolidamento statico vennero completati dall’esecuzione di una fitta rete di sarciture e di interventi di ripresa di muratura, eseguite con la sapiente tecnica del ‘cuci-scuci’. Un sesto cerchione venne poi disposto nel 1748, dopo che Vanvitelli, durante i lavori di consolidamento, aveva riscontrato che uno dei due vecchi cerchioni di ferro, disposti nella cupola all’atto della sua costruzione, era risultato spezzato.
Le strutture di contrasto originarie alla cupola, costituite dall’attico e dal tamburo, risultavano troppo deboli in relazione all’entità della spinta mobilitata dalla cupola. La stessa geometria della sezione meridiana della cupola e il pesante cupolino comportavano un’elevata azione di spinta sulle sottostanti strutture di contrasto, costituite dal tamburo e dai contrafforti, peraltro non adeguati. I contrafforti, in particolare, per la loro poco compatta geometria in pianta, avevano assunto un compito statico probabilmente non previsto da Michelangelo. La deficienza statica del tamburo venne ben riconosciuta dai ‘tre Matematici’, sia pure attraverso un modello cinematico troppo approssimato e facilmente criticabile. Poleni non colse l’effettiva pericolosità statica della situazione e fece una verifica incompleta: se avesse continuato a tracciare la curva delle pressioni nell’attico e nel sottostante tamburo avrebbe dovuto riconoscere che la curva delle pressioni sarebbe uscita all’esterno. Tuttavia, con la preziosa collaborazione di Vanvitelli, il posizionamento intorno alla cupola di sei cerchiature di ferro neutralizzò l’inadeguatezza statica del tamburo e dei contrafforti (Como 1997).
In sostanza, a parte le varie opinioni espresse e l’acceso dibattito seguito, l’intervento di consolidamento di Poleni e Vanvitelli sulla cupola, svolto nel pieno rispetto del monumento, è risultato efficace. La grande cupola vaticana mantiene così oggi la sua configurazione originaria.
Il restauro statico del Colosseo
La struttura del Colosseo, nella sua configurazione originaria, è caratterizzata da un’alta resistenza di forma che impedisce che parti della struttura possano collassare ribaltandosi all’esterno a causa delle spinte esercitate dagli archi trasversali e dalle volte ambulacrali. Anzitutto la compattezza della muratura, unitamente alla compressione trasmessa dagli archi circumferenziali dell’anello esterno, determina un’elevata azione di contrasto, per attrito, al ribaltamento all’esterno di tratti parziali di parete.
Lo stato di danneggiamento del monumento, così come si era rilevato nel 18° sec., era conseguenza di diciassette secoli di vita dell’edificio durante i quali si erano alternati periodi di uso e periodi di abbandono, intramezzati da eventi eccezionali quali incendi e terremoti che, probabilmente, determinarono crolli parziali. Nell’intera parte Sud del monumento, sia la parete esterna sia quella intermedia sono mancanti. L’esterno dell’arena è ancora ben conservato intorno a tre quarti del suo perimetro: il 50% della parete esterna manca sul lato Sud e parte del muro intermedio è stato ricostruito.
Non è chiaro come il danneggiamento del Colosseo si sia prodotto nel tempo e abbia raggiunto lo stato attuale. Il degrado potrebbe essere anche dovuto a una sistematica demolizione effettuata per ricavare materiali da costruzione (Conforto 1986; Lancaster 1998; Croci 1990; Il Colosseo, 1999; Rea, Beste, Lancaster 2002; Rota Colisei, 2002). Nessun lavoro venne eseguito fino a papa Pio VII (1800-1823). Solo successivamente Leone XII (1823-1829), Gregorio XVI (1831-1846) e Pio IX (1846-1878) promossero un lungo processo di restauro che interessò l’intero anfiteatro. C’era timore per la stabilità della parete esterna, poiché solo 39 archi verso l’Esquilino erano in piedi e si era così interrotto il bilanciamento tra spinte e controspinte nella direzione circumferenziale.
Stern, Giuseppe Palazzi e Giuseppe Camporese (1763-1822) costruirono il contrafforte verso Est, completato nel 1807, mentre Valadier costruì il contrafforte sul lato occidentale. Il contrafforte di Stern costituisce un intervento di grande originalità, esemplare nella più pura accezione del restauro statico. Il grande sperone triangolare in mattoni, la cui muratura si compenetra con quella che chiude le arcate pericolanti, congelate dall’intervento nel meccanismo di innesco del collasso, mentre svolge una fondamentale funzione statica, contemporaneamente conserva i segni del tempo e del degrado subito dal monumento.
Qualche anno dopo la realizzazione dello sperone di Stern, tra il 1823 e il 1826, l’intervento di Valadier raggiunse esiti molto diversi. Valadier fece ricostruire, in mattoni e travertino, alcune delle arcate crollate in numero via via decrescente con l’altezza, con il criterio di voler mimetizzare lo sperone con le parti originali del monumento, oltrepassando quindi il confine che distingue il restauro dalla ricostruzione. Malgrado i lavori effettuati da Stern (1806-20) e Valadier (1823-26), la parete esterna continuò a ruotare in avanti. Perciò più tardi, nel 1850, Luigi Canina (1795-1856) installò un triplo ordine di catene in corrispondenza della tredicesima arcata centrale.
Per ancorare le catene radiali alla parete superiore della parete esterna vennero ricostruiti 13 pilastri del terzo livello e un muro sopra la parete centrale. Una volta completato il muro di ancoraggio, le catene vennero posizionate in coppia allo stesso livello delle volte. Le catene poste a pavimento del terzo livello, della lunghezza di circa 16 m e costituite in due parti, poi unite da agganci, erano legate in coppia da barre orizzontali in ferro passanti attraverso gli occhielli delle stesse catene. I lavori di Canina completarono il consolidamento del Colosseo. L’intera zona centrale del muro di Nord-Est per la prima volta risultava stabilizzata. Mentre i contrafforti costruiti da Stern e Valadier recuperarono il bilanciamento delle spinte degli archi circumferenziali, le catene installate da Canina vincolarono la parete esterna in direzione radiale (Coccia, Como, Conforto, Ianniruberto 2005).
Il restauro statico dalla seconda metà dell’Ottocento a oggi
I metodi di analisi e di intervento si svolsero in continuità con quelli sviluppati nella prima metà dell’Ottocento soltanto per un primo periodo. La scoperta del cemento armato e il suo utilizzo nei progetti di consolidamento determinarono poi un grande cambiamento nei lavori di consolidamento e accesero un lungo dibattito sulla liceità di eseguire una così profonda trasformazione delle strutture preesistenti in vista di un positivo, anche se storicamente falso, effetto di insieme. Ampie critiche si sollevarono in questo contesto in seguito al restauro e alle anastilosi eseguite nel Partenone sull’Acropoli di Atene tra il 1920 e il 1930 nelle quali si utilizzò il cemento armato, determinando gravi danni a causa delle successive ossidazioni delle armature.
Il dibattito era molto acceso e lo dimostrano tra l’altro le varie Carte del restauro formulate in questo periodo e spesso contraddittorie fra loro: la Carta di Atene (1931), la Carta del restauro italiana (1931), la Carta di Venezia (1964). L’impulso a consolidare gli edifici traeva un forte impeto dall’esigenza di ricostruire tanti monumenti fortemente danneggiati dagli eventi connessi alle guerre di indipendenza e da gravi eventi tellurici.
L’impiego del cemento armato nel consolidamento statico e, successivamente, il massiccio uso, tipico del periodo attuale, di fibre di carbonio e resine epossidiche, hanno tante volte stravolto le opere oggetto del restauro. È esemplare, al contrario, il recente intervento di stabilizzazione della torre di Pisa, già precedentemente richiamato, eseguito solo sui terreni di fondazione della torre.
Il problema della realizzazione di interventi di consolidamento invasivi, che avrebbero potuto alterare la struttura e l’architettura dei monumenti, veniva inoltre esasperato dall’esigenza di proteggere questi dall’azione sismica, con l’estendersi delle aree soggette a rischio sismico. Solo in tempi recentissimi, dopo continui e ampi dibattiti (D’Agostino 2004) la nuova Direttiva del presidente del Consiglio dei ministri per la valutazione e la riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale (Gazzetta Ufficiale nr. 47 del 26 febbraio 2011, suppl. ord. nr. 54) ha cercato di proteggere i monumenti dal danno conseguente ai pesanti interventi di rinforzo antisismico.
I criteri su cui tale Direttiva è fondata sono basati sulla consapevolezza che, inserendo rinforzi che mutino radicalmente il comportamento della costruzione, talvolta richiesti per raggiungere i livelli di resistenza prescritti per gli edifici ordinari, si determini lo stravolgimento dell’identità strutturale dell’edificio originario e di conseguenza un comportamento ibrido e potenzialmente più sfavorevole di quello che si vuole evitare. Di qui l’indirizzo di incrementare e valorizzare, mediante interventi integrativi di rinforzo, le prestazioni strutturali intrinseche dell’edificio, sfruttando sistematicamente le relative risorse, tipiche della costruzione in muratura. L’utilizzo in concreto di tale Direttiva, anche se molto complessa e di non facile applicazione, potrebbe nel futuro determinare un sostanziale miglioramento degli interventi di restauro statico.
Bibliografia
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