Brevettabilità del vivente
La messa a punto e il perfezionamento delle tecniche per la manipolazione della materia vivente, sviluppatesi molto rapidamente negli ultimi decenni, lasciano intravedere molteplici applicazioni utili per l'uomo, alimentando tuttavia al tempo stesso gravi preoccupazioni di natura etica. Al di là dei dilemmi, la possibilità di brevettare le invenzioni biotecnologiche si è comunque rivelata un fattore di stimolo per la ricerca scientifica e tecnologica, soprattutto se svolta dalle industrie private, poiché ha attirato nel settore ingenti risorse umane ed economiche. Negli ultimi due decenni, la tutela della proprietà intellettuale è andata sempre più configurandosi come un sistema di norme diffuse a livello globale, tramite l'approvazione di trattati internazionali. Nelle sedi sovranazionali l'orientamento generale è stato di estendere il più possibile la tutela brevettuale anche verso campi precedentemente esclusi dalla protezione del brevetto.
La richiesta è diretta a soddisfare soprattutto i bisogni delle industrie biotecnologiche, informatiche e farmaceutiche di Paesi che hanno già acquisito una superiorità tecnologica, mentre da più parti sono state sollevate obiezioni alle richieste provenienti dall'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Tramite l'accordo TRIP (Agreement on trade related aspects of intellectual property rights), l'OMC ha fissato standard di tutela molto elevati. La normativa brevettuale ha quindi il difficile compito di bilanciare i diversi interessi in gioco, salvaguardando le imprese ma allo stesso tempo tentando di massimizzare il beneficio per la collettività. Se quindi in linea di principio non si dubita della brevettabilità delle innovazioni riguardanti il vivente, rimane da sciogliere il nodo dei limiti entro cui tale brevettabilità debba essere ammessa. I problemi sorgono anche perché le normative brevettuali sono nate in risposta ai problemi posti dalle invenzioni meccaniche, all'alba della rivoluzione industriale.
Tale quadro normativo si era in parte già evoluto in seguito alle istanze sollevate dai brevetti in ambito chimico. Tuttavia i problemi peculiari dell'ambito biologico mettono all'ordine del giorno ulteriori questioni, di natura sia tecnica che etica. La materia vivente presenta, infatti, caratteristiche che rendono difficile soddisfare i requisiti tradizionalmente necessari per la brevettabilità (novità, attività inventiva e industrialità), imponendo una ridefinizione di tali requisiti e quindi della regolamentazione delle protezioni brevettuali. Progressivamente si è prodotta una frattura nei diversi sistemi normativi. Mentre gli Stati Uniti e il Giappone conoscono una regolamentazione di gran lunga più permissiva, che aumenta notevolmente la possibilità di ottenere la copertura brevettuale e consente alle proprie imprese di dominare un mercato in continua espansione, i Paesi europei sono stati frenati da resistenze nate da istanze di carattere etico. Anche le direttive comunitarie, pur ampliando gli spazi per il rilascio del brevetto biotecnologico, risentono in una certa misura dei condizionamenti dell'etica ‒ o meglio di coloro, persone o gruppi, che si ispirano a determinati valori, dogmi e principi metagiuridici ‒ sulle scelte compiute in sede politica.
Lo sviluppo scientifico e tecnologico ha provocato un conflitto tra interessi collettivi e interessi individuali. È qui che entra in gioco il diritto, componendo i conflitti e incanalandoli verso le soluzioni più soddisfacenti per la collettività. Queste tensioni, destinate ad acuirsi insieme al progredire delle conoscenze scientifiche, si riflettono sul piano giuridico soprattutto nell'ambito del sistema brevettuale. Il brevetto, che attribuisce in esclusiva i diritti di sfruttamento di un'invenzione per un certo periodo di tempo (almeno venti anni), è considerato da molti uno strumento importante, ma sicuramente non l'unico possibile, per incentivare la ricerca scientifica e tecnologica.
Coerentemente con lo sviluppo recente del diritto riguardante i beni immateriali, anche relativamente alla materia vivente si sta procedendo nel senso dell'ampliamento della protezione, da un lato estendendo la durata temporale dei brevetti, dall'altro ampliando l'area della brevettabilità. Tali orientamenti hanno trovato un puntuale riscontro nelle sedi internazionali competenti. Di particolare importanza, per i Paesi aderenti al GATT (General agreement on tariffs and trade), è stata l'adozione, avvenuta il 15 aprile 1994 a Marrakesh, del già menzionato accordo TRIP, che fissa standard di tutela piuttosto elevati. Le spinte in questa direzione provengono essenzialmente dall'industria informatica, farmaceutica e biotecnologica, essendo ormai caduto il pregiudizio contro i brevetti delle invenzioni biotecnologiche.
Tuttavia, esiste ancora una netta divaricazione tra i diversi ordinamenti nazionali. Alcuni Paesi, come gli Stati Uniti e il Giappone, hanno norme permissive, che consentono alle industrie di raccogliere ingenti profitti, dominando il mercato mondiale. Da parte loro, i Paesi europei firmatari della Convenzione sul brevetto europeo (CBE) adottata a Monaco nel 1973 sono soggetti all'art. 53, che esclude dalla brevettabilità "le varietà vegetali o le razze animali come pure i procedimenti essenzialmente biologici per la costituzione di vegetali o di animali", mentre vi ammette "i procedimenti microbiologici" e "i prodotti ottenuti mediante questi procedimenti". I limiti posti da questa disposizione tengono conto di uno specifico humus culturale, ma sembrano aver avuto conseguenze negative per l'industria.
Emblematico delle difficoltà incontrate in Europa è il tormentato iter della direttiva comunitaria sulla protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche. Le diverse istanze hanno portato a una serie di emendamenti che limitavano la brevettabilità dei geni ‒ richiedendo per esempio la determinazione di uno specifico utilizzo. Il testo originario così emendato è stato approvato il 16 luglio 1997 dal Parlamento. Il lungo cammino, iniziato nel 1988, si è concluso con l'adozione definitiva della direttiva CE n. 98/44 del 6 luglio 1998.
La difficoltà principale che riguarda la brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche è l'inquadramento di questa particolare categoria di invenzioni all'interno delle regole che da circa un secolo governano il sistema dei brevetti, pensato in funzione delle invenzioni meccaniche. Tuttavia, l'impianto del sistema si è rivelato assai duttile, riuscendo ad adattarsi alle diverse tipologie di invenzioni.
Le tre caratteristiche ‒ novità, attività inventiva e industrialità ‒ necessarie per ottenere la protezione brevettuale non sembrano essere di ostacolo per la brevettabilità di un'invenzione riguardante la materia vivente. La novità sta a indicare il fatto che l'invenzione non deve essere compresa nell'insieme di conoscenze note. La verifica dell'attività inventiva serve ad assicurare che l'invenzione da brevettare non sia neppure implicitamente compresa nel patrimonio tecnologico comune. Infine si deve valutare la cosiddetta 'industrialità', che rappresenta la potenziale applicazione industriale dell'invenzione da brevettare. Naturalmente, sono stati necessari alcuni aggiustamenti per l'ambito biotecnologico.
Ormai quasi nessuno mette in dubbio che i trovati biotecnologici, al pari delle invenzioni inanimate, possano soddisfare i tre requisiti. Sotto il profilo dell'industrialità, è stato comunque notato che le invenzioni biotecnologiche non assicurano la riproducibilità del risultato, ma si è scelto di legare il requisito dell'industrialità alla sufficiente omogeneità e stabilità degli elementi essenziali del trovato. Le difficoltà concettuali relative all'industrialità si riflettono anche sulla descrizione del trovato, che costituisce un principio fondamentale del sistema brevettuale. Nel settore della microbiologia, tuttavia, le invenzioni implicano l'utilizzo di un microrganismo non accessibile al pubblico e non si prestano a essere descritte con chiarezza e precisione. Si è aggirato l'ostacolo depositando una coltura del microrganismo presso un centro di raccolta.
Osservando la prassi americana, dalle decisioni del Patent and Trademark Office (PTO) e delle corti di giustizia emerge una valutazione della utility nelle invenzioni biotecnologiche essenzialmente ancorata alle caratteristiche del caso concreto. I casi più frequenti di rifiuto di concessione del brevetto per carenza di utility si sono avuti per invenzioni biotecnologiche che riguardavano un trattamento terapeutico o includevano numerose utilizzazioni non dimostrate nella domanda. Il problema della nonobviousness verrà affrontato trattando la questione della brevettabilità dei geni.
Un altro problema è relativo al principio, accolto da tutti gli ordinamenti, secondo cui le scoperte, come le teorie scientifiche e i metodi matematici, non sono brevettabili. Quest'impostazione presuppone una chiara e ben definita linea di demarcazione tra scoperta e invenzione, rappresentando la prima l'individuazione di qualcosa di già esistente, anche se ignoto, mentre la seconda implica l'elaborazione di qualcosa di nuovo. Tale distinzione convenzionale è però andata sfumandosi. È stata evidenziata la contraddizione tra la scelta di ammettere la brevettabilità delle invenzioni di prodotto e quella di escludere la brevettabilità di risultati prima ignoti: si tratta infatti di risultati concettualmente simili a quelli ottenuti da chi costruisca ex novo un prodotto o una sostanza. Tuttavia, il rapporto tra scoperta e invenzione è entrato in crisi, e sembra inevitabile una riforma. Sotto la spinta di questi fermenti si va verso una restrizione delle scoperte non brevettabili, limitate ai soli casi in cui l'idea sia l'astratta intuizione di principi scientifici o di effetti potenziali o latenti.
Qualche cenno merita anche la questione relativa alla definizione dell'ambito di protezione del brevetto per le invenzioni biotecnologiche. La teoria dell'equivalenza si basa sulla seguente regola: perché si abbia contraffazione di un'invenzione industriale non è necessaria la precisa riproduzione e applicazione dell'idea inventiva in tutti i suoi elementi, ma è sufficiente che se ne attuino gli elementi essenziali e caratteristici. Occorre tener presente che nella biotecnologia non esiste un rapporto univoco tra la struttura e la funzione di un composto. Infatti, a piccole modificazioni strutturali possono corrispondere enormi differenze funzionali. L'utilizzazione del parametro dell'identità strutturale condurrebbe a una dilatazione eccessiva della tutela garantita al titolare del brevetto, frustrando l'attività di ricerca orientata all'innovazione basata sulle conoscenze preesistenti.
Nella ricerca di una soluzione, è utile richiamare la cosiddetta 'teoria inversa dell'equivalenza'. In base a essa, viene fornita protezione ai miglioramenti radicali rispetto a un prodotto brevettato che svolga una funzione uguale o simile, ma in un modo sostanzialmente diverso. In questa maniera vengono favoriti e incentivati i miglioramenti radicali. La teoria inversa dell'equivalenza è stata applicata per esempio ai brevetti sulle sequenze di segmenti di geni umani, facendo in modo che la protezione ottenuta su di esse non precluda il successivo uso delle stesse sequenze per la produzione di proteine. In questo caso, il valore dei miglioramenti apportati supererebbe di gran lunga quello dell'invenzione originaria.
Generalmente, gli studi dedicati alla brevettabilità delle invenzioni biotecnologiche presentano una suddivisione interna della materia in tre fondamentali capitoli: uno dedicato ai vegetali, un altro ai microrganismi e un terzo agli animali multicellulari. Tuttavia, si sta affermando una visione unitaria del vivente, sulla base dell'acquisita consapevolezza del fatto che il DNA costituisce il substrato comune a tutte le forme di vita. I diversi percorsi normativi seguiti riflettono d'altra parte alcune peculiarità dei tre gruppi.
Storicamente, il settore agricolo è stato il primo in cui gli istituti tipici della proprietà industriale sono venuti a contatto con la materia vivente. Sin dal 1930 il Congresso degli Stati Uniti aveva approvato il Plant patent act, che garantiva una limitata protezione per le innovazioni vegetali, offrendo la possibilità di ottenere una speciale forma di brevetto (plant patent) per la quasi totalità delle piante caratterizzate da una riproduzione asessuata. Nel 1961 a Parigi fu firmata ‒ soprattutto dai Paesi europei ‒ una convenzione internazionale che dettava una normativa uniforme per la tutela delle nuove varietà vegetali e prevedeva la costituzione dell'Union pour la Protection des Obtentions Vegetales (UPOV). Obiettivo della convenzione era quello di proteggere le varietà vegetali distinte nettamente dalle altre e sufficientemente omogenee e stabili nelle loro caratteristiche essenziali. La protezione si estendeva al materiale di riproduzione o propagazione della varietà protetta, cercando di salvaguardare anche gli interessi dell'utilizzatore non speculativo e dell'inventore successivo.
Contrariamente a quanto scelto da altri Paesi, in Italia è stata preferita la protezione brevettuale piuttosto che l'utilizzazione di privative particolari, come i certificati d'ottenimento. Nel 1970 gli Stati Uniti hanno adottato il Plant variety protection act, che non interferiva con la legislazione preesistente, perché legava solo la protezione delle varietà vegetali che si riproducono per via sessuata. Successivamente, si sono avute diverse revisioni della convenzione del 1961. Particolarmente significativa la riforma approvata a Ginevra nel 1991, con cui si è tenuto conto del progressivo abbandono delle tradizionali tecniche di selezione a beneficio dei procedimenti di manipolazione genetica. Il risultato è stato quello di rafforzare la posizione del costitutore, sia ampliando il materiale vegetale oggetto di protezione, sia dando la possibilità al costitutore di far valere i propri diritti in momenti ulteriori rispetto a quelli originariamente previsti; è stato inoltre fatto cadere il divieto della doppia protezione (con brevetto e privativa). Negli Stati Uniti, per lungo tempo il PTO ha negato la concessione di brevetti 'ordinari' per le piante. Tale orientamento è mutato soltanto nel 1985, aprendo la strada al rilascio di utility patents anche per le piante geneticamente modificate.
L'art. 53 della Convenzione di Monaco ammette la concessione di brevetti europei per i procedimenti microbiologici e per i prodotti ottenuti da tali procedimenti. Non vi è quindi mai stato dubbio circa la brevettabilità dei procedimenti industriali che prevedessero l'impiego di microrganismi. Più problematico era far rientrare nella disposizione la produzione di nuovi microrganismi e, soprattutto, i microrganismi in quanto tali, quali prodotti ottenuti tramite procedimenti microbiologici. Non dissimile era il tenore del dibattito negli Stati Uniti, fino a quando nel 1980 intervenne la Corte suprema, la quale nella celebre decisione del caso Diamond versus Chakrabarty si espresse favorevolmente sulla brevettabilità di un batterio geneticamente alterato, introducendo il principio secondo cui la materia vivente può essere oggetto di brevetto se nella sua produzione si sia verificato un intervento umano.
Negli anni seguenti anche l'Ufficio Brevetti Europeo si è allineato a questo orientamento. In Italia il Tribunale di Milano, con l'ordinanza emessa nel corso di un procedimento sulla validità di un brevetto concernente kit e metodi immunodiagnostici e vaccini contro il virus dell'epatite C, ha affermato che non vi sono motivi per non estendere la brevettabilità al procedimento e al prodotto virale. Va osservato come, ai fini della brevettabilità, sia lo stesso concetto di 'microrganismo' a essere interpretato in maniera estensiva; in tal modo, finiscono per rientrarvi, accanto a batteri, virus, plasmidi e sequenze di DNA, persino cellule e colture cellulari.
Problemi ancora maggiori, giuridici ma anche etici, suscita la brevettabilità degli animali cosiddetti 'superiori'. Basti pensare allo scalpore suscitato presso l'opinione pubblica dalla clonazione della pecora Dolly, in relazione a cui è stata chiesta e ottenuta la protezione brevettuale per i procedimenti utilizzati. A differenza di quanto accade per i microrganismi, la CBE lascia pochi margini alla brevettabilità degli animali multicellulari, esclu-_dendo la concessione di brevetti per le razze animali nonché per i procedimenti essenzialmente biologici per la costituzione di animali.
Tuttavia, l'Ufficio Brevetti Europeo il 3 ottobre 1990 ha di fatto rivoluzionato questa interpretazione, riconoscendo la brevettabilità dell'oncomouse (un roditore nelle cui cellule era stata inserita una sequenza oncogena), dopo che il brevetto era già stato rilasciato negli Stati Uniti, in Giappone e in Australia. La commissione che ha deciso il caso ha sostenuto che l'art. 53 esclude dalla tutela brevettuale solo alcune categorie di animali e che il divieto non riguarda un animale geneticamente modificato, se i vantaggi derivanti dall'invenzione per il genere umano sono maggiori delle possibili sofferenze e rischi ambientali. Si è quindi aggirato il divieto in via interpretativa, facendo leva sull'ammissibilità dei brevetti per prodotti ottenuti con procedimenti microbiologici, considerando tale la modificazione del DNA necessaria per mutare geneticamente un animale.
Ben diversa si presenta la situazione negli Stati Uniti, dove ha prevalso un orientamento favorevole alla brevettabilità di animali multicellulari. Il legislatore americano ha inteso rendere più agevole l'ottenimento della tutela brevettuale per quello che viene definito biotechnological process, giungendo ad accomunare gli organismi unicellulari e pluricellulari. Infatti nell'ambito della definizione normativa ricadono: i procedimenti rivolti a modificare geneticamente un organismo unicellulare o multicellulare; le procedure di fusione cellulare generanti una linea cellulare che esprima una specifica proteina; i metodi di utilizzazione di un prodotto ottenuto con uno dei procedimenti sopra descritti o con una combinazione di essi.
Da notare, inoltre, che l'art. 27.3 dell'accordo TRIP attribuisce solo la facoltà, ma non sancisce l'obbligo, di escludere dalla brevettabilità piante e animali, mentre impedisce il divieto di concessione di brevetti relativi ai microrganismi e ai processi non biologici o microbiologici per la produzione di piante e animali. La direttiva europea del 1998 si propone anch'essa di ampliare la tutela brevettuale per gli animali, escludendo la brevettabilità delle varietà di animali e dei procedimenti essenzialmente biologici per la produzione di animali, definendo questi ultimi come 'procedure basate sull'incrocio o sulla selezione'. Si è quindi pervenuti a una formulazione secondo cui le invenzioni che concernono gli animali sono brevettabili se la loro praticabilità non è tecnicamente limitata a una particolare varietà di animali.
L'ultima frontiera della brevettabilità, specialmente nei più avanzati Paesi extraeuropei, riguarda il DNA e i geni. La brevettabilità del DNA si è trovata a dover fare i conti con la barriera della nonobviousness, requisito che si è rivelato centrale per la concessione dei brevetti in tutta l'area biotecnologica. Le precedenti regole per stabilire l'ovvietà di un'invenzione si sono rivelate inadatte al campo della biotecnologia, soprattutto con riferimento ai brevetti di procedimento, dato che i procedimenti impiegati dipendono spesso da metodologie standard applicate a nuovi problemi. Il dibattito che ne è scaturito ha portato a una serie di decisioni negative del PTO, superate con il Biotechnology process patent act del 1995, che prevede la protezione purché il procedimento da brevettare utilizzi o produca un composto nuovo e non ovvio. La giustificazione addotta per tale provvedimento ‒ di fronte al rischio di monopoli ‒ è la tutela delle industrie americane nei confronti dei concorrenti nipponici.
Tornando alla brevettabilità del DNA, si ritrova il problema della somiglianza strutturale: una lieve modifica nella sequenza può determinare significative modifiche funzionali. Di conseguenza, la dottrina dell'equivalenza non è appropriata alla peculiare relazione DNA-proteina codificata, relazione in cui risiede il reale valore del brevetto. Queste conclusioni sono avversate da chi ritiene che in tal modo la bilancia penda troppo a favore delle industrie biotecnologiche. I criteri con i quali vengono concessi i brevetti sui geni sono contestati anche perché la protezione garantita dal PTO è estremamente remunerativa per i titolari dei brevetti. Ciò ha scatenato una caccia al gene, con uno spreco di risorse derivante dalla sovrapposizione di numerose iniziative di ricerca convergenti sul medesimo obiettivo, pur sapendo che una sola di esse è destinata a essere premiata con il brevetto. Questi sprechi si eviterebbero con l'imposizione di limiti più severi alla concessione dei brevetti sui geni, minimizzando i costi sociali complessivi e le risorse impiegate per il miglioramento dell'invenzione. Una soluzione alternativa, anche se meno efficace, potrebbe essere quella di accordare la protezione brevettuale soltanto ai procedimenti per l'ottenimento dei geni, escludendola per i geni stessi. Dal momento che il brevetto di procedimento offre una tutela meno estesa rispetto a un brevetto di prodotto, vi sarebbe una minore competizione nella fase pionieristica, ma si determinerebbe comunque una competizione per la scoperta di procedimenti alternativi per identificare e sequenziare i geni.
L'art. 53 della CBE vieta la concessione di brevetti per le invenzioni la cui pubblicazione o la cui attuazione sarebbero contrarie all'ordine pubblico o al buon costume. Tuttavia, per ritenere l'attuazione di un'invenzione contraria all'ordine pubblico o al buon costume non basta la sola circostanza che essa sia vietata in tutti gli Stati contraenti o in parte di essi da una disposizione legale o amministrativa. Il riferimento a tali concetti è presente, sia pure in termini diversi, anche nell'accordo TRIP. L'art. 27.2 dell'accordo è frutto di un evidente compromesso tra la posizione (sostenuta da Stati Uniti, Giappone, Svizzera e Paesi dell'Europa settentrionale) di chi premeva affinché non fossero sancite eccezioni alla brevettabilità, e quella (sostenuta dall'Unione Europea e da un gruppo di Paesi in via di sviluppo) di chi intendeva riaffermare il tradizionale limite dell'ordine pubblico. Ancora una volta, infatti, l'Organizzazione Mondiale del Commercio prevede soltanto la facoltà di escludere dalle invenzioni brevettabili quelle per le quali il divieto di sfruttamento commerciale nel loro territorio sia necessario per tutelare in particolare la vita o la salute dell'uomo, degli animali o delle piante, o per evitare il verificarsi di un grave pregiudizio per l'ambiente.
Si riconosce, dunque, che determinate invenzioni possono essere escluse da ogni forma di protezione, in nome di valori che prescindono da una logica strettamente brevettuale. I concetti di 'ordine pubblico' e 'buon costume' mantengono sempre una connotazione di vaghezza e di indeterminatezza, per cui hanno bisogno di essere riempiti di contenuto concreto in sede di interpretazione e di applicazione. A tale proposito, le linee guida dell'UEB cercano di fornire ulteriori parametri esplicativi, trattando di concessione dei brevetti che risulterebbero inconcepibili o aberranti per il pubblico; peraltro, anche tali nozioni lasciano all'interprete ampi margini di discrezionalità. Sempre nelle linee guida si segnala l'eventualità che alcune invenzioni possano avere più attuazioni, alcune lecite e altre no.
L'attenzione posta sulle nozioni di ordine pubblico e buon costume conduce fatalmente ad affrontare le problematiche di carattere etico. Nel campo biotecnologico, a parte le posizioni più estremistiche (e in odore di oscurantismo) di chiusura a priori nei riguardi della brevettabilità del vivente in ogni sua forma e manifestazione, le questioni etiche più delicate si pongono con riferimento agli animali e, in particolare, all'essere umano. Un discorso a parte meritano le innovazioni vegetali, rispetto alle quali i maggiori problemi si appuntano soprattutto su aspetti di etica ambientale e sociale. È stato avvertito, infatti, il rischio che una incontrollata diffusione delle tecniche di manipolazione genetica in agricoltura possa condurre ad aggravare lo squilibrio fra gli Stati ricchi, detentori di tecnologie, e quelli in via di sviluppo, la cui principale risorsa consiste nel possedere una gran quantità di varietà vegetali spontanee. La materia è ora regolata a livello internazionale dalla Convenzione sulla biodiversità, approvata dalla Conferenza sull'ambiente e lo sviluppo tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. Gli Stati contraenti si sono impegnati a favorire l'accesso alle risorse genetiche per usi razionali da un punto di vista ecologico e ad agevolare l'accesso alle tecnologie necessarie per la conservazione e l'uso durevole della diversità biologica. Le istanze etiche si traducono per lo più nel richiamo a principî di ampia portata (quali la tolleranza o la dignità umana), ma sono spesso affiancate dall'imposizione di specifici divieti, volti a definire con maggiore precisione i limiti alla liceità dei brevetti concernenti le biotecnologie e gli organismi viventi.
Quanto alla direttiva comunitaria sulla protezione delle biotecnologie, va detto che la parte più cospicua degli ostacoli è legata proprio all'esigenza di sancire l'esclusione di determinati procedimenti e prodotti ottenibili con le biotecnologie. L'elenco delle esclusioni si è così arricchito, comprendendo i procedimenti per la clonazione umana, i metodi che prevedono l'utilizzazione di embrioni umani, i procedimenti per modificare geneticamente gli animali (che infliggono sofferenze senza alcun beneficio medico sostanziale), nonché gli animali ottenuti con tali procedimenti. Si afferma, poi, il divieto della brevettabilità del corpo umano e della semplice scoperta di uno dei suoi elementi, incluse le sequenze dei geni, lasciando spazio soltanto alla brevettazione di elementi isolati dal corpo umano o altrimenti prodotti con un processo tecnico.
Sullo scenario della brevettabilità del vivente si fronteggiano, dunque, varie concezioni che, semplificando, possono aggregarsi intorno a due poli contrapposti. Da una parte vi sono le posizioni che intendono imporre limiti stringenti, se non addirittura soffocanti, all'utilizzazione dello strumento brevettuale. Sul fronte opposto si schiera il mercato che, da solo o quasi, esercita una pressione fortissima per l'abbattimento di tutte le barriere contro il pieno sfruttamento commerciale delle innovazioni biotecnologiche. D'altronde, anche gli scienziati hanno bisogno del mercato per avere i fondi per la ricerca, specie laddove l'intervento statale è carente.
L'operatore del diritto ambirebbe a incunearsi nel mezzo di questo conflitto epocale, per tentare un'impervia opera di mediazione. Constatato che la disciplina giuridica del brevetto non pone preclusioni assolute, e sempre che non si voglia contestare il fondamento stesso di tale disciplina, ci si rende conto che il ruolo del giurista, specialmente nel contesto europeo, tende a essere marginalizzato, poiché il conflitto non è basato su parametri desumibili dall'ordinamento giuridico. Con la rilevante eccezione degli Stati Uniti, dove si assiste alla 'giuridicizzazione' delle questioni etiche, dibattute nelle corti di ogni ordine e grado, il confronto si svolge prevalentemente sul piano della elaborazione del quadro normativo di riferimento. Quando il legislatore apre spiragli, più o meno consistenti, nella direzione della concessione del brevetto, la posizione dell'etica riemerge con la creazione di appositi comitati, ai quali vengono specificamente attribuite funzioni consultive del Parlamento europeo, ma che verosimilmente sembrano destinate a svolgere un ruolo di sorveglianza, per evitare che le maglie della brevettabilità si allarghino a dismisura.
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