Brexit
L’esito del referendum britannico del 23 giugno 2016 ha posto per la prima volta l’Unione europea dinanzi alla prospettiva che uno fra i suoi Stati membri (e la quinta economia mondiale) abbandoni il progetto di unificazione politica avviato nel dopoguerra. La Brexit (Britain Exit) implica tuttavia due paradossi che rendono incerta nei tempi, e non favorevole negli esiti, l’operazione. In primo luogo il recesso si configura come l’imprevista conclusione di una scommessa politica del governo conservatore giocata sul tavolo europeo. Sin dall’inizio del 2013 il “fantasma” della Brexit era stato agitato dal Primo Ministro David Cameron presso le cancellerie europee per ottenere nuovi e più favorevoli condizioni di appartenenza all’Unione. L’accordo infine raggiunto è stato però vanificato dal risultato negativo del referendum. Il Primo Ministro ha pertanto rassegnato le dimissioni. In secondo luogo la Brexit potrà avere ripercussioni economiche (e sociali) assai pregiudizievoli per il Regno Unito. Le esportazioni britanniche rischiano di scontare gravi difficoltà competitive sul mercato unico europeo, il più ampio mercato mondiale dei beni e dei servizi. Per “limitare i danni” il Regno Unito, una volta effettuato il recesso, dovrà tentare di recuperare sul piano convenzionale almeno parte dei vantaggi di cui gode attualmente in quanto Stato membro dell’Unione.
Il 23 giugno 2016 la consultazione popolare, indetta dal Parlamento britannico con lo European Union Referendum Act 2015, s’è conclusa con la vittoria dei sostenitori del recesso dall’Unione europea: ha barrato la dicitura “Leave the European Union” il 51,89% dei cittadini britannici partecipanti. Il referendum ha comportato una divisone del Regno Unito in senso politico e territoriale: delle quattro entità che formano il Paese, Inghilterra e Galles hanno assicurato la vittoria del “Leave”, Irlanda del Nord e Scozia hanno dato preferenza al “Remain”. Al risultato del referendum hanno fatto seguito sommovimenti nei mercati finanziari e a livello sociopolitico (Lazowski, A., Brexit Referendum: Beginning of the End or Just a Turning Point?, reperibile on line).
L’esito della consultazione non era, a dire il vero, del tutto inaspettato.
In un famoso discorso sull’Europa pronunciato il 22 gennaio 2013 il Primo Ministro britannico David Cameron aveva sottolineato che «il consenso democratico per l’Unione in Gran Bretagna è sottile come un wafer». In caso di conferma elettorale del partito conservatore alle elezioni generali del 2015, Cameron preannunciava l’organizzazione di una consultazione popolare, preceduta da un negoziato con i partner europei, allo scopo di sedare le preoccupazioni del popolo britannico. La linea ispiratrice delle trattative era più volte evocata nel discorso: l’integrazione europea è, per il Regno Unito, uno strumento per assicurare la prosperità del continente, non un fine in sé; l’interesse del Regno Unito per il mercato unico europeo e per le regole che lo disciplinano costituisce la principale ragione della sua partecipazione all’Unione europea. In tale prospettiva il referendum avrebbe fornito la “leva politica” per ottenere dai partner europei garanzie di flessibilità e di autonomia rafforzate a beneficio di tale Stato membro, nonché concreti impegni verso un’evoluzione in senso liberistico del diritto dell’Unione. Con riguardo particolare alle misure di flessibilità, il Regno Unito chiedeva che la nascente unione bancaria, necessaria a garantire la stabilità dell’Eurozona, non sfavorisse in alcun modo il sistema della sterlina né gli operatori britannici; rivendicava un’esenzione dal fine politico dell’integrazione europea, consistente nella «unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa» (art. 1, co. 2, TUE). Chiedeva infine di fruire di deroghe temporanee in materia di libera circolazione delle persone, volte a limitare l’accesso al welfare nazionale dei cittadini di altri Stati membri e il loro diritto di “esportare” le prestazioni familiari non contributive conseguite nel Regno Unito (lettera del Primo Ministro britannico al presidente del Consiglio europeo su una nuova intesa per il Regno Unito in una Unione europea riformata, 10.11.2015, reperibile on line). Le richieste britanniche, pur suscettibili di indebolire i fondamenti federalisti del progetto europeo, hanno trovato l’assenso degli Stati membri e la disponibilità politica della Commissione. Sono raccolte nella decisione dei Capi di Stato e di Governo dei 28 Stati membri concernente una nuova intesa per il Regno Unito nell’Unione europea (la decisione compare come allegato I alle conclusioni del Consiglio europeo riunitosi a Bruxelles il 18 e il 19 febbraio 2016). La decisione si qualifica come un atto vincolante la cui efficacia è subordinata alla decisione del Regno Unito «di restare membro dell’Unione europea» (punto 1.2, punto 1.3, iv, e punto 1.4 delle conclusioni).
L’operazione, dopo anni di campagna mediatica antieuropea, non è tuttavia bastata a rassicurare l’elettorato. Il Consiglio europeo ha dunque ricevuto “informazione” degli esiti del referendum (conclusioni del Consiglio europeo di Bruxelles del 28.6.2016, punto 23), ha preso atto con rammarico, in composizione ristretta, di tale risultato (Dichiarazione dei Capi di Stato e di Governo dei 27 Stati membri assieme al Presidente del Consiglio europeo e al Presidente della Commissione, a seguito della riunione informale di Bruxelles, 29.6.2016, punti 1 e ss.) e, sempre in composizione ristretta, ha adottato una Dichiarazione sul processo da seguire per rilanciare l’Unione europea (Dichiarazione di Bratislava, 16.9.2016).
L’esito della consultazione popolare ha avuto nei media, presso le diplomazie nazionali e gli ambienti economici un enorme impatto politico e simbolico. Ma non produce di per sé effetti giuridici sul piano europeo: i Trattati (in particolare gli art. 2 e 10 ss. TUE) non assegnano rilevanza alle elezioni o alle consultazioni popolari nazionali.
La decisione di recesso è pur sempre decisione politica spettante al governo che rappresenta a livello europeo lo Stato membro (Hillion, C., Accession and Withdrawal in the Law of the European Union, in Arnull, A.Chalmers, D., a cura di, European Union Law, Oxford, 2015, 126, 136137). Il quadro giuridico entro cui valutare la decisione sul recesso è, per converso, fornito dall’art. 50 TUE, introdotto dal Trattato di Lisbona e mai sinora applicato. Vi è ampia convergenza sulla tesi per cui la norma abilita ciascuno Stato membro a un recesso unilaterale (sebbene sia auspicabile, per l’Unione e lo Stato interessato, addivenire a un recesso concordato). La delibera sul recesso dall’Unione europea può essere liberamente assunta da ciascuno Stato membro «conformemente alle proprie norme costituzionali». Allo Stato spetta attivare la procedura mediante “notifica”, rivolta al Consiglio europeo, della decisione di recedere (art. 50, par. 1 e 2). Al momento in cui si scrive il governo britannico non ha ancora effettuato tale passo (preannunciando che esso potrà intervenire entro marzo 2017). Si è piuttosto limitato a comunicare l’esito del referendum e ad apprestare, sul piano europeo e interno, talune misure preparatorie.
L’art. 50 stabilisce una scarna disciplina procedurale. Le modalità del recesso dovrebbero essere regolate da un accordo di recesso concluso dall’Unione con lo Stato membro interessato. Il negoziato si svolge «alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo» e «tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione». L’Unione è rappresentata nei negoziati dalla Commissione. L’accordo è stipulato dal Consiglio a maggioranza qualificata, previa approvazione del Parlamento europeo (art. 50, par. 2). Non è prevista la partecipazione degli Stati membri alla sua conclusione. Ove la via del recesso concordato non risulti praticabile, le conseguenze del recesso saranno disciplinate unilateralmente dall’Unione e dallo Stato che recede. È previsto che il recesso si perfezioni (con conseguente inapplicabilità del diritto dell’Unione) al momento dell’entrata in vigore dell’accordo sul recesso o, in via residuale, dopo due anni dalla notifica. Il termine biennale può essere prorogato dal Consiglio europeo, che decide all’unanimità previa intesa con lo Stato che recede (art. 50, par. 3). Al fine di scongiurare conflitti di interesse, durante tale periodo i rappresentanti dello Stato che recede non partecipano alle deliberazioni del Consiglio europeo e del Consiglio «che lo riguardano» (art. 50, par. 4). A conclusione della procedura lo Stato che ha receduto non gode di alcuna corsia preferenziale, configurandosi a tutti gli effetti come Stato terzo. In caso di “ripensamento” dovrà attivare la gravosa procedura di adesione prevista dall’art. 49 TUE (art. 50, par. 5).
L’art. 50 TUE lascia ampio spazio alle scelte politiche delle parti coinvolte. Snodi di notevole rilevanza pratica sono lasciati in ombra. Conviene qui di seguito accennarvi. In primo luogo è dubbio se l’art. 50 TUE imponga implicitamente allo Stato membro un termine per effettuare la notifica della decisione sul recesso assunta in conformità al diritto interno. Nel rispetto del principio di leale cooperazione (art. 4, par. 3, TUE) e del principio di certezza del diritto, può ammettersi che lo Stato membro sia tenuto ad effettuare detta notifica entro un termine ragionevole, da valutarsi alla luce del suo diritto interno. Più difficilmente potrebbe ritenersi che una protratta inerzia nel dichiarare la decisione sul recesso equivalga a rinuncia ad avvalersi dell’art. 50 TUE. Nel caso del Regno Unito si può addirittura dubitare che una decisione sul recesso sia stata validamente adottata. Sono infatti pendenti procedimenti giudiziari relativi all’individuazione degli organi (Governo, o Governo e Parlamento assieme) costituzionalmente abilitati ad assumere detta decisione. La High Court d’Inghilterra e del Galles ha recentemente sancito che la competenza del Governo britannico nella gestione dei rapporti internazionali incontra un limite specifico quando si tratta di azionare l’art. 50, par. 2, TUE. Il recesso è suscettibile di vanificare i diritti che l’ordinamento dell’Unione conferisce direttamente ai singoli, come conseguenza della legge di adeguamento al diritto europeo adottata nel 1972 (lo European Community Act). Esso dunque interferisce nella competenza (legislativa) esclusiva del parlamento britannico. L’attivazione dell’art. 50 TUE esige una previa autorizzazione parlamentare, che non è al momento ravvisabile (v. High Court of Justice, 3.11.2016, Gina Miller v. the Secretary of State for Exiting the European Union, par. 7680 e 9596; in senso contrario High Court of Justice in Northern Ireland, 28.10.2016, McCord’s (Raymond) Application [2016] NIQB 85).
In secondo luogo non è chiaro se l’avvio del procedimento di recesso è reversibile. Si tratta di uno snodo assai rilevante per la formalizzazione della decisione di recesso. La High Court nella sentenza del 13.11.2016, citata, ha sancito che la decisione sul recesso, una volta manifestata, non possa essere né revocata né assortita di condizioni. Ma si tratta di una ricostruzione eccessivamente rigida, che non tiene conto dell’ampia discrezionalità di cui gode lo Stato interessato. Essa presuppone che, a partire dalla sua manifestazione al Consiglio europeo, la volontà di recedere sia per così dire cristallizzata. Sebbene le conseguenze politiche, sul piano europeo e interno, possano risultare gravose, l’art. 50 non preclude, sino al perfezionamento del recesso, la revoca della notifica iniziale.
In terzo luogo l’art. 50 TUE non specifica il contenuto dell’accordo di recesso. Non chiarisce, in particolare, se questo potrà disciplinare i futuri rapporti dello Stato interessato con l’Unione. Salva la discrezionalità delle Parti coinvolte, i termini impiegati (l’accordo è inteso a definire “le modalità del recesso”), i tempi previsti (due anni prorogabili), e la mancata previsione del coinvolgimento degli Stati membri, lasciano ritenere che l’accordo sul recesso ha un contenuto circoscritto, in principio, ai profili tecnici di carattere istituzionale, inclusi i periodi transitori necessari a perfezionare la separazione, ed eventualmente ai profili di carattere materiale, come la disciplina dei diritti quesiti dei cittadini degli Stati membri stabiliti nel Regno Unito, e dei cittadini britannici stabiliti nel territorio dell’Unione dopo la separazione. Ne consegue che l’accordo di recesso non è autosufficiente, dovendo essere integrato, oltre che da un accordo fra Stati membri (senza il Regno Unito) sulla modifica dei Trattati (cd. housekeeping agreement), da un ulteriore accordo concluso fra l’Unione e il Regno Unito in qualità di Stato terzo (cfr. House of Lords, The process of withdrawing from the European Union, 4.5.2016, reperibile on line). Quest’ultimo assume una rilevanza cruciale nel caso della Brexit. Posto che l’economia del Regno Unito è in gran parte dipendente dalle esportazioni di beni e di servizi nel mercato unico europeo (e, attraverso gli accordi di libero scambio conclusi dall’Unione, nei mercati esteri), il recesso sembra dipendere politicamente anche dal quadro delle future relazioni convenzionali che saranno concordate con l’Unione e i suoi Stati membri, sulle quali il governo britannico ha già tentato di avviare negoziati informali preventivi (al momento senza successo: v. punto 4 della Dichiarazione del 29.6.2016, citata). Nella verosimile ipotesi che tale accordo si caratterizzi, in ragione della sua ampiezza, come un accordo cd. misto (per esempio un accordo di cooperazione o d’associazione) le possibilità del Regno Unito di ottenere, in tempi ragionevoli, un accesso al mercato unico europeo limitato alla circolazione dei beni e dei servizi, con riserva della libera circolazione delle persone, si riducono (cfr. ampiamente Piris, J.C., Which Options Would be Available to the United Kingdom in Case of Withdrawal from the EU?, reperibile on line). Gli accordi misti attribuiscono, infatti, a ogni Stato membro una sorta di diritto di veto; pongono dunque l’esigenza d’individuare una composizione globale di interessi (cd. package deal) fra tutti gli Stati membri, compresi quelli da cui provengono i cittadini cd. in uscita esercenti attività economiche nel Regno Unito. Le esperienze recenti dell’accordo con il Canada (CETA) e con gli Stati Uniti (TTIP) non rassicurano sulla possibilità di concludere (celermente) transazioni di tal genere.
Il recesso del Regno Unito dall’Unione solleva notevoli incognite di ordine non solo politico ed economico ma anche giuridico. Secondo la House of Lords il “divorzio”, e soprattutto l’instaurazione di nuove relazioni con l’Unione, costituiscono il compito amministrativo e diplomatico più complesso cui il Governo britannico sarà confrontato a far tempo dal secondo conflitto mondiale (House of Lords, Scrutinising Brexit: the role of Parliament, 22.7.2016, reperibile on line, punto 30). Si tratta di una valutazione appropriata. La Brexit, presentata come attuazione unilaterale della volontà sovrana del popolo britannico è destinata a implicare un processo convenzionale complesso e incerto negli esiti.
Il suo perfezionamento non dipende solo da logiche intergovernative, ossia dall’accordo fra Stati membri (e istituzioni dove questi sono rappresentati). Il coinvolgimento del Parlamento europeo, in particolare la necessaria approvazione parlamentare dell’esito delle trattative (art. 50, par. 2), potrebbe determinare ulteriori “scogli” o sorprese. Sulle oscurità dell’art. 50 TUE potrebbe essere, altresì, attivata la competenza consultiva o pregiudiziale della Corte di giustizia dell’Unione (quest’ultima, ad esempio, nell’ambito degli sviluppi del contenzioso relativo alla legittimità della decisione di recesso). Non è dunque escluso che le difficoltà procedurali del recesso e, ancor più, una valutazione negativa della sua “convenienza”, possano indurre il Regno Unito a desistere. Il mutamento di prospettiva potrebbe dipendere da vari fattori, alcuni interni (per esempio le difficoltà derivanti dal coinvolgimento del parlamento britannico, una crisi politica, ecc.) altri internazionali. Tra questi ultimi l’intransigenza mostrata dai partner europei nell’escludere una soluzione preferenziale o agevolata del recesso (la cd. “Soft Brexit”) e la conseguente difficoltà nell’ottenere un accesso mirato o selettivo alle opportunità del mercato europeo, vitale per l’economia britannica; infine gli ostacoli nel ricostruire un modello dei futuri rapporti con l’Europa che risulti preferibile alla piena partecipazione all’Unione. In proposito un recente studio promosso dal governo britannico mette in guardia affermando che, dopo il recesso, «sarà arduo anche approssimarsi a replicare il grado di accesso e di influenza di cui il Regno Unito attualmente beneficia, come risultato del suo status speciale in seno all’Unione» (Alternatives to membership: possible models for the United Kingdom outside the European Union, marzo 2016, reperibile on line, punto 4.2). Se tale prognosi fosse confermata perseguire il recesso risulterebbe in contrasto con l’interesse generale dello stesso Regno Unito. La rinuncia alla Brexit dovrebbe nondimeno essere sottoposta, nel rispetto del principio di democrazia, a un nuovo scrutinio popolare. Il Regno Unito potrebbe allora ottenere conferma delle concessioni deliberate dai Capi di Stato e di Governo in occasione della riunione del Consiglio europeo del 19 febbraio 2016, come elemento per facilitare un “ripensamento” dell’elettorato. In alternativa il Consiglio europeo potrebbe recuperare, sul piano politico, alcuni dei temi di riforma proposti dal Regno Unito (la dichiarazione di Bratislava, adottata senza il rappresentante del Regno Unito, tiene conto delle preoccupazioni britanniche circa il completamento del mercato unico). La giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione, che ha recentemente circoscritto, mediante interpretazione dei Trattati, i diritti derivanti dalla libera circolazione delle persone, nel senso auspicato (anche) dal Regno Unito (esempio: C. giust., 14.6.2016, causa C308/14, Commissione c. Regno Unito) sembra costituire un ulteriore contributo in tale direzione.