Vedi BRONZO dell'anno: 1959 - 1994
BRONZO (v. vol. II, p. 182)
Tecnica della fusione. - Gli studi sulle antiche tecniche dei grandi b. hanno subito un notevole incremento dopo l'acquisizione di nuovi importanti reperti (b. di Riace, b. di Porticello, b. Getty, Augusto di Atene) e grazie al restauro di monumenti minacciati dall'inquinamento delle città moderne (cavalli di S. Marco, Marco Aurelio).
Alcune grandi mostre dall'inizio degli anni Ottanta hanno messo in prima linea più che il lato storico-artistico, l'aspetto archeometrico degli studi e in particolare le indagini sulle antiche tecniche di lavorazione (I cavalli di S. Marco, Venezia 1977, 1981; I bronzi di Riace, Firenze 1981; Bronzi dorati da Cartoceto, Firenze 1987).
L'esame delle superfici esterne durante i lunghi lavori di restauro, lo studio delle zone interne, reso possibile anche grazie all'applicazione di moderne tecnologie (radiografia, tomografia, endoscopia), nonché le analisi dei materiali (leghe metalliche, terre di fusione), hanno contribuito a chiarire molti aspetti delle tecnologie esecutive. D'altra parte si è avuta anche una crescita di interesse per i resti archeologici di antiche officine e fonderie. Ciò ha permesso di integrare le conoscenze ricavate dai prodotti finiti con quelle su metodi e strumenti impiegati nella colata del metallo. Il quadro generale che risulta dall'insieme di questi studi, ha ribaltato in gran parte alcune teorie finora ampiamente accettate dagli studiosi, diffuse soprattutto da Kurt Kluge negli anni Venti (Die antiken Grossbronzen, I, Berlino-Lipsia 1927). Kluge immaginava uno sviluppo in tre fasi della tecnica statuaria in b.: una prima fase greco-arcaica in cui le forme di fusione sarebbero state ricavate da modelli di legno, una seconda fase in età classica in cui si sarebbe usata la tecnica diretta della cera perduta, una terza fase, quella della tecnica indiretta della cera perduta, usata soprattutto in età romana per produrre copie. Inoltre, sempre in età romana, si sarebbe applicata una tecnica di fusione a pezzi separati in sabbia per una produzione di tipo industriale.
In realtà la tecnica a cera persa è stata l'unica a essere adottata nel mondo greco-romano per la fusione dei grandi bronzi. Mentre la tecnica diretta (modello approssimativo in terra, copertura in cera) è attestata in età tardo-arcaica, quella indiretta (negativi ausiliari da modello originario, anima di fusione in terra immessa dentro i negativi foderati con strato di cera) esiste già per i b. di stile severo e continua a essere applicata per tutta l'antichità. Anche i b. descritti come opere fuse in staffe a sabbia, risultano costruiti con l'usuale tecnica a cera persa indiretta.
La testa in b. di età tardo-arcaica da Citera dell'Antikenmuseum di Berlino rappresenta un esempio di fusione a cera perduta col metodo diretto. L'anima di terra è costituita da una massa centrale più grossolana resa magra con aggiunta di materiale di origine vulcanica e una massa di terra più fine che la avvolge. Questa differenziazione impedisce alle tensioni che si formeranno al momento del getto di produrre spaccature. La tomografia computerizzata mostra, nelle sezioni verticali e orizzontali, che la massa centrale dell'anima è modellata sommariamente, mentre lo strato più fine lascia riconoscere le forme della testa.
Dall'inizio del V sec. a.C., si usa esclusivamente la tecnica indiretta; tra gli esempi più antichi un frammento di gamba in stile severo e la statua «A» di Riace. Rare eccezioni in cui si ha un ritorno alla tecnica diretta si trovano in ambiente romano provinciale, p.es. per la statua di Gordiano III del Rheinisches Landesmuseum di Bonn.
I calchi negativi erano presi a tasselli dal modello originario già rifinito nei dettagli. Il materiale usato per costruire i negativi ausiliari era l'argilla per l'antichità greca, mentre solo in età imperiale romana è attestato per statue di grandi dimensioni l'uso del gesso (gessi di Baia).
Nella preparazione dei modelli di cera da negativi erano applicati tre metodi: la spennellatura (la cera liquida era distesa a pennello dentro i negativi fino a ottenere lo spessore voluto); il rivestimento con «lastre» (la cera preparata in spesse foglie era pigiata a mano nel negativo); lo sciacquo (i negativi erano assemblati e il recipiente che ne risultava era riempito parzialmente di cera liquida. Con un movimento rotatorio si stendeva la cera su tutta la superficie, il sovrappiù ancora liquido era versato fuori). Tipiche striature parallele sulla superficie interna del b. attestano l'uso del pennello; impronte di mani e di singole dita caratterizzano la tecnica a lastra, mentre la presenza di numerose sgocciolature ad andamento parallelo secondo un «fronte» è tipica del metodo a sciacquo.
Varî settori di cera di una stessa statua venivano congiunti per procedere a un'unica colata di bronzo. L'incollaggio delle cere poteva avvenire premendo i bordi uno contro l'altro (in questo caso la radiografia del b. mostra due linee di ingrossamento parallelo) o sovrapponendo gli spessori e tagliandoli con una lama calda. In quest'ultimo caso potevano formarsi singole sgocciolature. Spesso lungo i giunti in cera si notano delle fasce di ingrossamento dovute all'applicazione di un rinforzo a nastro di cera pressato a mano. Anche una spennellatura con cera calda sulle giunture poteva aiutare l'assemblaggio.
Le tracce dei tre metodi di preparazione della cera si possono trovare anche sullo stesso bronzo. La tecnica a lastre era preferita per i negativi con superfici più ampie e accessi più agevoli (p.es. il torso), mentre per modelli di parti più sottili con volumi più piccoli (p.es. gambe o braccia) si preferiva la tecnica a sciacquo.
Nel coprire l'interno di un negativo con lastra di cera si potevano usare anche tanti ritagli di forma irregolare, preparati in maniera da adattarsi alle curve. In tal modo non si rischiava di assottigliare troppo la lastra pigiandola nelle cavità del negativo (busto di Riace A).
Normalmente venivano ricongiunte quelle parti di cera che dovevano essere oggetto di un'unica colata di bronzo. Talvolta però le cere si congiungevano in una zona e poi si tagliavano in un'altra (p.es. ricongiunzione di cere della testa e del busto secondo una linea spezzata detta a «bavaglio» sul petto e taglio della testa a metà collo).
Attacchi di cera a «bavaglio» sono stati eseguiti nella costruzione della statua «A» di Riace, della Venere di Xanten, dell'Efebo Saburoff di Berlino.
Nelle statue umane di medie dimensioni le gambe erano solitamente ricongiunte in cera e fuse in un getto con il busto, mentre testa e braccia erano saldate in b. (Venere di Xanten, Ermafrodito di Firenze).
Talvolta, a causa delle difficoltà di esecuzione dei calchi negativi, alcune parti erano modellate a mano libera in cera e aggiunte alla parte del modello di cera già ottenuto con la tecnica indiretta. Così, p.es., i lunghi capelli della testa di Riace A, oppure la toga poggiata su una spalla di una statua maschile dei Musei Vaticani. Normalmente queste parti venivano di nuovo ritagliate dal modello e fuse separatamente. Questa stessa tecnica è stata reinventata da Donatello nella fusione del S. Ludovico e della Giuditta dove egli addirittura usa della stoffa vera al posto della cera.
Un procedimento simile era usato anche nell'esecuzione dei ritratti antichi: un unico tipo di modello di testa in cera, tratto dagli stessi negativi, poteva servire con opportune modifiche in cera dei capelli, con ingrossamenti o riduzione dei dettagli anatomici, alla preparazione dei modelli di fusione in cera di varî personaggi.
Lo spazio interno dei grandi b. era riempito con una massa di terra, la c.d. anima di fusione. Dello stesso tipo di terra era costruito il mantello esterno. Mentre quest'ultimo doveva essere eliminato completamente per mettere in luce il b., l'anima interna era talvolta lasciata al suo posto (Riace A e B). Anche nei b. che venivano svuotati si trovano spesso nelle parti più interne, resti dell'anima di terra. Essi portano in sé delle importanti informazioni non solo sulle caratteristiche tecnologiche della loro preparazione, ma anche sulla localizzazione delle varie fonderie, sulla datazione e l'autenticità della statua.
Si tratta quasi sempre di argilla con aggiunta di materie organiche: peli animali, sterco, corda, paglia, semi, carbone. Questo materiale serve a mantenere compatta l'anima di fusione durante l'essiccazione e, bruciando col riscaldamento della forma di fusione e la colata del b., anche a rendere porosa la terra, facilitando così la dispersione dei gas.
L'anima di fusione usata nella tecnica indiretta della cera persa, veniva colata allo stato denso-fluido dentro il modello di cera. Essa si differenzia sia dalla terra usata con la tecnica diretta sia da quella utilizzata come stuccatura nelle saldature (ambedue manipolate allo stato plasmabile), per la mancanza di orientamento dei minerali inclusi.
Gli antichi fonditori usavano argille che trovavano vicino alle loro officine, cosicché i minerali contenuti rispecchiano le caratteristiche geologiche della località di fabbricazione. Ciò può portare al riconoscimento della provenienza di un b. o almeno del luogo dove esso fu costruito. In tal modo, p.es., è stato possibile escludere Olimpia come località di costruzione delle statue di Riace. La struttura geologica di Corinto è compatibile con la terra della statua Β e quella di Atene con la terra della statua A.
Con il metodo della termoluminescenza, come per il materiale ceramico, si può stabilire entro un certo margine di errore la data del riscaldamento dell'anima di fusione. In tal modo è possibile riconoscere eventuali falsificazioni moderne o le copie più recenti di originali antichi.
Talvolta l'aspetto della superficie interna dei b. ci fornisce informazioni sul tipo di terra usata come anima di fusione. È questo il caso della presenza di sferette di b. saldamente attaccate alle pareti interne della statua. Le sferette si sono formate al momento della colata, quando il b. liquido si è infiltrato in piccole bolle d'aria presenti nella terra a contatto con la superficie della cera. Ciò significa che la terra era stata colata allo stato liquido dentro il modello di cera e che essa era fine abbastanza da permettere la formazione delle bollicine d'aria.
Sia con la tecnica diretta che con quella indiretta l'anima di fusione era sostenuta da un'armatura in ferro. Resti molto corrosi di sbarre a sezione quadrata o rettangolare sono stati trovati in varie statue in cui era stata lasciata l'anima di terra. Esse sono di ferro massiccio (Cavallo e Lupa dei Musei Capitolini, Kouros del Pireo) oppure cave internamente (Riace A, B; Efebo di Selinunte). Le barre cave hanno il vantaggio di non provocare spaccature nel b. a causa della dilatazione dovuta all'ossidazione del ferro. Se le statue erano svuotate dalla terra di fusione, anche le sbarre venivano estratte lasciando dei fori nello spessore del bronzo (Cartoceto). Il grosso foro quadrato sull'apice della testa della statua A di Riace non era attraversato da una sbarra di sostegno, ma serviva a fissare l'elmo.
In età rinascimentale si usava rinforzare anche l'esterno dell'anima di terra con sbarre e avvolgimenti di filo di ferro. Una delle prove fondamentali che l'Efebo di Magdalensberg di Vienna sia stato fuso nel XVI sec. d.C. sta nella presenza di fili di ferro parzialmente inglobati lungo la superficie interna del bronzo.
I c.d. chiodi distanziatori sono delle sbarrette metalliche che, inserite nel modello di cera e, per una certa profondità fin dentro l'anima di terra, servivano a mantenere solidali il mantello esterno con l'anima al momento in cui la cera veniva eliminata. Questi erano normalmente di ferro a sezione quadrata e leggermente appuntiti. La misura usuale in età romana era di 4 x 4 mm. Su statue più antiche (Riace A, frammento di busto da Chianciano Terme, località Fonte di Sellene, a Firenze) si trovano anche chiodi di b., talvolta a sezione rettangolare. Chiodi distanziatori a sezione tonda non sono stati osservati su reperti antichi e la loro presenza costituisce un indizio per una datazione più recente (testa di Augusto della Biblioteca Vaticana).
Quando i chiodi non potevano essere facilmente estratti perché inglobati nella massa del getto di b., essi venivano tagliati alla base con affilati scalpelli, altrimenti il foro che rimaneva nel b. era chiuso con un tassello quasi sempre a forma rettangolare. La localizzazione dei distanziatori è facilitata spesso dalla presenza di un alone di ossido di ferro sulle incrostazioni interne. Sulle teste di b. essi venivano inseriti preferibilmente in zone meno visibili dei capelli o della barba, in alcuni casi anche negli occhi quando questi erano a fusione piena (statua di giovane togato di Lubiana).
Le poche analisi chimiche della lega di grandi b., disponibili nella prima metà del nostro secolo, avevano già permesso di rilevare la graduale sostituzione del b. allo stagno usato in età classica (rame con c.a 10% di stagno), con leghe ternarie (rame-stagno-piombo), nelle quali dall'ellenismo all'età tardo-imperiale, la componente piombo va aumentando fino a valori molto alti, sul 30-40%.
Questa tendenza è stata confermata dalle più recenti analisi e soprattutto da quelle eseguite su ritratti romani in b. forniti di una sicura datazione storica, tanto che la presenza di alte quantità di piombo nella lega è considerata un elemento che contribuisce a una datazione in età romana. D'altra parte, però, l'uso di un b. al solo stagno non è esclusivo dell'età greca, infatti l'Augusto di Atene p.es., ha una lega di tipo classico.
Sui bronzi di Riace sono state eseguite numerose analisi in tutti i settori costruiti separatamente. Esse dimostrano che per le parti che presentavano maggiori difficoltà di fusione per la finezza dei dettagli, si usava una lega ricca di stagno a causa della sua maggiore fluidità in fase di getto.
Le leghe di b. usate per le saldature non avevano necessariamente un punto di fusione più basso di quelle delle parti da saldare, perché la giuntura era eseguita per colata da un crogiuolo e non per liquefazione del saldante in loco, come avviene nelle saldature moderne. In effetti la loro composizione non si discosta molto da quella del b. saldato perché si evitava di mettere in evidenza la zona di saldatura con una colorazione diversa.
Moderne analisi, eseguite per lo più con la tecnica dell'assorbimento atomico hanno rivelato l'importanza delle piccole quantità di elementi presenti nella lega anche solo a livello di tracce. Alcuni di essi, i c.d. traccianti (in modo particolare Sb, As, Ni, Co, Ag, Bi) sono in grado di differenziare le leghe bronzee in quanto a provenienza degli alleganti intenzionali (Cu, Sn, Pb). Così p.es. si è dimostrato che il rame impiegato nella fusione dei due b. di Riace ha provenienza diversa in quanto quello della statua A contiene tracce di argento che sono assenti nella statua B.
La presenza eccessiva di determinati elementi nella lega, può anche essere di aiuto nella datazione del reperto. L'Efebo di Magdalensberg, un grande b. del Kunsthistorisches Museum di Vienna, considerato un b. romano e rivelatosi invece un'opera rinascimentale in base alle sue caratteristiche costruttive, ha un contenuto di nichel superiore all'1%, mentre nei b. romani questo elemento è presente solo in minime tracce.
I canali di entrata erano applicati al modello di cera sotto forma di bastoncelli di cera collegati in alto a un collettore a forma di imbuto. In radiografia la zona circolare di attacco (di solito c.a 1,5 cm di diam.) è riconoscibile per una più alta concentrazione di piccole bolle d'aria incluse nel bronzo.
Uno spesso mantello di terra doveva poi ricoprire modello e canali. La terra del mantello aveva la stessa composizione di quella dell'anima ed era messa a strati. La terra a diretto contatto con la cera era più fine, gli altri strati di terra più grossa. Il primo strato era riportato a pennello allo stato quasi liquido, gli altri erano messi allo stato plasmabile con le mani.
Molti collettori e frammenti di canali in b. sono stati trovati in Grecia tra gli scarti di lavorazione di antiche fonderie insieme a resti del mantello esterno, che dopo la fusione veniva distrutto. Nonostante la grande massa di frammenti di mantello recuperati, solo nel caso di una fonderia arcaica dell'agorà di Atene è stato possibile ricostruire parte della figura.
L'interpretazione dei dati dei nuovi scavi ha permesso di ricostruire gran parte delle tecniche di colata usate in Grecia. La forma in cera era posta in una fossa abbastanza larga da permettere i successivi lavori e profonda almeno quanto la figura.
Dalla fine del IV sec. a.C. si trovano fosse di fusione provviste di scalini di accesso. A cominciare dal V sec. a.C. la figura poggiava su un piccolo piedistallo che verso la fine del IV sec. a.C. assume prevalentemente forma ovale. La presenza in alcuni casi di varî piedistalli sovrapposti dimostra che le fosse erano sfruttate per più colate.
Dopo la copertura col mantello esterno e la sua essiccazione all'aria, la forma era scaldata a lungo. Il fuoco rendeva l'esterno del mantello di colore rossastro-marrone mentre l'interno assumeva una colorazione più grigia (la temperatura raggiunta non superava comunque i 500-600°). La cera si scioglieva e fuoriusciva dal basso da un foro, dove era raccolta in appositi recipienti oppure fatta scorrere attraverso canali fuori dalla zona riscaldata. La fossa era successivamente riempita di terra, di preferenza sabbiosa perché manteneva meglio il calore. Le aperture in alto dei canali erano chiuse con tappi per impedire che vi entrasse della terra. Diversi esemplari di tappi in argilla che servivano a questo scopo sono stati trovati in fonderie di Olimpia, Demetrias, e al Ceramico di Atene.
Per la fusione del b., Kluge, sulla base delle immagini della c.d. kylix della fonderia di Berlino, immaginava che si facesse uso di un forno cilindrico verticale caricato dall'alto con carbone ardente, rame e stagno. Da una apertura posta alla base sarebbe defluita la lega di b. direttamente nei canali di entrata della forma, posti al piano del terreno.
In realtà negli scavi delle antiche fonderie non si è trovata traccia di un tal tipo di forno. Al contrario invece sono venuti alla luce molti resti di grossi crogioli. Anche nell'officina di Fidia a Olimpia, dopo i recenti scavi (1982) sono stati trovati nuovi frammenti che insieme a quelli degli scavi precedenti hanno permesso di ricostruire due crogioli di c.a mezzo metro di diametro, uno dei quali provvisto di un foro sulla parete per il deflusso della lega.
In quanto alle modalità di colata dei singoli pezzi delle statue, alcune informazioni ci vengono dalle analisi dei pezzi finiti, cioè dai reperti in b. trovati per lo più a grandi distanze dalle officine di origine.
Le leghe usate per la colata delle due dita medie e delle metà anteriori dei piedi della statua A di Riace hanno tra loro la stessa identica composizione. Ciò induce a pensare che da uno stesso crogiolo si versassero «in serie» le parti di ugual formato e che per ciascun gruppo si preparasse la lega adatta con una percentuale di stagno ben ponderata. D'altronde la differenza tra i punti di fusione delle varie leghe doveva essere ben conosciuta. Nella stessa statua il fonditore ha fatto colare il b. liquido della testa in modo da inglobare le labbra di rame massiccio, inserite precedentemente nella forma in cera, ben sapendo che questo metallo avrebbe resistito al forte calore.
La saldatura metallurgica di b. con b. rappresentò uno dei presupposti tecnici per la costruzione dei grandi b. a fusione cava. Essa permise infatti la suddivisione in getti separati e la loro successiva ricomposizione.
Vere e proprie saldature su b. statuari greci si trovano già in età tardo-arcaica. Studi analitici sui b. di Riace dimostrano che nel V sec. a.C. si era in grado di saldare il b. in modo tale da assicurare una perfetta tenuta anche in zone sottoposte a fortissime sollecitazioni (p.es. a metà piede). Il metodo era quello della «saldatura per colata». Le parti da congiungere erano accostate in modo da lasciare una fessura tra loro. Inferiormente e lateralmente si stuccava con terra refrattaria. La tenuta tra le due parti poteva essere assicurata temporaneamente con perni di legno (nel b. Getty tra busto e testa è stato trovato un pezzo di canna). Il b. liquido veniva poi colato nello spazio vuoto da un crogiolo. Il sovrappiù era eliminato e tutta la superficie esterna levigata accuratamente. Su molti b. romani il b. delle sbavature interne veniva recuperato tagliandolo a scalpello.
Per realizzare una vera e propria giuntura metallurgica era necessario che le parti da saldare fossero tenute ben calde durante la colata. Il provino metallografico preparato con un campione prelevato da una zona di saldatura di un torso romano dei Musei Vaticani, mostra in sezione la compenetrazione delle strutture tra saldante e saldato che può essere avvenuta solo se il saldato era già caldo al momento dell'arrivo del b. liquido.
Talvolta per aumentare la superficie di contatto lungo una giuntura si preparava una serie di vaschette a forma ovale. Ogni vaschetta doveva essere riempita con una colata a sé. Nel caso della saldatura di un braccio dopo ogni colata si doveva girare la statua per metterla nella posizione più adatta.
Saldature a stagno (o stagno-piombo) erano usate solo per giunture accessorie e non impegnative (ciocche di capelli, attacchi di studi, attributi, ecc.). Ricolate interne degli stessi metalli si trovano come riparazioni di alcuni b. romani (Dioniso con tirso del Museo Nazionale Romano, b. della casa di Polibio di Pompei).
I grandi b. antichi sono senza eccezioni costruiti in parti separate saldate insieme per colata. Le zone di giuntura seguono degli schemi tradizionali in relazione alle dimensioni e alla forma delle statue. Statue umane nude di grandi dimensioni hanno sempre saldature nella regione del collo e all'attacco delle braccia al busto, spesso anche al sesso, all'attacco di una gamba, a metà del piede e all'attacco delle dita centrali dei piedi o delle mani. La giuntura della gamba segue una caratteristica linea lungo l'inguine, taglia a metà il gluteo per seguire poi il solco tra le cosce fino al sesso. La fusione separata del sesso e di una gamba (si tratta sempre di quella piegata) dà la possibilità di rifinire le parti prima della saldatura e di rendere lo stacco tra le gambe più realistico. Quando le due gambe sono fuse insieme al torso, la rifinitura di questa zona è alquanto problematica. Infatti la terra del mantello esterno tra le cosce è troppo sottile per reggere l'urto della colata e rompendosi dà luogo a sbavature e creste difficilmente eliminabili.
È probabile che questa innovazione tecnica sia stata introdotta in Grecia nel periodo di tempo che intercorse tra la realizzazione di Riace A e del Kouros del Pireo (gambe fuse insieme al torso) e Riace Β (gamba piegata fusa a parte).
Figure umane vestite, oltre alla saldatura del collo, hanno le mani e i piedi con l'inizio della gamba saldati direttamente all'interno della veste. Spesso altre saldature corrono all'interno delle pieghe della tunica e talvolta tagliano l'intera statua in settori orizzontali (Auriga di Delfi, Arringatore di Firenze).
Anche le saldature dei cavalli seguono uno schema caratteristico: separati sono sempre il muso, il collo, la coda, le zampe (talvolta in due settori ciascuna), e il corpo (anch'esso spesso diviso in due settori).
Il corpo del cavallo del Marco Aurelio è diviso in tre parti, infatti anche la groppa è saldata. Ciò dipende probabilmente dalla grossa mole del monumento.
La tecnica della saldatura forte, cioè con saldante di b., era padroneggiata magistralmente dai fonditori del mondo greco-romano, mentre più tardi nel Rinascimento si ricorreva per lo più a metodi meccanici di giuntura o di getto-a-incastro che ricordano tecniche diffuse nell'Età del Bronzo e del Ferro.
Le più disparate tecniche di giuntura in uso dall'età romana fino a oggi sono visibili all'interno del cavallo del Marco Aurelio, dove nelle riparazioni subite dal monumento sono illustrati duemila anni di storia della tecnica del bronzo.
I canali di fusione e il sovrappiù delle zone di saldatura erano asportati a scalpello e le irregolarità pareggiate a lima. La pelle di fusione porosa e grezza era asportata con raschiatoi e la superficie levigata con pietra pomice (i resti trovati nelle officine greche provengono per lo più da Thera) e osso di seppia.
Le piccole lacune e i pori della superficie erano coperti con tasselli di lamina di bronzo. Intorno al difetto si scalpellava nello spessore del b. una zona a forma per lo più quadrata o rettangolare spesso provvista di un leggero sottosquadro interno. La laminetta ritagliata a misura vi veniva incastrata per martellatura. In età romana si applicavano anche tasselli di grosse dimensioni a forme poligonali con i lati talvolta incurvati verso l'interno.
Le statue dell'età greca fino all'ellenismo mostrano una maggiore accuratezza in questo genere di lavoro; i tasselli potevano raggiungere dimensioni piccolissime. I più piccoli finora individuati si trovano sulla statua A di Riace. I tasselli più grossi col tempo tendevano a staccarsi e potevano essere bloccati con ribattini (Marco Aurelio, giovane togato da Lubiana).
La rifinitura a freddo comprende anche la rielaborazione e l'aggiunta ex novo di dettagli dei capelli, della barba, sopracciglia, occhi, peli del pube, ecc. In età greca quando questi dettagli erano già ben modellati nella forma di cera, si usava per lo più il cesello profilatore che disegna linee o accentua e «rinfresca» solchi già esistenti senza asportare metallo. In età romana si trova invece l'uso estensivo dello scalpello a punta triangolare, piatta o ricurva, il quale battuto a martello, taglia e asporta metallo.
In talune statue romane la capigliatura viene solo accennata nelle masse in cera, mentre il grosso del lavoro viene eseguito a scalpello direttamente sul bronzo. Lo strumento lascia delle caratteristiche tacche dovute ai singoli colpi di martello. Con la tecnica «a penna» si disegnavano barba e capelli di taglio corto semplicemente scavando a scalpello delle fossette a forma ovale sul b. liscio.
La lavorazione a freddo di statue romane è spesso meno accentuata o più sommariamente eseguita sulle parti non in vista mentre sui b. greci si curavano anche i dettagli nascosti.
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Egitto . - La mancanza di precise analisi ha spesso dato adito a errori nella valutazione degli oggetti antico-egiziani in metallo. Ne è palese dimostrazione il gruppo statuario in rame di Pepi I e del figlio, conservato al Museo Egizio del Cairo, che è stato considerato fino a non molti anni fa come una delle prime realizzazioni in b. dell'Egitto.
In realtà il b. cominciò a essere importato in Egitto dal Vicino Oriente in epoca vicina agli inizî del II millennio a.C. La stessa parola egiziana per b. (ḥsmn) sembra derivare dalle lingue semitiche, più precisamente dall'accadico ešmaru, attestato anche in ebraico sotto la forma ḥašmal. Il medesimo termine serviva a indicare anche altre leghe, segno evidente di come la tecnica di unire più metalli durante la fusione risultasse estranea alla cultura egizia. È infatti difficile stabilire con esattezza in che epoca gli Egizi cominciarono a produrre il b. per proprio conto. Le pitture che decorano le tombe, in altri casi assai eloquenti, non sono qui di alcun aiuto. In alcuni sepolcri tebani del Nuovo Regno compare la rappresentazione di un artigiano intento a ritoccare una piccola sfinge in tutto simile a quella in b. con intarsi in oro di Thutmosis III, conservata al Museo del Louvre (n. E 10897). Mancano però le scene relative alla fusione ed è quindi impossibile stabilire se già in quest'epoca vi fosse una produzione locale di b. in Egitto. Nel sepolcro di Ramesse III nella Valle dei Re, in uno degli annessi che si aprono sul primo corridoio, sono rappresentati alcuni lingotti di b. a forma di pelle di bue, noti anche da ritrovamenti nel bacino occidentale del Mediterraneo. Questa evidenza lascerebbe supporre che, durante la XX dinastia, l'Egitto continuava a importare una certa quantità di bronzo. D'altro canto, i testi economici contemporanei fanno ancora riferimento a un sistema monetario basato esclusivamente sull'argento e sul rame.
Tra gli oggetti in b. più antichi ritrovati in Egitto vi sono due statuette che rivelano un'evidente origine vicino-orientale. La prima rappresenta una divinità ed è stata scoperta nel Delta occidentale; il suo stile è totalmente in presa con la migliore produzione bronzistica paleosiriana. Più interessante è la seconda, ritrovata nella tomba n. 254 di Benī Ḥasan (Ägyptisches Museum di Berlino, inv. 20613). Sebbene la posa stante del personaggio sia tipicamente egiziana, il trattamento dei tratti del viso, la resa dei muscoli pettorali e la strana foggia della gonna, inducono a localizzare il luogo di produzione nell'area siro-palestinese. I due ritrovamenti possono essere datati alla fine del Primo Periodo Intermedio.
Contemporanee o di poco posteriori sembrerebbero anche alcune opere in stile pienamente egizio. Lo specchio in b., conservato presso la Stadtliche Sammlung Ägyptischer Kunst di Monaco (inv. 4242), trova un esatto parallelo in una scena di toeletta, rappresentata su un rilievo della principessa Kawit scoperto a Deir el- Baḥrī (Museo Egizio del Cairo, inv. 623). Alcune perplessità solleva invece il gruppo di statue ascritte al Medio Regno. Provengono infatti tutte da acquisti antiquari e la loro datazione è fondata solo su argomenti stilistici, talvolta non molto convincenti. Tra queste, degne di nota sono la statuetta del personaggio virile abbigliato con la lunga gonna tipica del Medio Regno (Museo del Louvre, inv. E 27.153) e il torso attribuito ad Amenemḥet III, frammento superstite di una statua che, in origine, doveva essere composta di più materiali (New York, collezione privata). In tutte queste statuette non è rintracciabile alcuna caratteristica comune né tecnica, né artistica, né per quanto riguarda la composizione della lega in bronzo. In quelle sottoposte ad analisi sono state infatti riscontrate quantità di stagno estremamente variabili e in alcune anche la presenza di piombo.
Posteriore, ma di datazione non del tutto certa, è la testa di sovrano conservata al Pelizaeus Museum di Hildesheim (inv. 384). Faceva anch'essa parte di una statua composita e in essa si sono volute riconoscere le fattezze di Ramesse II. Il trattamento molto accurato dei lineamenti del viso ha fatto comunque pensare anche a una datazione più tarda.
Gli esempi più splendidi della bronzistica egizia sono comunque alcune statue femminili prodotte nel corso dell'VIII sec. a.C. Appartiene a questo periodo il vero capolavoro della statuaria in b. egiziana: la celebre statua della principessa Karomama, conservata al Museo del Louvre (inv. 500). L'effige è quella di una donna nel pieno della sua giovinezza. La testa è stretta da una pesante parrucca che mette ancor più in risalto i tratti estremamente fini e aggraziati del viso. Le forme ben proporzionate del corpo sono messe in rilievo piuttosto che coperte dalla lunga veste a maniche corte che scende fino alle caviglie. Gli avambracci nudi sono sottili e sono sollevati in avanti in un gesto aggraziato e leggero. Quello che comunque più colpisce è il misurato incedere della statua. La gamba sinistra davanti alla destra trasmette un movimento elegante e fluido alle anche in grado di conferire un pizzico di sensualità a tutta la figura. La decorazione in agemina d'oro del vestito sottolinea ancor di più le forme del corpo impreziosendole e conferisce alla statua un ulteriore tocco di grazia. Il trattamento del corpo femminile attraverso l'uso del b. si trova anche in una statua di sconosciuta (Staatliches Museum di Berlino, inv. 2309) e in quella di Takush (Museo Archeologico Nazionale di Atene). Sebbene le due opere siano temporalmente molto vicine alla statua di Karomama, mostrano troppo interesse per la pienezza delle forme del corpo e non riescono quindi a eguagliarne l'eleganza e la grazia.
In epoca successiva la bronzistica egiziana si impegnò quasi esclusivamente nella produzione di effigi delle più svariate divinità, che i fedeli acquistavano per lasciarle nei santuari come segno della loro devozione. Le migliaia di statuette in b., scoperte nel secolo scorso durante gli scavi del Serapeo di Memfi, possono dare una misura dell'ampiezza di questo fenomeno in epoca tarda.
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(F. Tiradritti)
Grecia e Roma . - I santuarî di Creta in età minoica hanno restituito numerose statuette in b., a figura umana e animale, la cui produzione si prolunga, senza soluzione di continuità, nel corso del I millennio a.C. Al contrario, e se ne ignora il motivo, non esiste una piccola bronzistica micenea. Il vasellame di b. è abbondante nel II millennio a.C. in tutto il mondo egeo, dove i grandi vasi sono formati da più pezzi di lamina saldati tra loro. La fine dell'età micenea vede l'invenzione di almeno due tipi di oggetti destinati a conoscere un successivo sviluppo soprattutto nella Grecia continentale in età geometrica: il tripode costituito da tre piedi e da due anse fusi, applicati a un bacino eseguito con la martellatura, di forma più o meno emisferica (Dreifusskessel, «tripode a bacino inchiodato») e gli spilloni, portati a coppia, e dotati a un'estremità di un disco e di un elemento globulare.
I sommovimenti dell'XI e del X sec. a.C. comportano però, per lo meno nella Grecia continentale, un'interruzione della produzione di oggetti in b., dovuta alle difficoltà di approvvigionamento di rame e soprattutto di stagno. Sulla base delle testimonianze offerte dalle tombe, soprattutto quelle del Dìpylon di Atene, si data tra il 1025 e il 950 c.a questo periodo, nel corso del quale si assiste, in sostituzione, allo sviluppo della metallurgia del ferro, che i Micenei conoscevano, senza però averle attribuito importanza. Sembrerebbe invece che oltre a Creta, che non è rimasta mai del tutto isolata da Cipro, anche le isole dell'Egeo non abbiano conosciuto questa cesura, come suggeriscono gli scavi di Lefkandi in Eubea.
La ripresa della lavorazione del bronzo si attuerà nella Grecia continentale in diverse tappe. I calderoni e gli spilloni del Dìpylon ci forniscono più o meno le stesse datazioni degli ex voto di Olimpia. In ogni caso prima della fine del X sec. a.C. vengono offerti a Zeus le prime statuette di b. e i primi tripodi a bacino inchiodato, la cui lega (Cu+Pb) non contiene stagno. È questo l'inizio di un'evoluzione che è tipica dell'arte geometrica, il cui apogeo si pone intorno alla seconda metà dell'VIII secolo. Le officine di Argo, attive anche a Olimpia, sono le più antiche. Ad Argo si aggiungeranno, intorno al 750, Corinto e Atene, con tripodi di grandi dimensioni. Gli stili caratteristici dei vari centri produttori si definiscono nelle statuette, sia a sé stanti, sia usate nella decorazione dei tripodi. Degno di nota è il fatto che la comparsa dei diversi stili coincida con l'emergere delle città-stato di cui essi sono espressione. A partire dalla metà dell'VIII sec., quando si attivano le relazioni con l'Oriente, gli artigiani che lavorano il metallo tornano ad adoperare il vero b. (Cu + Sn). Si ignora il motivo per cui tripodi e statuette siano assai rari in Occidente nella seconda metà dell'VIII secolo.
Sviluppo artistico ed evoluzione tecnica non sono scindibili in tale periodo. Le due tappe seguenti sono di fatto legate allo sviluppo della martellatura. Attualmente si datano alla fine dell'VIII sec. a.C. le prime statue eseguite con fogli di lamina applicati su legno (nella tecnica detta dello sphyrèlaton), come la triade apollinea del tempio di Dreros a Creta, la più grande delle quali misura cm 80. Queste e le scoperte di Olimpia dimostrano che la grande statuaria a sphyrèlaton è anteriore alla statuaria in pietra e che in essa l'area greca orientale ha svolto un importante ruolo. Tale tecnica viene usata per lo meno sino alla metà del VI sec. a.C., in b., ma anche in argento: eccezionale è il toro di Delfi, a grandezza naturale, eseguito probabilmente non prima del 550 c.a nell'area orientale. In un altro campo, intorno al 650 o al 630, probabilmente a Rodi, degli artigiani mettono a punto, imitando recipienti fenici e frigi, la fabbricazione dei vasi martellati di forma chiusa, eseguiti in un unico pezzo a partire da un abbozzo fuso, più piccolo e più spesso, che ha già più o meno la forma dell'oggetto finito: sono queste le prime «oinochòai rodie» in b., un tipo che sarà ripreso quasi immediatamente in Etruria e abbandonato nella stessa Rodi. Si tratta di un enorme progresso tecnico, che sarà all'origine dello sviluppo del vasellame in metallo arcaico e classico e che permetterà la realizzazione di recipienti molto grandi, come il cratere di Vix. Anche una parte degli elmi saranno realizzati nello stesso modo: l'evoluzione formale degli elmi corinzi si spiegherebbe, come è stato proposto, con uno studio preciso della resistenza del metallo ai colpi, in base al trattamento che ha subito nel corso della fabbricazione.
Il VI sec. e la prima metà del V rappresentano soprattutto il grande periodo della piccola plastica, più numerosa e meglio conservata che non i grandi b. i quali, in ogni caso, fanno la loro comparsa, secondo i testi antichi, verso la metà del VI secolo. Dopo la dimostrazione che l'Apollo del Pireo, riprendendo un modello del VI sec., è stato eseguito intorno al 470, ci restano ben poche statue arcaiche: una testa di Zeus di Olimpia, una testa, sicuramente eginetica, scoperta sull'Acropoli di Atene, e lo Zeus di Ugento, che non è altro che una statuetta molto grande. Dopo che Langlotz nel 1927 definì le principali scuole arcaiche, le scoperte si sono moltiplicate, contribuendo a precisare le sue indicazioni. Solamente alcuni storici della scultura, che rifiutano di prendere in considerazione la piccola plastica, continuano a negare la specificità delle diverse produzioni locali o regionali. Langlotz conosceva soprattutto statuette della Grecia meridionale. Gli scavi di Samo e di Efeso hanno arricchito la nostra conoscenza della Grecia d'Oriente. Per quanto riguarda l'Occidente (soprattutto la Magna Grecia) gli scavi effettuati dopo la seconda guerra mondiale hanno permesso di distinguere le diverse produzioni e di definire sia correnti stilistiche non necessariamente legate a una determinata città, sia anche, talvolta, delle vere e proprie «scuole» nel senso in cui Langlotz usava tale parola. A Locri è rimarchevole l'originalità formale e tipologica dei bronzi. A Taranto, dove piacerebbe poter scorgere un'influenza dell'artigianato laconico simile a quella che si ritrova in alcune terrecotte, i b. restano piuttosto rari. Quelli tornati alla luce a Paestum sono molto diversi, così come pure quelli di Metaponto e di Sibari. Al contrario, l'influenza delle statuette e soprattutto dei vasi laconici della prima metà del VI sec. non sembra tener conto delle frontiere: dal momento che degli originali laconici sono stati scoperti da Siracusa e Gela sino a Capua e ad Atena Lucana, e dei calchi secondarî in terracotta a Locri, è ormai certo che non tutti i b. di stile laconico erano fabbricati a Taranto.
Tali problemi in ogni caso non sono esclusivi dell'Occidente, come ben dimostrano le discussioni che vertono sulla produzione attica e in primo luogo sull'attribuzione delle statuette e degli specchi rinvenuti sull'Acropoli e nelle tombe di Atene. In questo caso la polemica si svolge tra coloro che, assumendo come punto di partenza le scoperte dell'Acropoli, ammettono che la supremazia ateniese nella ceramica (a dire il vero riscontrabile nel periodo geometrico e poi dopo il 550) non impedisce che in altri campi di produzione Atene non sia stata uno dei centri propulsori, e coloro che, in nome della supremazia ateniese, classificano le produzioni tenendo largamente conto di un criterio qualitativo: tra questi ultimi merita di essere menzionato J. Floren, che porta tale punto di vista agli estremi. In realtà, si constata che alcune serie molto particolari, tra cui le statuette della Atena Pròmachos, sono state prodotte ad Atene in periodi piuttosto brevi, dando origine altrove a imitazioni e derivazioni. Anche in età severa, nelle serie di specchi sostenuti da una figurina di peplophòros, l'originalità degli esemplari trovati in Attica si lascia mal definire, laddove altri gruppi possono essere attribuiti con notevole verisimiglianza ad Argo, a Corinto o addirittura a Sicione.
Le statuette, sino alla fine dell'età classica, sono considerate esclusivamente come offerte per i santuarî e non costituiscono l'oggetto di un vero e proprio commercio. Non si comprende bene la ragione per cui nelle tombe si depositassero frequentemente figurine di terracotta e non piccoli b., «tabù» forse legato al valore molto più elevato di questi ultimi. Ciò conferisce alle statuette un significato che può essere importante, dal momento che la presenza in un determinato santuario, panellenico o no, di statuette attribuibili ad artigiani di una città o dell'altra, è indice di precisi rapporti: presenza in loco di artigiani stranieri, che a Olimpia è provata materialmente da alcuni scarti di fusione di cavalli geometrici laconici, oppure frequentazione del santuario da parte degli abitanti di tale città. In tal modo si può constatare, se si accettano le attribuzioni correntemente proposte, che i Laconi, numerosi a Olimpia, si recavano più volentieri a Dodona che non a Delfi.
I vasi di lusso, al contrario, viaggiano molto. Mentre nei santuari greci, persino a Olimpia, quasi sempre non si ritrovano altro che frammenti, le tombe barbare hanno restituito più vasi greci del VI sec. a.C. di quanto non abbiano fatto i siti greci stessi: l'heròon di Paestum, con otto vasi di b., costituisce un'eccezione. Da Trebenište in Illiria a Vix in Borgogna, passando da Hochdorf nel Baden-Württemberg, constatiamo che le aristocrazie della seconda metà del VI sec., qualunque fosse la natura delle loro relazioni col mondo greco, dirette o no, apprezzavano tali contenitori, legati per essi, come per i Greci e gli Etruschi, al banchetto e al consumo del vino: il calderone di Hochdorf conteneva una specie di idromele, ma sul monte Lassois, a Vix, giungevano in gran numero anfore vinarie marsigliesi. Sarebbe particolarmente importante poter determinare i luoghi di fabbricazione di questi oggetti, che costituiscono il documento di relazioni su grandi distanze. La maggior parte degli storici mette in guardia a tale proposito contro l'uso del termine «commercio» nel caso di oggetti eccezionali, che rivestono un ruolo di prestigio; però, se il cratere di Vix e il calderone di Hochdorf di per sé potevano essere dei regali, all'interno di un sistema di scambio di doni, il ruolo che il monte Lassois sicuramente sosteneva nel traffico dello stagno presuppone un'organizzazione stabile di trasporti e di scambi. I due vasi sono stati eseguiti nel medesimo atelier di un gruppo di hydrìai, rinvenute a Paestum e a Sala Consilina; Paestum ha restituito inoltre un'applique a testa di cavallo identica a quelle del cratere completo. Alcuni localizzano tale produzione in Laconia, altri a Corinto. La contraddittorietà di tali giudizi e la distribuzione geografica dei ritrovamenti inducono molti studiosi a preferire una localizzazione in Magna Grecia: sono state proposte Taranto, Sibari, Locri, Reggio, Siracusa. Il problema ancora aperto è quello della via seguita nel trasporto, tramite Marsiglia o l'Adriatico. Quanto ai crateri di Trebenište, la loro parentela con i bronzi corinzî è chiara, ma dobbiamo probabilmente pensare a una delle colonie corinzie della Grecia nord-occidentale, di cui essi attestano i rapporti con i prìncipi illiri.
Il V ed il IV sec. a.C. rappresentano i secoli della grande statuaria, tanto più che cambiamenti di mentalità o di usanze fanno sì che, a partire dalla metà del V sec., venga meno l'uso di offrire statuette nei santuarî. Le scoperte recenti contribuiscono a farci meglio comprendere le ragioni per cui i Greci preferivano il b. al marmo nella scultura a tutto tondo non architettonica: Prassitele, che lavorava soprattutto il marmo, era un'eccezione. Nella scia delle tradizioni etrusche che attribuivano un ruolo preciso a ciascun tipo di materiale, utilizzando la terracotta per la decorazione architettonica e la pietra per la scultura funeraria, i Romani privilegiavano il b. per la scultura onoraria. In Grecia come a Roma le statue di culto nei templi sono raramente di b.: ne esistono però alcuni esempi, quali le statue di Efesto e di Atena dello pseudo-Thesèion di Atene. Alcuni testi ci danno un'idea del numero di statue in b. alla fine dell'età ellenistica: secondo Plinio a Rodi ve ne erano 3000; Marco Fulvio Nobiliore dopo la conquista di Ambracia ne riportò a Roma quasi 800 e per il solo santuario di Olimpia si è giunti al numero di 1000. Nonostante le scoperte più recenti, non ne possediamo però che un numero irrisorio, grazie ai naufragi di età romana e, perlomeno in due casi, al saccheggio di Costantinopoli perpetrato dalla IV Crociata (cavalli di S. Marco, colosso di Barletta). Il Marco Aurelio del Campidoglio, scampato alla rifusione per il fatto che venne identificato con Costantino, costituisce un'eccezione.
La qualità dei b. classici ci è palesata non solo dagli originali, ma anche dai 300 frammenti c.a di gesso scoperti a Baia nelle terme di Sosandra. Si tratta di calchi di originali bronzei del V e del IV sec., destinati alla fabbricazione di copie parimenti in b., come i busti della Villa dei Papiri. Nonostante le piccole dimensioni della maggior parte dei frammenti, si è riusciti a identificare le opere da cui era stato tratto il calco e a confrontare i gessi con le copie romane in marmo. Il frammento più sensazionale ci restituisce la metà del volto di Aristogitone del gruppo dei Tirannicidi. Nel caso di numerose statue panneggiate, e anche l'Apollo del Belvedere, la raffinatezza del lavoro di superficie mostra sino a qual punto le copie di marmo non rendessero lo spirito dei loro modelli.
Una rapida rassegna degli originali greci classici scoperti di recente dimostra soprattutto come la critica moderna sia sprovveduta e divisa di fronte a queste opere, in mancanza di sequenze sufficientemente numerose e di strutture entro le quali poterle inserire. Le due figure maschili nude rinvenute al largo di Riace in Calabria nel 1972 hanno ispirato due volumi (BdA, s. spec. III, 1984), e numerosissimi articoli. Quasi tutti gli studiosi sono concordi nel riconoscervi degli originali del V sec., in viaggio verso Roma. È questo quasi l'unico punto di accordo. Provengono da uno stesso monumento, nella loro sistemazione originaria o quanto meno dopo le riparazioni che le due opere, e non soltanto la statua B, hanno subito? La risposta dipende soprattutto dal modo in cui si interpretano le differenze stilistiche che indubbiamente le separano. Molti le giudicano attiche, il che però non obbliga a pronunciare il nome di Fidia, come è stato fatto più volte. In realtà è possibile che tra le due statue intercorrano 30 anni, dal 460 al 430 a.C. Si è proposto di farle giungere da Olimpia, da Delfi o da Atene. È d'altra parte vero che anche la loro tipologia non è chiara e che non è neppure sicuro che la statua A portasse in origine un elmo, come la statua B. Eroi? Strateghi? Hoplitodròmoi? Sono queste le principali identificazioni proposte.
Le due statue di Riace nel Museo di Reggio Calabria sono fronteggiate da una testa di bronzo, recuperata, insieme ad altri frammenti della medesima statua e di due altre, nel mare di Porticello, vicino alla rupe di Scilla. Il naufragio, come si è stabilito in base alla ceramica a vernice nera e alle anfore che la nave conteneva, si verificò intorno al 400, al più tardi nel 380 a.C., mentre il carattere individuale della testa ne fa un vero e proprio ritratto. Si è scritto più volte che non si doveva pertanto tenere conto del contesto. Più seriamente, ciò ci dimostra che il ritratto individuale è nato molto prima di quanto non si sapesse. Si è proposto di datare la testa intorno al 460, all'epoca del ritratto di Temistocle noto attraverso la tarda e mediocre copia di Ostia, oppure verso il 440, dal momento che questo personaggio barbato, con una calvizie incipiente e col naso irregolare, ha una certa parentela con alcuni centauri delle metope del Partenone. Ma di chi si tratta? Si è parlato genericamente di un filosofo - o di un sofista - per via della testa ellenistica di Anticitera, senza però argomentazioni precise. È anche probabile che l'opera non sia affatto un prodotto della Grecia vera e propria: si tratta di un'opera occidentale, cosa che gli scali della nave, a giudicare dalle anfore, non escludono, oppure dell'Asia Minore, come il ritratto di Temistocle? La statua marmorea dell'efebo di Mozia dimostra che gli artisti occidentali, all'epoca dello stile severo, sapevano sfuggire alle regole che reggevano la scultura della Grecia vera e propria.
Conosciamo un po' meglio i b. del IV sec. grazie alla testa del pugile di Olimpia, quella del «capo libico» di Cirene, all'atleta di Anticitera e all'«efebo» di Maratona. A queste opere si sono aggiunte due importanti scoperte. La prima è stata effettuata nel 1959 al Pireo: oltre all'Apollo, già ricordato, e ad alcuni marmi, di essa facevano parte una grande Atena, due Artemidi e una maschera tragica che in origine doveva essere tenuta in mano da una Musa. Si è proposto Delo come luogo di produzione del complesso e lo si è interpretato come la conseguenza del saccheggio dell'isola compiuto dalle truppe di Mitridate, dal momento che, secondo le indicazioni dell'autore dello scavo, l'interramento deve datarsi alla prima metà del I sec. a.C. Ma, se ciò fosse vero, come avrebbe potuto l'Atena essere copiata nel II sec. d.C. (Minerva Mattei al Louvre)? L'Artemide più grande è assai vicina all'Apollo Patròos dell'agorà di Atene ed è possibile che si tratti di un secondo originale di Euphranor. L'Atena, invece, è molto più difficile da giudicare. Essa è un capolavoro tecnico per il trattamento del panneggio e dell'egida. L'abbinamento di una figura piuttosto massiccia, che però si assottiglia verso l'alto, e di un atteggiamento molle, la cui instabilità è accentuata dalla piccolezza della testa su un collo molto lungo, la rende un'opera molto originale, degli anni centrali del terzo venticinquennio del IV sec. a.C. Come per la piccola Artemide, in mancanza di uno studio specifico, si è ancora in attesa di un'edizione fotografica corretta.
Rinvenuto, come si sostiene con buoni argomenti, nelle acque di Fano, l'atleta pervenuto al Museo Getty si lascia collocare con più facilità. Il giovane che si appresta a togliersi dalla testa, per dedicarla, la corona di olivo che ha ricevuto come vincitore nei giochi olimpici riporta direttamente a Lisippo. Una volta ancora però non possiamo confrontarlo che con delle copie e la sottile raffinatezza dell'atteggiamento e della trattazione muscolare rendono possibili in tal caso due interpretazioni. In un caso, come sostiene la presentazione ufficiale, sarebbe per indicare la giovane età del vincitore che Lisippo gli avrebbe conferito un atteggiamento molle e una muscolatura più morbida; oppure, questa costituirebbe la caratteristica dello stile di un seguace di Lisippo, che ebbe degli allievi fedeli alla sua maniera, e la statua in tal caso si daterebbe agli inizî del III secolo. Si tratta in ogni caso di un capolavoro, a proposito del quale i dubbi restano circoscritti all'ambiente di una scuola precisa e di un limitato periodo di tempo.
Al termine della serie inaugurata da Lisippo, la statua recuperata nel letto dell'Herault, ad Agde, rappresenta un principe ellenistico, la cui posa e il cui volume della testa sono fedeli ai medesimi canoni che si ritrovano nelle statuette in cui si riconosce l' Alessandro con la lancia di Lisippo. È probabile che si tratti proprio di Alessandro, che indossa un diadema curiosamente simile a quello scoperto nella tomba di Filippo II. L'opera, ancora inedita, è estremamente consunta. Risulta difficile definire la sua cronologia tra la metà del II sec. a.C. (epoca in cui alcuni sovrani siriaci riprendono tale tipo, con il mantello che si avvolge, come in questo caso, sulla spalla) e la metà del I sec. d.C.
La storia dei grandi b. ellenistici è stata precisata in due punti, a proposito di opere scomparse. È stato provato che il carro del Sole in b. dorato, eseguito da Lisippo e dedicato dagli abitanti di Rodi a Delfi, si deve datare alla metà del IV sec. e non è pertanto possibile che esso commemorasse, come si credeva, la sconfitta di Demetrio davanti a Rodi. La allettante proposta di riconoscere nel gruppo di Scilla e della nave di Ulisse a Sperlonga la copia di un originale in b. di Rodi degli anni 180 a.C., in seguito trasportato a Costantinopoli, ci restituisce il gruppo tecnicamente più ardito di tutta la storia della scultura. Si suggerisce di attribuire la stessa data e la medesima origine all'originale del Laocoonte, la cui cronologia è stata tanto discussa.
Tre scoperte e due interventi di restauro fanno sì che, per quanto riguarda i grandi b. romani, siano le statue equestri quelle più studiate negli ultimi anni. La prima opera considerata è un Augusto, originariamente a cavallo, ripescata nell'Egeo nel 1979. Si tratta della prima statua equestre conosciuta di Augusto. La vivacità della posa, la piccola testa in forte torsione su un collo molto allungato e il viso magro la distinguono dai tipi già noti e analizzati. Si è proposto di riconoscervi un'opera commissionata da Augusto mentre era ancora in vita, ed eseguita in Grecia, probabilmente da uno scultore greco, indipendentemente dai tipi ufficiali.
Alcuni grandi frammenti - il cavaliere e la testa del cavallo - di un'altra statua imperiale sono stati scoperti a Miseno, accanto al Tempio di Augusto. Il volto è quello di Nerva, ma risulta sostituito a quello originario: non può trattarsi che di una curiosa forma di damnatio memoriae di Domiziano. Per economia, non si è sostituita l'intera testa, il che ha costretto ad allargare lo stretto viso di Nerva per adattarlo al cranio più largo del suo predecessore. È dunque a Domiziano e ai suoi scultori che dobbiamo attribuire la scelta della corazza di tipo ellenistico, animata da un movimento che ci fa supporre che il cavallo fosse fortemente impennato. Si riscontra un richiamo cosciente delle statue ellenistiche, forse proprio dell'Alessandro a cavallo, che conosciamo grazie a una celebre statuetta di Ercolano, generalmente posta in relazione con il Gruppo del Granico di Lisippo, che era stato trasportato a Roma. Anche la sorprendente nervosità della testa del cavallo è ugualmente lontana dai modelli classici. La corazza è decorata con ricche incrostazioni di colore.
La maggior parte delle statue equestri romane si oppone a questa corrente ellenistica, riallacciandosi in forme diverse alla scultura classica. L'analisi dei monumenti presi in esame, che vanno dal Gruppo di Cartoceto ai Cavalli di San Marco, è stata arricchita dalla pubblicazione delle osservazioni effettuate nel corso del restauro della statua di Marco Aurelio.
Il gruppo in b. dorato scoperto nel 1946 in frammenti a Cartoceto, nei pressi di Pesaro, e attualmente custodito a Pergola, è costituito da due cavalli, montati da due giovani principi giulio-claudî e da due donne stanti. I cavalli, e soprattutto le loro teste che portano una bardatura ornata con numerose falere raffiguranti busti di divinità, rappresentano un'eco diretta della predilezione nutrita dai primi giulio-claudî nei confronti dell'arte greca classica: l'equilibrio tra l'animazione della bocca dei cavalli e la forma quasi geometrica delle loro guance annovera, tra i primi richiami espliciti, i cavalli dei frontoni del Partenone. Le teste dei cavalieri e il panneggio delle figure femminili appaiono al contrario più distanti dall'arte ufficiale.
La documentazione raccolta a proposito dei Cavalli di San Marco ha fatto registrare grandi progressi per la comprensione di queste opere, che bisogna decisamente rinunciare ad attribuire all'ex voto dei Rodi a Delfi. Anche se nessuna conclusione può essere considerata assolutamente certa, numerose osservazioni si impongono. Innanzi tutto, il tipo fisico dei cavalli, molto più pesanti dei precedenti, riconduce all'arte della seconda metà del II sec., quando le trasformazioni tattiche portarono a selezionare cavalli più pesanti, adatti a resistere ai colpi sul campo di battaglia. Nonostante le differenze stilistiche, rilevabili, p.es. nel gioco delle gambe, si tratta del tipo che si ritrova nella statua del Marco Aurelio e nei rilievi contemporanei. Il confronto, effettuato nelle mostre organizzate a seguito del restauro dei Cavalli di San Marco, tra uno di questi esemplari e il cavallo in b. del Museo dei Conservatori, metteva in evidenza la divergenza dei due tipi, sensibile nella sottigliezza dell'incollatura e nell'esilità delle cosce, che hanno fatto considerare la statua dei Conservatori un originale greco. Ma la guancia piatta e la criniera accuratamente incisa dei cavalli di Venezia li distinguono anche dai monumenti di Marco Aurelio. L'ipotesi più soddisfacente è dunque quella che li collega alla sistemazione dell'ippodromo di Bisanzio effettuata da Settimio Severo. In ogni caso questi b. ci mostrano proprio le grandi, opposte tendenze della scultura romana ufficiale.
La storia delle statuette ellenistiche e romane è totalmente diversa da quella delle statuette arcaiche, soprattutto perché non è uguale la loro funzione. I piccoli b. sono ormai creati per la decorazione delle case come dimostrano gli scavi di Efeso, di Pergamo e di Delo. Nelle città vesuviane, come nelle zone più romanizzate delle province, gruppi di figurine decoravano i larari. In Egitto, per lo meno in età romana, statuette di Afrodite in b., talvolta in argento, facevano parte del corredo che la sposa portava con la sua dote. Spesso però abbiamo ormai a che fare con veri e propri oggetti d'arte, privi di un significato particolare.
Una prima serie è costituita dai b., ellenistici o di tradizione ellenistica, che rispecchiano gli stili, successivi tra loro, della grande scultura. La difficoltà, ancor più che non per la grande plastica, è data dalla frequente ripetizione di tipi più antichi, sia che essa rappresenti un richiamo cosciente o che si spieghi come una meccanica ripetizione. L'uso, frequente per lo meno in Egitto, dei calchi in gesso esportati per dar luogo a imitazioni, rende spesso difficile l'attribuzione di un determinato esemplare a un certo luogo o a un certo periodo. Sono appena state pubblicate alcune teste di negro in gesso scoperte a Sala, in Marocco. Si tratta di pastiches che sono continuati anche in epoca moderna: così la più celebre delle figure di giovane negro di stile egizio, quella della Collezione Caylus, è sicuramente un lavoro manierista del XVII secolo.
Alcune grandi tendenze rimangono chiare. Gruppi di lottatori, in Asia Minore e in Egitto, figurano tra le composizioni piramidali della seconda metà del III secolo. Alcune statuette dell'Asia Minore riflettono lo stile pergameno. Due satiri, dalla stessa Pergamo, dimostrano la progressiva banalizzazione dello stile. In nessun momento però i bronzisti hanno mostrato l'ardire che caratterizza gli scultori del grande altare: si tratta di una timidezza relativa, che ha indotto troppo spesso a datare «intorno al 160» le più belle statuette, come per sottolineare, con questo intervallo di 20 anni, quella che di fatto è la distanza tra l'arte creativa e le sue immediate imitazioni. Al contrario nella piccola bronzistica non conosciamo Galati feriti, se non in età romana, da Nicopoli ad Alesia.
L'originalità dell'Egitto consiste nell'aver creato un repertorio particolare di piccoli b., con figure che chiamiamo «grottesche» o «di genere», le quali rispecchiano il medesimo mondo, segnatamente quello della città di Alessandria, dei mimi di Eroda e di alcuni idilli di Teocrito. Nello stesso periodo a Smirne, gli stessi personaggi erano rappresentati soltanto in terracotta. Alcuni testi provano la continuazione di tale produzione in età romana, e possiamo constatare il particolare successo e il numero delle derivazioni in alcune province piuttosto che in altre: i giovani negri sono particolarmente numerosi in Gallia, salvo che sui vasi configurati, che i moderni chiamano balsamarî, che si ritrovano in tutto l'impero da Oriente a Occidente.
A tale produzione si potrebbe opporre quella della Grecia vera e propria, a dire il vero mal conosciuta per l'epoca ellenistica e praticamente ignorata per quella romana, non tanto per mancanza di ritrovamenti, quanto per carenza di studi. Come avviene per i grandi marmi, il richiamo alle opere classiche anche in questo campo ha avuto inizio assai presto: p.es. una grande statua di Dioniso rinvenuta in Acarnania e pubblicata di recente, con un fenomeno tipico dell'epoca, riprende nel II sec. un tipo di IV. Anche un ritrovamento come quello di Paramythia, in Epiro, già da parecchio tempo entrato a far parte delle collezioni del British Museum, attende ancora uno studio esauriente, così come il ripostiglio di Ambelokipi ad Atene.
In ogni caso emerge con evidenza che numerosi tipi romani sono stati elaborati nella seconda parte dell'età ellenistica, si tratti di statuette o di decorazioni di mobili, che si diffondono a partire dal III e soprattutto nel II sec. a.C. Il gruppo più importante è costituito dalle decorazioni dei braccioli dei letti, i fulcra, ai quali dobbiamo aggiungere numerosi busti che decoravano anche le casse. Che si tratti di statuette o di fulcra è stato ampiamente dimostrato da alcuni recenti studi, incentrati su Dioniso-Bacco. Alla fine dell'età ellenistica le navi trasportavano dalla Grecia verso Roma, oltre ai marmi neoattici, letti e candelabri di bronzo. Al relitto di Mahdia dobbiamo aggiungere soprattutto quello del golfo di Juan-les-Pins in Provenza.
Questa continuità non rende più semplici le datazioni. Alcune scoperte, effettuate a Delo e a Pella, ci forniscono dei punti di riferimento cronologico, ma una tappa indispensabile per il progresso della ricerca sarebbe costituita, in questo campo, dalla pubblicazione, anche se solo segnaletica, del corpus integrale delle statuette e dei vasi ritrovati nelle città vesuviane.
Lo studio delle statuette romane ha registrato maggiori progressi per quanto riguarda la loro distribuzione geografica che non la loro cronologia. Solo alcuni complessi, che risalgono agli inizi o alla fine dell'età imperiale, sono datati dai contesti di scavo, mentre i confronti con la grande statuaria il più delle volte non sono sufficientemente probanti per fondare su di essi una datazione. Nel quadro dei grandi sforzi compiuti per la pubblicazione di cataloghi di materiale, l'Italia, eccezion fatta per la Cisalpina, è in ritardo: di grande importanza sarebbe, p.es., un catalogo dei b. scoperti a Roma. Nella Cisalpina le statuette, molto numerose e originali sino alla fine del IV sec., sono assai diverse da quelle dell'Italia centrale e meridionale, con tipi particolari, soprattutto le appliques delle bardature in b. dorato, che risalgono a età alto-imperiale. Altrove si distinguono assai chiaramente alcune province, le cui vicende storiche rendono chiaro che i ritrovamenti in esse effettuati sono in tutto e per tutto romani. È il caso del Marocco, dove vi era una fortissima presenza militare, e della Pannonia, dove la maggior parte dei b. proviene dalle ville dei coloni romani.
Il peso delle tradizioni religiose in Egitto e in Siria, così come nella Tracia, è la ragione principale della peculiarità dei repertori e delle forme. Il caso dei carri funebri traci, non ancora spiegato sino in fondo, è particolare. Il caso della Gallia, comprendendo in essa la Svizzera e la Germania, è più complesso. Uno studio d'insieme, la sola opera che tratti sistematicamente la produzione dei b. figurati in una regione dell'Impero, insiste sull'originalità delle statuette, che qui erano assai numerose. In alcuni casi se ne comprende la ragione, quando le credenze locali, più o meno legate a un sostrato celtico, si riflettono nelle raffigurazioni. In altri casi sarebbe necessario verificare le ipotesi che sono state avanzate, in particolare relativamente all'esistenza di schemi formali giunti dalla Grecia, senza che siano attestati in Italia.
Abbiamo già accennato alla predilezione manifestata dai bronzisti della Gallia, o dai loro clienti, per i soggetti alessandrini, come negri o grotteschi. La Gallia inoltre risulta particolarmente interessante, in quanto vi si possono individuare le varie tappe della nascita e dello sviluppo della produzione, in parallelo a quelle della grande scultura: alcuni rari pezzi anteriori al 70 d.C. circa, uno sviluppo in età flavia, un'abbondante produzione in età antonina e severiana. La statua di bronzo scoperta a Coligny, nell'Ain, che probabilmente raffigura Marte, segna un'importante tappa per il fatto che, nonostante la costruzione maldestra del corpo che ricorre anche in alcune statue in pietra, la testa riporta direttamente ai rilievi della Cancelleria, così: come ad alcune statue in pietra della Gallia. È stato evocato a questo proposito il nome di Zenodoro, autore della colossale statua del Mercurio Arverno. Alcuni altri pezzi eccezionali, soprattutto maschere e teste, sono invece molto discussi: il loro carattere non romano, evidente nel rifiuto delle convenzioni e delle forme della plastica greco-romana, deve essere considerato «primitivo» o piuttosto «provinciale» e tardo?
È opportuno dedicare uno spazio particolare ai vasi decorati. Dalla metà del V alla fine del IV sec. a.C. la maggior parte di essi è costituito da hydrìai spesso utilizzate come urne cinerarie. La serie principale è caratterizzata dalla presenza, alla base dell'ansa verticale, di un rilievo eseguito a sbalzo, in genere di altissima qualità, che riporta ai medesimi modelli dei rilievi in marmo e alle medesime botteghe di bronzisti che decoravano gli specchi a «teca».
Le tombe della Macedonia della seconda metà del IV sec. a incominciare da quella di Filippo II, attribuiscono al vasellame in metallo un'importanza che ricorda quella delle tombe della Tracia. Nella tomba di Filippo, come in quella contigua del «principe» a Verghina-Aigai il vasellame da tavola è in argento e quello da cucina in bronzo. A Derveni invece, alla periferia di Salonicco, le sei tombe che sono state ritrovate, databili sembrerebbe tra il 320 e il 310 c.a, non contenevano che vasi di b., eccezion fatta per la più ricca che ha restituito 20 vasi d'argento e il celebre cratere bronzeo a rilievo, capolavoro dell'arte macedone. Appare chiaro, se si analizzano la decorazione del cratere e le forme dell'insieme del vasellame in parallelo alle altre produzioni dell'età di Filippo, di Alessandro e dei suoi immediati successori, che Filippo volle dar vita a una vera e propria arte di corte, facendo appello ad artisti di diversa provenienza. Gli elementi peloponnesiaci della decorazione del cratere sono fuori discussione, così come è evidente la sua parentela con la ceramica apula. Da questo punto di vista Filippo, facendo giungere dalla Magna Grecia oggetti di b. e artigiani esperti nella sua lavorazione, si poneva nella scia dei suoi predecessori, e soprattutto dei capi traci del V e del IV secolo. Ma il declino politico della Macedonia sancirà quasi del tutto la fine di tale produzione sul posto; e sarà l'argenteria tolemaica ad assumerne la continuazione.
Nelle città vesuviane, il vasellame da tavola di lusso è anch'esso in argento, anche se numerosissimi crateri e anfore di b. avevano una decorazione figurata sulle anse. Dopo il 79 d.C., si segue meno bene l'evoluzione di questi prodotti, sparsi per tutto l'impero. È quasi certo che i ritrovamenti della regione che va da Lione a Chalon-sur-Saône dimostrano l'esistenza di botteghe locali che imitano e continuano le produzioni campane. Alcuni tipi di vasi e di piatti decorati sono stati prodotti in Gallia. Un recente studio mostra la diffusione del vasellame bronzeo al di fuori delle frontiere dell'Impero: più di 300 vasi costellano, nel corso di tutta l'età romana, la via dell'ambra, dal Baltico ad Aquileia. In molti casi accade che questi ritrovamenti in ambiente esterno forniscano, p.es. attraverso i contesti tombali, delle preziose indicazioni cronologiche.
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(C. Rolley)
Cina. - Le origini della metallotecnica in Cina sono a tutt'oggi ancora molto nebulose. Probabilmente i manufatti in b. più antichi della Cina sono quelli rinvenuti in contesti culturali Machang e Qijia (fine del III millennio a.C.) nella provincia del Gansu, nella Cina nordoccidentale. L'elevato livello tecnico raggiunto nel corso del III millennio a.C. nell'ambito dell'artigianato ceramico, e in particolare nella struttura delle fornaci capaci di raggiungere temperature molto elevate, deve essere considerato il presupposto principale all'evoluzione dell'arte fusoria cinese. Non a caso le fonderie sono spesso spazialmente collegate, nella Cina arcaica, ai «palazzi» e alle fornaci per la cottura delle ceramiche.
Ancora al Calcolitico devono però ascriversi i resti scavati nel 1978 nel sito di Taosi (2400-1800 a.C.), nella provincia dello Shaanxi, tra i quali figurano due campanelle, a sezione romboidale, in rame puro al 98%.
Una metallurgia matura è invece quella rappresentata dagli oggetti in b. rinvenuti nel sito di Erlitou, c.a 4 km a E della città di Luoyang, nel distretto di Yanshi (Henan), datato tra il 2000 e il 1700 a.C. In sepolture verosimilmente appartenenti alla locale «aristocrazia» erano vasi rituali e armi in b. facenti parte di corredi la cui composizione (da un minimo di 10 oggetti a un massimo di 20) sembra regolata da precise norme rituali: nella forma tipica compaiono una brocca (jue) in b. e una caraffa con coperchio (he) in ceramica, un'alabarda (ge), e un'ascia da battaglia (qi) in bronzo. L'inventario dei b. rinvenuti a Erlitou, comunque, varia da oggetti di piccole dimensioni, quali coltelli, lesine, scalpelli, punte di freccia, ami e campanelli, a oggetti di medie dimensioni quali armi e contenitori rituali, questi ultimi già realizzati per fusione con colatura diretta in matrici composite; la bronzistica cinese, infatti, sembra non aver conosciuto una fase di lavorazione del metallo per martellatura. Il vaso rituale più comune, usato per scaldare bevande alcoliche, è la brocca con corpo a clessidra, lungo versatolo, larga imboccatura a vela, fondo poggiante su tre piedini eccentrici (jue). Tale contenitore, solitamente provvisto di ansa verticale, era decorato talvolta da bugnette lungo il perimetro della base e da costolature sul corpo similmente ai prototipi fittili della cultura neolitica di Longshan. Nella categoria delle armi (fuse in matrici di ceramica a due valve), molto spesso la porzione posteriore delle alabarde (ge) appare decorata con motivi cosiddetti «a nuvola» o con motivi teriomorfi. La cultura di Erlitou grosso modo corrisponde cronologicamente all'arco di tempo tradizionalmente assegnato all'ancor mitica prima dinastia Xia (c.a XXI-XVII sec. a.C.) e alla dinastia storica Shang (XVII- XI sec. a.C.) verosimilmente creatrici della prima struttura statale della Cina. Strettamente connessa con l'affermazione dei concetti legati alla regalità e al governo statale, la tecnologia del b. svolse nella Cina arcaica un ruolo principalmente politico, dal momento che fin quasi al VII- VI sec. a.C., al momento della introduzione dell'uso del ferro, gli strumenti di produzione agricola e artigianale sembrano essere stati realizzati, come in età neolitica, in materiali non metallici.
Una tecnologia già pienamente sviluppata è quella che possiamo ricostruire dai resti rinvenuti in due officine per la produzione di oggetti in b. scavate negli anni '50 a Zhengzhou (provincia di Henan), città di epoca Shang, fase predinastica (c.a XVI-XIV sec. a.C.). Delle due zone di lavorazione, quella nell'area Ν della città (area archeologica di Zijingshan) era costituita da quattro strutture in terra pressata su una superficie di 275 m2 e quella nell'area S da una struttura in terra pressata su una superficie di 1050 m2; in ambedue le zone di lavorazione furono rinvenuti resti di crogioli, stampi ceramici, matrici composite, «nuclei» fittili per la realizzazione dei piedi cavi dei vasi e diversi piccoli strumenti in bronzo.
I molti oggetti rinvenuti nelle sepolture aristocratiche scavate nell'area archeologica di Minggonglu a Zhengzhou trovano confronti tipologici nei corredi funerari scavati in poche altre necropoli nella valle del Fiume Giallo e nell'unico sito di epoca Shang fino a oggi conosciuto nella media valle del Fiume Azzurro, Panlongcheng. Si tratta di diversi tipi di vasi con funzione specializzata, destinati al contenimento o al riscaldamento di alcolici, alla libagione, alla cottura di cereali o di carni. Le forme delle brocche (jue) costituiscono una evidente evoluzione dei prototipi di Erlitou, a cui si affiancano tipi nuovi, precedentemente prodotti in ceramica, quali i tripodi da cottura (li), i tripodi per alcolici (jia), i bicchieri o coppe dal corpo fortemente svasato (gu). Sia i jia, sia i li e i gu presentano una fascia decorativa sul corpo riempita da draghi (gui) affrontati a formare, con il profilo dei musi, la maschera terrifica taotie, il più ricorrente, forse, tra i motivi simbolico-decorativi della bronzistica arcaica e arcaistica cinese.
Ancora decorati da draghi e da bugnette lungo il perimetro di ciascuna faccia sono i due tetrapodi (ding) rinvenuti nel 1974 in due diverse fosse rituali a Zhengzhou, rispettivamente del peso di 86,4 e di 64,25 kg. Tali vasi, e ancora più quelli prodotti nella successiva «fase dinastica», rivelano una sofisticata tecnica di fattura che consiste nella realizzazione di un modello in argilla sul quale l'artigiano agevolmente incideva complesse decorazioni. Una volta seccatosi, il modello veniva ricoperto da diversi strati di argilla molle, su cui si imprimeva la decorazione del modello in negativo: quest'argilla veniva quindi tagliata in diversi «spicchi» o sezioni, mentre il modello era accuratamente raschiato e levigato in modo da ridurne le dimensioni. Le sezioni, preventivamente tagliate, venivano poi riunite al modello ridotto e fissate a esso tramite dei chiodi distanziatori in bronzo. A questo punto veniva colata la lega, fusa a una temperatura di 1150 °C, che grazie alla fluidità del piombo e dello stagno si distribuiva uniformemente nello spazio libero tra il modello e le sezioni della matrice esterna; appositi sfiatatoi permettevano la fuoriuscita dei gas e dell'aria al momento della colata. Una volta raffreddatosi il metallo, la matrice esterna poteva essere spaccata e, rimosso il modello interno, si procedeva alla rifinitura della decorazione.
In epoca Shang, fase classica o dinastica (XIII-XI sec. a.C.), mentre nell'inventario delle forme compaiono nuovi tipi e varianti, le decorazioni si arricchiscono e si espandono su tutto il corpo del vaso. La sintassi decorativa, gli elementi che la compongono (per lo più motivi zoomorfi fortemente scomposti, o «esplosi») e il contesto di rinvenimento dei vasi, particolarmente quelli deposti in fosse rituali nell'abitato e nella necropoli reale di Yin, ultima capitale Shang presso An'yang (Henan), ne evidenziano la funzione rituale e, per conseguenza, politica. Principale fruitore di tali oggetti è la classe dominante che li utilizza, verosimilmente, in funzioni di tipo sciamanico per comunicare ritualmente con gli antenati, i capostipiti di quei lignaggi agnatizi che costituiscono la base della struttura sociopolitica e del potere Shang. Le decorazioni zoomorfe sarebbero da interpretare come la rappresentazione dell'animale totemico a cui l'officiante/sciamano, e primo fra tutti il re, affidava il suo spirito per comunicare con «l'antenato», nella trance verosimilmente procurata dall'uso di bevande alcoliche. Particolarmente sostanziata sarebbe tale interpretazione dalla presenza di vasi zoomorfi in cui la figura umana appare protetta, contenuta o abbracciata dall'animale stesso. Nel monopolio della produzione del b. è, dunque, da ravvisare la manifestazione più concreta della regalità Shang, tanto che i frequenti spostamenti della capitale del regno sarebbero interpretabili come dettati dall'esigenza di controllare da vicino lo sfruttamento delle piccole miniere, facili all'esaurimento, da cui proveniva la materia base, in lingotti, destinata alle officine della capitale dove la tecnologia della fusione e colatura del bronzo aveva raggiunto il suo apice: mentre, infatti, all'epoca della cultura di Erlitou e nella «fase Shang pre-dinastica», la composizione della lega non è mai percentualmente costante, nella fase dinastica i tre componenti principali, rame, stagno e piombo, sembrano rispettivamente attestarsi intorno ai valori di c.a 80% Cu, 13% Sn, 7% Pb. Tali valori caratterizzano anche gran parte del vasellame rituale dei Zhou Occidentali (XI sec.-770 a.C.).
Con quest'ultima dinastia l'arte fusoria è ancora esclusivamente legata alla produzione dei parafernalia rituali e politici della classe dominante, anche se la netta diminuzione dei «vasi da vino» lascia trasparire la sostituzione dei rituali Zhou (originari della valle del fiume Wei) a quelli Shang (originari della bassa valle del Fiume Giallo). Ai simboli, probabilmente legati al clan, presenti su molti vasi Shang, inoltre, si sostituiscono vere e proprie iscrizioni che fanno del vaso il supporto celebrativo e «storico» di eventi rituali o, più spesso, di pietà filiale, essendo il vaso stesso fuso, di solito, in onore del padre del committente. I vasi in b. si trasformano lentamente da simbolo materiale del legame esistente tra aristocrazia e «mondo degli spiriti» o «Cielo» (unico regolatore delle cose umane) a simbolo di un legame politico, o all'interno dei singoli lignaggi aristocratici o tra questi e quello regale.
Sui vasi (zun), sulle caraffe (he), sui recipienti per cibi (gui), o i vasi per acqua (lei), per citare solo alcune tra le forme più frequenti, compaiono ora decorazioni più severe o decisamente geometriche (costolature, spirali quadre, bottoni o girali) o zoomorfe che, pur geometrizzate, sono ben riconoscibili in tutti i loro elementi. Il b. è ora, ancor più che in epoca Shang, impiegato per la fusione di armi e finimenti per cavalli e carri con leghe molto variabili nella percentuale di composizione.
Già nell'VIII sec. a.C. la fusione di vasi in b. non è più monopolio esclusivo del clan reale; si assiste, infatti, al sorgere di diversi stili regionali la cui fioritura si farà ancor più manifesta nei periodi detti delle «Primavere e Autunni» (770-476 a.C.) e degli «Stati Combattenti» (475-221 a.C.). Nelle decorazioni, la tendenza alla geometrizzazione, tra l'VIII e il III sec. a.C., o si mantiene nell'ambito di severe costolature o si traduce, più spesso, in motivi a voluta, a greca, a rete o a meandri formati da draghi o esseri serpentiformi intrecciati tra loro. La decorazione zoomorfa si piega anche alle esigenze del decorativismo e si trasforma in qualche elemento funzionale del vaso (manico, versatolo, piede) realizzato in forma di tigre, drago o elefante.
Intorno al VI-V sec. a.C., i vasi, ormai non più colati in matrici composite utilizzate per una sola colata, si arricchiscono, anche grazie ai primi esperimenti di fusione a cera persa, verosimilmente importata dalle zone più settentrionali dell'Asia sud-orientale, di nuove tecniche decorative, tra cui prevale l'intarsio in argento, rame o, raramente, in oro, colato in appositi alloggiamenti incisi sulla matrice singola, utilizzata per la fusione di diversi esemplari.
Ai motivi simbolico-decorativi si affiancano quelli figurativi, con soggetti che rappresentano scene di battaglia o a carattere rituale.
L'arte fusoria, che si avvale già del carbon fossile come principale combustibile, è, soprattutto nel periodo degli «Stati Combattenti», ancora completo monopolio delle casate aristocratiche, tanto più potenti e ricche quanti più sono gli oggetti in b. (vasi, armi, specchi, strumenti musicali, finimenti per cavalli e carri, mobili) da esse posseduti.
L'artigiano inoltre, almeno dal VI sec. a.C., ha iniziato a misurarsi con la resa plastica della figura umana e animale, forse influenzato da elementi artistici provenienti dall'arte delle steppe.
La dovizia di b., lavorato in quantità industriali, a partire dal VII sec., è spiegabile grazie al livello di sviluppo raggiunto dalle tecniche estrattive. Tale livello è esemplificato dai rinvenimenti effettuati nelle miniere di Tonglushan, nello Hebei, e Ganxia, nello Hubei, attive dal periodo delle «Primavere e Autunni». Lo sfruttamento delle miniere significa la piena capacità di seguire filoni sotterranei di rocce metallifere tramite gallerie e pozzi forniti di camini d'aria interamente foderati da sofisticate strutture in assi di legno legate a incastro.
Nella bronzistica arcaica tarda spicca, per qualità delle leghe e delle decorazioni, la produzione di specchi, già iniziata in epoca Shang e protrattasi - sempre più scadente - pressoché ininterrotta fino ai nostri giorni. Carico di significati magico-rituali che si esprimono tutti nella sua forma circolare e nelle decorazioni del verso, lo specchio veniva di solito indossato sul cuore o in combattimento o al momento della sepoltura a difesa di quel prezioso organo, oppure appeso alla volta della tomba a «illuminare» il cammino del defunto nell'aldilà. All'epoca della dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.), mentre la funzione del vasellame esaurisce definitivamente il suo carattere strettamente rituale, la produzione degli specchi in b. raggiunge forse il suo apogeo, specialmente nei tipi con decoro a «TLV» e nei tipi fittamente decorati da simboli e figure del pantheon taoista prima e poi, dal II sec. d.C., di quello buddhista.
Dal IV sec. la bronzistica offre il supporto materiale all'espressione della fede buddhista con figurine in bronzo dorato di piccole e medie dimensioni, prima ispirate a prototipi iconografici di provenienza indiana e in seguito sempre più sinizzate. È nel corso della dinastia Tang (618-907) e, soprattutto, in epoca Song (960-1279) che nella piccola statuaria si espressero veri e propri talenti artistici. Ancora in epoca Tang, va segnalato un fortunato momento di rinnovamento nella produzione degli specchi, particolarmente quelli del tipo argentato con ricchi decori «a leoni e grappoli». Nel corso della dinastia Song, anche in seguito al rinnovamento della filosofia confuciana (neoconfucianesimo), venne istituita una fonderia di Palazzo (XIII sec.) per la produzione di vasi in b. secondo i modelli tipici delle epoche Xia, Shang e Zhou, dando così inizio a quella bronzistica detta «arcaistica» che seppe produrre esemplari di elevato livello tecnico e formale, almeno fino alla fine della dinastia Ming. Sia in epoca Song sia, in parte, in epoca Ming la riproduzione dei vasi arcaici non ebbe soltanto un valore estetico ma anche magico- rituale: nel rifacimento di quegli oggetti si voleva, infatti, rievocare l'aura sacrale posseduta dai prototipi arcaici, creduti capaci di influire positivamente nelle scelte etiche e politiche degli uomini.
È, ancora, in epoca Song che iniziano i primi studi antiquariali e la pubblicazione delle collezioni imperiali e private di b. arcaici e si stabilisce un sistema di classificazione ancora oggi largamente usato.
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