Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Umanista di profonda cultura, Bruni è tra i primi del suo tempo a rendersi conto dell’importanza civile della letteratura. Tra i maggiori traduttori dal greco dei grandi filosofi dell’età classica. Viene ricordato, oltre che per la sua monumentale Historiae florentini populi e le biografie su Dante e Petrarca (Vita di Dante e Vita di Petrarca) anche per la notevole importanza, in ambito filosofico, delle sue traduzioni dei testi di Platone così come quelli di Aristotele.
La vita e le opere non filosofiche
Leonardo Bruni nasce ad Arezzo nel 1370 da una famiglia Guelfa. In giovane età si trasferisce a Firenze, ove compie studi di retorica e diritto, stringe rapporti di amicizia con l’anziano e celebre maestro e cancelliere Coluccio Salutati (1331-1406), che lo mette in contatto con numerosi giovani umanisti, come Poggio Bracciolini (1380-1459) e Niccolò Niccoli (1364-1437). Approfondita la conoscenza sia della lingua e della letteratura latina, sia del greco, che studia con il celebre maestro bizantino Manuele Crisolora (1350 ca. - 1415), Bruni intraprende un’intensa attività di traduttore dal greco. Nel 1405 si trasferisce a Roma, dove, salvo brevi interruzioni (come il breve soggiorno a Firenze e ad Arezzo del 1412, quando sposa Tommasa, donna proveniente da un ricco casato fiorentino), lavora lungamente alla Curia, al servizio dei papi Innocenzo VII (1432-1492, papa dal 1484), Gregorio XII (1325 ca.-1417, papa dal 1406 al 1415), Alessandro V (1340 ca. - 1410, antipapa 1409-1410) e Giovanni XXIII (1370 ca. - 1419, antipapa 1410-1415, dell’ubbidienza pisana). Nel 1414 si reca a Costanza per partecipare al concilio che avrebbe dovuto porre fine allo scisma ma, raggiunto dalla notizia della deposizione di papa Giovanni XXIII, deve abbandonare precipitosamente la città per rifugiarsi in Italia. Nel 1415 rientra a Firenze, ne ottiene la cittadinanza e vi svolge studi letterari, storici e filosofici, partecipando attivamente alla vita politica. Nel 1427 viene eletto cancelliere, carica che tiene sino alla morte, il 9 marzo 1444.
Autore di eleganti composizioni latine, Bruni si segnala per le sue orazioni, di argomento sia religioso – come l’Oratio in hypocritas (1417), sintesi dei temi tipici della polemica umanistica contro la vita monastica – sia politico. Fra queste ultime spiccano la Laudatio Florentinae urbis, composta nel 1403-1404, e l’Oratio in funere Iohannis Strozzae, del 1428. Rifacendosi a modelli greci, Bruni vi esalta la bellezza, la virtù e i successi politico-militari di Firenze, assurta a simbolo di una repubblica ideale, reincarnazione dell’antica polis greca e baluardo contro la tirannide. Governata dalla legge e fondata sui principi dell’uguaglianza e del merito, Firenze gli appare come una nuova Atene, patria della civile convivenza chiamata a svolgere una duplice missione: in ambito politico, difendere la pace e la libertà dell’intera Italia; in ambito culturale, diffondere nel mondo intero gli studia humanitatis dopo secoli di barbarie intellettuale, di corruzione linguistica, di disprezzo per i saperi veramente “umani”.
Ricca è la produzione storiografica di Bruni: oltre ai dodici libri delle Storie fiorentine, la cui stesura lo accompagna per tutta la vita, meritano di essere ricordati il Commentarius rerum suo tempore gestarum, il De bello italico adversus Gothos libri IV, le biografie di Aristotele (384 a.C. - 322 a.C.) e Cicerone (106 a.C - 43 a.C.), composte in latino, e quelle, italiane, di Dante (1265-1321) e Petrarca (1304-1374). Mentre il ricco epistolario bruniano rappresenta una fonte eccezionale per ricostruire la vita politica e culturale del tempo, le traduzioni in latino di Omero, Aristofane, Senofonte, Plutarco, Eschine e Demostene, nonché le composizioni in greco – come il trattato sulla costituzione di Firenze – documentano la notevole padronanza di questa lingua, che comunque trova la sua massima espressione nelle grandi traduzioni di testi filosofici.
Le traduzioni di Platone e Aristotele
È significativo che, fra le tante traduzioni in latino curate da Bruni, quella di maggior successo sia stata quella dell’Epistula ad adolescentes (o de utilitate studii) del grande Padre della Chiesa greco Basilio (330-379), terminata entro il 1403 e dedicata a Coluccio Salutati. L’elogio che Basilio aveva fatto dello studio dei grandi autori pagani, in particolar modo dei poeti e di Platone (428/427 a.C. - 348/347 a.C.), ritenuti utili alla cultura cristiana, prima ancora di diventare un vero “manifesto” del movimento umanistico, rappresenta il motivo ispiratore della lunga e influente opera di traduzione dei “classici della filosofia” che Bruni intraprende nel 1404-1405 e prosegue per oltre trent’anni.
In un primo tempo, incoraggiato da Crisolora e Salutati, Bruni rivolge la sua attenzione a Platone, le cui opere erano solo in minima parte note al Medioevo. Pur non riuscendo a tradurre, come si proponeva, tutti i dialoghi, Bruni realizza eleganti versioni latine del Fedone (1404-1405), dell’Apologia di Socrate (1404-1409; seconda versione nel 1424-1427), del Critone (1404-1409; seconda versione nel 1424-1427), del Gorgia (1409) e delle Lettere (1427). Traduce inoltre frammenti del Fedro (1424) e del Simposio (1435), nonché l’Apologia di Socrate di Senofonte.
Non minore attenzione viene riservata alla filosofia pratica di Aristotele, di cui Bruni traduce prima l’Etica Nicomachea (1416-1417), poi gli pseudo-aristotelici Oeconomica (1420), infine la Politica (1436-1438). Pur se accolte favorevolmente da un vasto pubblico, come testimonia l’elevato numero di manoscritti e di edizioni a stampa, queste traduzioni suscitano aspre controversie. Un non meglio identificato Demetrio, noto solo dalla risposta datagli da Bruni nelle Epistolae, Battista de’Giudici (?-1483 ca.) e Alfonso di Cartagena (1384-1456) prendono le difese delle versioni medievali, giudicate meno eleganti ma più accurate; criticano Bruni per lo scarso rigore e l’imprecisione terminologica della sua versione e, in particolare, contestano violentemente la sua resa di alcuni concetti chiave dell’Etica Nicomachea, come quello di to agaton da lui, erroneamente, inteso come summum bonum. Nasce così, intorno al 1420, il De interpretatione recta: un opuscolo dalle dichiarate finalità auto-difensive, che nondimeno rappresenta la più approfondita discussione teorica sul “tradurre correttamente” che la cultura occidentale abbia prodotto dopo l’epistola che, una decina di secoli prima, san Gerolamo (347 ca. - 420) aveva indirizzato a Pammachio (340-409) per difendere il metodo della traduzione ad sensum. Anche Bruni, in aperta polemica con il metodo della traduzione parola per parola (ad verbum), spesso adottato nel Medioevo, difende una tecnica di traduzione più libera (ad sententiam), capace di cogliere il significato complessivo del testo aristotelico e di restituirne sia il contenuto concettuale sia la forma stilistica (l’ornatus), senza violare “la purezza del discorso latino” inquinandolo “con espressioni greche o barbare”.
Sarebbe riduttivo vedere in tutto ciò la mera espressione di un esagerato amore per la “retorica” e il “bello stile”. Certo Bruni da un lato insiste molto sui risultati anti-estetici del metodo dei traduttori medievali, che accusa di essersi comportati con lo Stagirita come chi deturpa un capolavoro di Giotto (1267-1337). D’altro lato, egli appare pesantemente condizionato da pregiudizi classicisti, che lo portano a considerare “non latina” qualsiasi parola non utilizzata da autori come Cicerone o Quintiliano (35 ca. - 96 ca.); è così costretto a rifiutare buona parte del lessico filosofico creato dai grandi traduttori del XIII secolo come Roberto Grossatesta (1175 ca. - 1253) e Guglielmo di Moerbeke (1215 ca. - 1286); finisce, suo malgrado, per introdurre una notevole confusione nella resa dei termini tecnici, incoerentemente sostituiti da una molteplicità di sinonimi e circonlocuzioni, mettendo al bando non solo i loro più ostici calchi dal greco, ma anche vocaboli ormai entrati nell’uso comune (e ripresi anche nelle lingue vernacolari) come politica (rimpiazzato dalla pesante perifrasi scientia gubernandarum rerum publicarum) e democratia (reso con la fuorviante espressione popularis potestas).
Ciononostante Bruni mira a coniugare le esigenze, fra loro conflittuali, dell’eleganza e della fedeltà e si vanta di non aver aggiunto o tolto “una virgola o una iota al pensiero (sensum) di Aristotele”. Proponendo ai traduttori di calarsi completamente nell’opera che stanno affrontando, fino ad essere “rapiti” dalla sua forza espressiva, egli confida, per parte sua, di poter fornire a quei lettori “che usano il latino ma ignorano la lingua greca” veri succedanei dei testi originari. Non a caso in un passo della prefazione alla Politica egli promette loro che, grazie alla sua versione, avrebbero stabilito con l’autore un rapporto di totale immediatezza, descritta ricorrendo addirittura alle immagini usate da san Paolo nel parlare della visione beatifica: “vedere Aristotele non attraverso gli enigmi e le follie di traduzioni false e ineleganti, ma faccia a faccia; e leggere in latino proprio quel che scrisse in greco”.
Le opere filosofiche e “l’umanesimo civile”
Le maggiori opere filosofiche di Bruni sono i Dialogi ad Petrum Paulum Histrum, risalenti al 1405-1406 e l’Isagogicon moralis disciplinae, un’introduzione alla filosofia morale scritta in forma dialogica forse nel 1423. Entrambi questi lavori esprimono alcuni dei motivi più caratteristici di quella concezione dell’esistenza umana che una lunga tradizione storiografica ha chiamato “umanesimo civile”. Oltre ad offrire una brillante descrizione delle discussioni che si svolgevano presso il circolo del Salutati, i Dialogi contengono una vibrante denuncia della cultura scolastica, del suo (presunto) abuso del principio di autorità, della sua inhumanitas derivante sia dallo scarso interesse per l’eleganza espressiva sia dall’attenzione, che Bruni considerava eccessiva, per le problematiche logiche e fisiche.
Ripresa da Aristotele l’idea che l’uomo è “animale politico”, Bruni si dichiara contrario a ogni scelta di vita solitaria, polemizzando sia contro un’interpretazione monastica e ascetica della vita religiosa, sia contro una lettura in chiave puramente letteraria ed estetizzante degli ideali umanistici: di qui, fra l’altro, la sua predilezione per Dante, ritenuto, dal punto di vista “civile”, superiore a Petrarca.
Favorevole a una concezione aperta e problematica della filosofia, fondata sullo studio delle bonae litterae, e pronto a servirsi di una molteplicità di fonti, non solo classiche, Bruni non celava comunque le sue simpatie per la filosofia pratica di ispirazione aristotelica. Non per nulla l’Isagogicon moralis disciplinae si presenta, come si è detto, come un compendio dell’etica dello Stagirita, e come tale viene incluso in numerose edizioni incunabole e cinquecentesche delle opere di Aristotele.
Bruni, innanzitutto, vi ribadisce la centralità del problema morale, sviluppando nuovamente la polemica antiscolastica: riecheggiati motivi introdotti nella cultura italiana dal Petrarca, egli osserva che per “ben vivere” non è necessario tanto conoscere “le cause della brina, della neve, dei colori dell’iride”, ma la natura del sommo bene e gli strumenti che consentono di esercitare la virtù, non solo nella vita privata ma soprattutto nella vita civile. Inoltre egli afferma che le differenze fra le principali dottrine morali antiche erano più verbali che sostanziali, e proponeva perciò una conciliazione fra le principali scuole filosofiche. A suo avviso la concezione aristotelica del sommo bene non sarebbe affatto in contrasto con quella stoica e con quella epicurea: tutte mirerebbero infatti a indicare all’uomo la strada per raggiungere una “felicità” intesa come armoniosa sintesi di “gioia” e “virtù”. Sia la pratica della virtù, raccomandata dagli stoici, sia la conoscenza e la contemplazione del vero, sulla quale aveva tanto insistito la tradizione aristotelica, porterebbero con sé “immensi piaceri”, assimilabili a quelli ricercati dagli epicurei. Si apre così la strada ad una valutazione positiva dell’insegnamento di Epicuro (341 a.C. - 270 a.C.), la cui ricerca del piacere sarebbe al contempo una ricerca di “giustizia, temperanza e prudenza”; ma ciò avviene nel quadro di una più generale rilettura del nesso, caro alla cultura umanistica, fra vita attiva e vita contemplativa che assegna un netto primato al bene comune.
Non meno originale di questo sforzo di trovare un accordo fra l’etica aristotelica, quella stoica e quella epicurea è il tentativo di sminuire le divergenze fra la concezione pagana e quella cristiana della vita. Pur ammettendo che la prima ricercava “il frutto della virtù in questa vita quale fine supremo” mentre la seconda indica “il fine di un’altra vita”, Bruni sostiene che non solo nel modo di considerare i vizi e le virtù, ma anche “in ciò che sembra appartenere specificamente alla Cristianità”, i filosofi antichi “concordano con noi, pensando, prescrivendo e insegnando le stesse cose”.