CICOGNANI, Bruno
Scrittore, nato a Firenze il 10 settembre 1879. Fu dapprima impiegato alle ferrovie; laureatosi quindi in legge, esercita da molti anni l'avvocatura nella sua città. Ha collaborato a numerosi giornali e riviste; ora scrive soprattutto nel Corriere della sera.
A prescindere da Crittogama (Firenze 1909), tentativo giovanile in cui è più di un accento dannunziano, i primi racconti del C.: 6 storielle di nòvo cònio (ivi 1917); Gente di conoscenza (ivi 1918; 2ª ed., con le Storielle, Milano 1924); Il figurinaio e le figurine (Firenze 1920; 2ª ed., col titolo Il figurinaio, ivi 1933), muovono dal verismo regionale, toscano: ambienti piccoloborghesi o popolareschi, figure di umili, di reietti, di vinti, ritratti con colorita varietà di lessico e con piglio risentito benché non sempre profondo. Tuttavia, sotto l'apparente impersonalità e crudezza del ritratto, e anzi spesso in contrasto con esse, l'animo vero dello scrittore si rivela in improvvisi accenti di pietà per i suoi tristi eroi, le sue "figurine", i suoi "omini"; in notazioni di delicato lirismo, che dànno alla pagina e al racconto un disegno e un ritmo che sono già più di poemetto in prosa che di bozzetto vero e proprio, secondo le esigenze e le esperienze degli scrittori impressionisti e frammentisti postdannunziani. E infatti nel romanzo La Velia (Milano 1923), nei racconti di Il museo delle figure viventi (ivi 1928) e di Strada facendo (Firenze 1929 [Milano 1930]), e ancor più nel romanzo Villa Beatrice (Milano 1931), mentre la sua visione si fa più ampia e quella sua pietà senso religioso della vita, il C. riesce assai spesso a riassorbire l'originario bozzettismo e colorismo in una atmosfera lirica e drammatica ad un tempo, che dà alle persone, al paesaggio, alle cose una più intima e armoniosa animazione. Poco vistose sono ormai le scorie naturalistiche e dialettali della sua prosa. La quale, anzi, nelle pagine e capitoli di L'omino che à spento i .fochi (Milano 1937), sul fondo narrativo tende a rilevare i temi e i movimenti propriamente lirici, e a configurarsi - non senza però concessioni all'eloquenza - come confessione o ricordo di largo respiro poetico. Il C. ha scritto anche una fiaba teatrale: Bellinda e il mostro (Milano 1927), più atta alla lettura che alla recitazione.
Bibl.: A. Baldini, in I libri del giorno, novembre 1918; G. Papini, Ritratti italiani, Firenze 1932, pp. 313-24; A. Tilgher, Ricognizioni, Roma 1924, pagine 171-82; A. Gargiulo, in L'Italia lett., 24 agosto 1930; A. Bocelli, in Nuova Antologia, 1° gennaio 1932; P. Pancrazi, Scrittori italiani del Novecento, Bari 1934, pp. 42-53; id., in Corriere della sera, 20 agosto 1937.